Fra Sud ed Europa. Studi sul Novecento letterario italiano di Antonio Lucio Giannone

Come e forse ancor più che in altri libri dello studioso, assume qui rilevata evidenza, nel consueto rigore del metodo – che gli consente di intersecare perfettamente l’orizzonte largo e variegato della storicità con lo spazio concentrato e “verticale” della testualità -, la proposta di una revisione decisiva di un canone storiografico ormai obsoleto ma ancora resistente per l’ottusa forza d’inerzia delle pregiudiziali ideologiche e geo-culturali che lo hanno a suo tempo istituito. Giannone riesce a restituire, con movenze straordinariamente equilibrate e convincenti, spessore e ricchezza di aperture e tensioni europee a una tradizione letteraria ancora troppo appiattita, e fin soffocata (ovvero strumentalmente celebrata), nella sua meridionalità, né manca di aprirsi con efficacia anche a una prospettiva comparatistica oggi più che mai attuale ed urgente.

La qualità differenziale e la saldezza dell’arco interpretativo che si distende in questo libro sembrano risiedere in particolare nella costante e sempre molto pertinente e documentata messa in rilievo – nel tessuto fitto ma sempre arioso dell’analisi – di un dato storico primario: la intrinsechezza costitutiva della dimensione nazionale ed europea all’opera degli scrittori meridionali cui sono dedicati gli undici capitoli, che di quella dimensione variamente interrogano e precisano la presenza organica e dinamica nel corpo dei testi, facendone emergere a nuova ricchezza ragioni compositive e  modalità espressive, in una riconfigurazione di identità e valori che riconduce le diverse vicende intellettuali e letterarie riattraversate alla loro complessità storica e semantica. E’ in questo, senza dubbio, la forza del libro: nel non intendere il Sud e l’Europa come i poli speculari ma estranei e remoti di una connessione per così dire paratattica, bensì nel declinarli come gli elementi di una dialettica radicata nella storia e custodita, e fermentante, nei testi: il Sud è l’Europa.

Battendo in breccia la loro tradizionalmente statica giunzione per differenza – la loro eterogeneità per dir così metonimica -, lo studio di Giannone connette quelle polarità sull’asse di una relazione intimamente transitiva: fissandola in una formula non più dicotomica, bensì predicativa, ad un tempo, e metaforica. Lo si evince, con dovizia di campionature, da tutti gli studi che compongono i capitoli del libro e di volta in volta illuminano aspetti, relazioni, prospettive fin qui non adeguatamente indagati, o comunque non compiutamente valorizzati, in protagonisti variamente aggettanti della provincia letteraria meridionale, da Cesare Giulio Viola a Gerolamo Comi, da Sinisgalli a Scotellaro, dal fortunato ma poi presto ridimensionato Quasimodo allo straordinario, e non ancora adeguatamente canonizzato, Vittorio Bodini, scrittore e intellettuale stratificatissimo e forse, per la nostra koiné letteraria (essa sì, gravata di un pervasivo e perdurante   provincialismo), troppo avanzato e inquieto, sul quale lo specialismo di Giannone (la sua “lunga fedeltà” al poeta della Luna dei Borboni) detta pagine fondatamente autorevoli e decisive.

Il primo capitolo del volume ha il merito di richiamare l’attenzione sull’opera poetica del tarantino Cesare Giulio Viola, noto soprattutto quale commediografo, narratore, sceneggiatore (collaborò con De Sica a Sciuscià) e critico drammatico, ma anche poeta legato al circolo crepuscolare romano, autore di un poco noto libro di versi, L’altro volto che ride. Poemi, del 1909, sulle cui figure tematiche, e sulle trame intertestuali che le sostengono, si incentra l’attenta analisi di Giannone, che vi rileva, oltre alla tendenziale assenza dei motivi tipici del crepuscolarismo romano (p.28), il prevalere di una «disincantata riflessione sulla condizione umana, espressa secondo i modi della poesia simbolista» (ib.), nel persistere di topoi del repertorio decadente e crepuscolare, ma attraversati e drammatizzati da un intreccio di suggestioni leopardiane e pascoliane, fino alla cupa e strenua torsione allegorizzante del componimento eponimo dell’opera (pp. 43-45).

