Quell’anno, a Napoli, presso le Edizioni Sud, esce pure il suo primo romanzo, Racconto del Sud, con la prefazione di Luigi Compagnone, che deve essere considerato quasi un inedito perché venne pubblicato ma non messo in vendita. Quest’opera, che dal titolo potrebbe dare l’idea di un racconto di tipo realista, risente invece delle letture che De Jaco faceva in quel periodo, soprattutto degli scrittori surrealisti e di Lautréamont in particolare. Il libro in ogni caso non rientrava nei canoni del cosiddetto “realismo socialista”, ai quali doveva attenersi un militante comunista, e perciò venne accolto piuttosto negativamente all’interno del partito. Già questo episodio è significativo dello spirito di indipendenza, dell’autonomia che lo scrittore ha sempre rivendicato per la sua attività letteraria e che lo ha portato spesso a scontrarsi con i rappresentanti ufficiali della politica culturale del P.C.I., come si vedrà anche più avanti.
Nei primi anni Cinquanta De Jaco scrive alcuni racconti che saranno pubblicati nel 1954, col titolo Le domeniche di Napoli, nella prestigiosa collana “I gettoni” diretta da Elio Vittorini per l’editore Einaudi e che costituisce il vero e proprio esordio dello scrittore magliese. Questo libro valse al suo autore il Premio Salento “opera prima” e recensioni complessivamente positive da parte di critici autorevoli come Arnaldo Bocelli, che scrisse un articolo sul “Mondo”1, Niccolò Gallo² e altri. De Jaco fa il suo esordio ufficiale, quindi, in pieno periodo neorealista. È superfluo, forse, ricordare che cosa è stato e che cosa ha rappresentato il neorealismo per la nostra società e la nostra cultura. Come è noto, questo movimento, in opposizione a certe correnti del periodo tra le due guerre, come il rondismo e l’ermetismo, propone un’arte e una letteratura incentrate sui problemi reali del paese con un forte impegno di ordine civile. In tal senso si riallacciava al realismo ottocentesco e al verismo italiano, con tutti i suoi caratteri di socialità, di regionalismo, di populismo. Si privilegia la narrativa sulla poesia, come il genere più adatto a conoscere e a interpretare la realtà. Si usa una lingua il più possibile vicina a quella parlata e dunque fortemente condizionata dal lessico e dalla sintassi dei dialetti, nel tentativo di superare quella frattura, che era sempre esistita nella nostra tradizione, fra lingua scritta e lingua parlata, fra lingua letteraria e lingua del popolo.
In questo contesto si colloca l’esordio di De Jaco, ma anche, almeno idealmente, una parte cospicua di tutta la sua produzione, perché egli non ha mai rinnegato quella posizione iniziale, anche se, ovviamente, l’ha arricchita e sviluppata in rapporto all’evoluzione della società e della cultura italiana ed europea. Mi sembra importante ricordare, anzi, quello che De Jaco ha scritto in due momenti diversi sul neorealismo. Nel 1960, quando questo movimento era ormai tramontato e si era già affacciato sulla scena letteraria italiana lo sperimentalismo, in un articolo apparso per la prima volta sulla rivista napoletana “Le ragioni narrative”, rivendicava la “generosa validità” del neorealismo, “come presa di coscienza della realtà dopo il fascismo e la come ritrovata funzione della letteratura nella società”3. Inoltre scriveva che “la prima valida conquista di questo periodo è quella di un linguaggio nuovo, non letterario, attento alla ‘parlata’ degli italiani, pur senza cadere – in generale – nel regionalismo piatto, bozzettistico e provinciale”4. Ancora più recentemente, nell’85, De Jaco ha ribadito la sua posizione:
In quanto agli anni del “neorealismo”, essi restano nella mia memoria non per polemiche, letterarie o meno, davvero datate, ma per essere stati in effetti anni in cui lo scrittore ha avuto la sensazione di avere, rispetto alla società, dei compiti da assolvere, compiti di denunzia, di testimonianza, di documentazione 5.
E anche la concezione che egli ha della letteratura, la quale, a suo avviso, deve svolgere una funzione precisa all’interno della società, rientra in fondo sempre nell’ambito della poetica neorealistica. In un altro scritto del 1972 così scrive, infatti, a un certo punto:
Si tratta della convinzione che la letteratura vive solo in quanto critica della società e dunque a questa funzione deve assolvere, anche se questo non significa che debba farlo per delega di una classe, di una ideologia collettiva, di altro da sé insomma 6.
Un altro elemento che bisogna tener presente per comprendere gli esordi dello scrittore salentino è l’ambiente culturale, nel quale egli si forma, cioè quello napoletano dell’immediato dopoguerra. A Napoli infatti, in quel periodo, si rivelò un gran numero di narratori all’insegna del nuovo realismo e nel clima generale di scoperta della realtà del popolo napoletano: da Incoronato a Pomilio, da Prisco a Rea, dalla Ortese a Compagnone. Che cosa accomunava tutti questi scrittori?