Il secondo capitolo ricostruisce – rimarcandone le significative implicazioni nella vicenda letteraria nazionale – l’attività di operatore culturale del salentino Michele Saponaro attraverso una diffusa ricognizione del suo epistolario: dall’esperienza napoletana della “Tavola Rotonda” (pp. 47-52), che egli aprì alle innovazioni del Futurismo (p. 49), al fervido impegno quale redattore-capo nella “Rivista d’Italia” (pp. 53-70), cui Saponaro seppe conferire fermento culturale vivissimo, ampliando lo spazio del settore letterario e mantenendo – di contro alla linea di “prosa d’arte” della contemporanea “Ronda” – una significativa fedeltà al genere narrativo tradizionale. Il terzo e il quarto capitolo del volume compongono un dittico bifocale dedicato al salentino Girolamo Comi, di cui vengono indagati, rispettivamente, il complesso sodalizio con Arturo Onofri e il lungo dialogo epistolare con Arnaldo Bocelli, suo esegeta princeps. Poeta dalla controversa e mai esaustivamente approfondita fortuna critica, Comi permane a tutt’oggi confinato in un immotivato isolamento, dal quale Giannone ritiene ormai necessario affrancarlo per «inserirlo […] con maggiore consapevolezza» nella «linea ‘orfica’, che si potrebbe definire anche cosmica o iniziatica o ‘religiosa’ o filosofica o metafisica, della poesia novecentesca» (p. 71).

A confermare l’ascrivibilità a pieno titolo di Comi a quella linea  Giannone ne ricostruisce il legame con Onofri, ponendo in evidenza i punti salienti di contatto fra i due, basati perlopiù sugli scritti di poetica (pp. 80-87) dai quali emergono significative affinità nella concezione della poesia come «attività totalizzante» (p. 83), «Parola-Verbo» che è mezzo di palingenesi e di salvezza (p. 85), nel segno di una equivalenza fondante fra poesia e conoscenza (p. 86). Giannone non manca di segnalare la primazia di non poche invenzioni della lingua poetica di Comi su quella onofriana, e poi la progressione del salentino verso il distacco dal prezioso sodale (pur entro matrici fortemente ancora paniche) con il suo accostamento al cattolicesimo e il passaggio dall’immanenza alla trascendenza, culminante in «una integrale visione cristiana» (p. 88). Nel secondo quadro del dittico, per rivisitare il trentennale rapporto intrattenuto da Bocelli con Comi Giannone si avvale di un riesame dettagliato (pp. 95-120) del carteggio che ne custodisce la testimonianza, ridisegnando tutto l’arco dell’interpretazione della poesia di Comi recensita e analizzata da Bocelli, e del loro dialogo persistente e fecondo.

Una indagine tersa e puntuale è dedicata alla tematizzazione del Sud nella lirica quasimodiana (pp.121-28). Rilevando che «a Quasimodo spetta il merito, […], di avere inserito il Sud nella geografia lirica italiana fin dagli anni Trenta, dando il via a una linea importante della poesia del Novecento» (p. 121), Giannone indaga in un costante, equilibratissimo dialogo con i testi – come gli è meritoriamente consueto – la relazione vivida e profonda che Quasimodo intesse con il paesaggio meridionale: in una geografia che è sempre arco sospeso tra esperienza e ricordo, cifra mitica e spazio dell’interiorità.

A Quasimodo si lega anche il primo dei capitoli dedicati alla multivoca personalità di uno scrittore – Vittorio Bodini –  al quale Giannone è impegnato a restituire, con una dedizione critica e filologica ormai trentennale, il giusto rilievo nel nostro canone novecentesco (anche, da ultimo, attraverso un importante Convegno del dicembre 2014 di cui ora si attendono gli Atti). Della intensa vicenda della rivista, “L’esperienza poetica”, che Bodini diresse e animò dal 1954 al ’56, viene qui messo in luce il rapporto con Quasimodo – che ne era stato, fin dall’inizio, «uno dei principali punti di riferimento» (p. 129)- e con l’ermetismo, segnatamente con quello meridionale, in ordine al quale la rivista «si proponeva di documentare, nel modo più aperto e ampio possibile, la tendenza al rinnovamento della poesia italiana, rifiutando l’alternativa tra ermetismo e neorealismo e indirizzandosi invece verso un moderato sperimentalismo» (ib.).

Al Bodini fulgente ispanista, e al suo lungo e fecondissimo rapporto con l’opera di Garcia Lorca è dedicato il secondo, brillante capitolo ‘bodiniano’ (pp. 167-180). E sulle sorprendenti fantasmagorie lirico-grottesche del Bodini narratore si diffonde il terzo (pp. 181-194), traguardando alle sue prose di argomento salentino (alla loro invenzione di un Sud, di un paesaggio insieme autobiografico e metaforico, testimoniale e allegorico, tra minuta epopea familiare e risentita denuncia sociale, tra accesa dipintura antropologica e  franta increspatura elegiaca) dall’angolazione privilegiata e però coattiva di una città – Lecce – metaforica e, per così dire, “invisibile”, cronotopo ossimoricamente realistico e fittizio di una condizione esistenziale assediata e come nevrotizzata dal barocco horror vacui di «un angoscioso sentimento del nulla» (p. 190).

L’ultimo dei ‘cartoni’ del polittico bodiniano è rivolto alla ricostruzione critica del rapporto tra il poeta della Luna e Rocco Scotellaro. Giannone muove qui dalla pubblicazione dolorosamente postuma di quattro poesie di Scotellaro sul primo numero dell’“Esperienza poetica”: che furono accompagnate da una breve ma significativa nota del direttore (p. 223), nella quale Bodini confessava il peso determinante del suo incontro col poeta allora appena scomparso, testimoniando una «assoluta coincidenza d’idee» tra di loro (p. 224). La lirica di Scotellaro, infatti, sembrava rispondere appieno all’esigenza bodiniana di una “terza via” della poesia dopo la fine dell’ermetismo, al suo bisogno di uscire dalla “prigione di parole” in cui si erano rinchiusi gli ermetici, senza però rinunciare allo «scatto inventivo, alla fantasia, all’immaginazione» (p. 225) – sull’asse, com’è noto, di una peculiare, fortemente inquieta e innovativa, ripulsa polemica sia del post-ermetismo che del grezzo e contenutistico neorealismo marxista.

         A conferma dell’organicità tematica e di metodo che ne sorregge l’impianto, il libro offre poi interessanti messe a punto dell’opera di altri due protagonisti del Novecento letterario meridionale, Leonardo Sinisgalli e Rocco Scotellaro. Di quest’ultimo Giannone propone un concentrato ma esaustivo profilo monografico (pp. 195-221), condotto come un serrato, capillare confronto con i testi del poeta di Tricarico, da quelli giovanili (Uno si distrae al bivio, lungo racconto autobiografico di cui Giannone sottolinea le intenzioni simboliche, gli sbalzi di “andata e ritorno” temporale, la centralità della figura del padre) alle raccolte poetiche, riattraversate con sicurezza  nelle loro caratteristiche tematiche e di stile, alle prose, variamente testimoniali di un vissuto individuale sempre proteso alla denuncia sociale e alla riflessione etico-politica.

Di Sinisgalli, a ulteriore conferma della sua disposizione a indagare preferenzialmente aspetti meno frequentati degli autori presi in esame, e spesso fecondamente rivelativi di ragioni e scansioni della loro poetica, Giannone analizza due prose memoriali, Fiori pari fiori dispari (1945) e Belliboschi (1948), che possono essere considerate «una sorta di journal intime (ma con lo sguardo rivolto al passato), in cui l’io narrante, ripercorrendo momenti esemplari della sua vita, dall’infanzia all’età matura, e rievocando vicende e figure conosciute, conduce una strenua ricerca all’interno di se stesso per meglio conoscersi e trovare un senso unitario alla dispersione esistenziale» (p. 145). Giannone compone, in una coesa partitura di rimandi intratestuali, un suggestivo lessico di memorie autobiografiche e di pause meditative o parcamente elegiache, dove campeggia su tutte con la forza di un “mito” la figura della madre del poeta mathematicus, a fronte dei tratti contraddittori e ambivalenti che ammantano e in parte stingono quella paterna (p. 156).

Si dovrà dare, infine, almeno un cenno del saggio raccolto in Appendice su Giacomo Debenedetti, che ne ricostruisce con equilibrato nitore l’assunzione fondativa delle intersezioni culturali europee nella nostra poesia novecentesca, e la innovativa mappatura modernista che ne derivava, riproponendo da altra e diversa angolazione la cifra tematica di questo libro: il cui valore aggiunto sta – ci pare – nella sua prosa sempre sicura e limpida, mirabilmente capace di ricondurre la densa varietà delle questioni alla chiarezza adamantina e pacata della loro ricostruzione esegetica, e tanto legata al primato dell’analisi da puntare sempre a restituire la complessità dei testi, e della storia che vi si rapprende, nella semplicità elegante e sobria dello stile, offerta con probità e discrezione al lettore quale testimonianza di un modo profondamente etico e rigoroso di fare critica. 

[In “Esperienze letterarie”, n. 2. 2015, pp. 141-145].

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