Non la nostra esperienza – ha scritto De Jaco – ma il modo come affrontavamo l’esistenza, non le nostre “ragioni narrative”; forse solo alcune comuni letture, che poi erano letture di tutti. E il nostro populismo? Anche questo c’entrava poco: una fase obbligata, di passaggio, per ognuno di noi, fra l’immane esperienza della guerra fascista e la scoperta della libertà, con conseguente avvicinamento al personaggio-popolo protagonista della storia”7.
Quest’ultima affermazione mi sembra particolarmente importante e sarà possibile verificarla quando passerò all’esame delle opere.
In un articolo apparso nel 1987 sulla rivista “Sudpuglia”8, De Jaco ha raccontato la storia, anzi i retroscena, della pubblicazione dei suoi due primi libri, Le domeniche di Napoli e Una settimana eccezionale, attraverso le lettere scambiate con due protagonisti della vita culturale italiana del Novecento, Elio Vittorini e Italo Calvino, i quali allora, com’è noto, erano entrambi consulenti dell’editore Einaudi. Questo scambio epistolare è di estremo interesse non solo per la storia privata di De Jaco, ma anche, più in generale, per conoscere più da vicino il dibattito ideologico e letterario degli anni Cinquanta e la funzione svolta da questi due scrittori nelle vicende editoriali di quegli anni.
Riassumo allora brevemente i dati principali della vicenda. Attraverso Natalia Ginzburg e Calvino, De Jaco fa pervenire a Vittorini, per la collana “I gettoni”, una scelta dei suoi racconti che aveva intenzione di raccogliere in un volume da intitolare Città napoletana. Vittorini dimostra di apprezzarne alcuni e in particolare uno, Passeggiata panoramica, ma esprime alcune riserve per altri brevi scritti “lirico-politici”, nei quali il “ragazzo” De Jaco ostentava un po’ troppo apertamente e ingenuamente la sua fede politica di militante comunista. Per questo avrebbe voluto che l’autore li avesse eliminati, o magari li avesse pubblicati a parte in un’altra collana, altrimenti, in caso contrario, avrebbe espresso liberamente la sua opinione sul risvolto di copertina. Lo scrittore salentino, invece, dimostrando una notevole perseveranza, lasciò invariata la struttura del libro, che per lui costituiva un’unità organica e accettò soltanto, anche questo a malincuore, il cambiamento del titolo da Città napoletana a Le domeniche di Napoli. Così il libro apparve con il seguente scritto di presentazione di Vittorini nel risvolto:
Non mi piace il lirismo di partito. Per qualunque emblema venga fatto è sempre la stessa solfa. E io non apprezzo gli “evviva” coi quali l’autore di questo libro ha bisogno di salutare ogni tanto la bandiera della propria fede. Tuttavia mi sembra che vi sia abbastanza novità nelle sue pagine per passar sopra all’inconveniente. Si legga Passeggiata panoramica. È una nenia di stupenda freschezza che racconta di Napoli, e della sua folla più povera, come nessuno ne ha mai parlato. Non c’è più altro del libro che soddisfi, al confronto: o perché meno vivido e immediato, meno pungente d’impressioni; o perché, nel tentativo di approfondire, finisce che risbuca fuori sul vecchio terreno del naturalismo napoletano. Ma un filo che corre da scritto a scritto porta ovunque un po’ della brezza di Passeggiata panoramica, e così il libro si giustifica, si rende poeticamente accettabile, anche nel suo insieme 9.
La cosa più curiosa è che proprio quei raccontini di tipo politico vennero criticati, in una recensione apparsa quello stesso anno su “Cronache meridionali”, da Giorgio Napolitano, forse perché anche stavolta essi non rientrano pienamente nei canoni del “realismo socialista”. “Forse non piaceva neanche a loro – ha commentato De Jaco – il ‘lirismo di partito’, specie se basato sul sudore e la sofferenza degli uomini. Forse non gli andava di non trovare in quella città napoletana, né buoni né cattivi, ma una confusione brulicante di gente” 10.
Esaminiamo più da vicino allora Le domeniche di Napoli. Si tratta, come s’è detto, di una raccolta di racconti, divisi in tre sezioni preceduti da altrettanti corsivi, che “dovevano esprimere – ha scritto l’autore – la mia idea della ‘ città napoletana’ “11. E in effetti in questo primo libro di De Jaco c’è la scoperta della città e del popolo, anzi del popolino napoletano. Protagonista dei racconti, infatti, è la gente comune che vive nel capoluogo partenopeo: disoccupati, contrabbandieri, soldati, militanti comunisti, contadini, artigiani, ecc. Questa umanità varia e formicolante è oggetto dell’indagine di De Jaco, il quale nelle pagine iniziali manifesta chiaramente la sua intenzione di occuparsi proprio di tale aspetto della realtà napoletana, cioè della sua gente, dei suoi abitanti:
Ma, vedi, piove sempre di più. Il vento getta sui muri raffiche d’acqua. La città è come un nido di formiche, come un nido di vespe, il suo grande vecchio corpo coricato in riva al mare dorme, volto su un fianco […].
Lì, nel buio, fra i muri stretti e umidi per terra o su un vecchio letto spagliato, lì dormono uomini e donne, vecchi e giovani, malati e no, mezzo milione, e al buio, nel tanfo, si stringono, tremano di freddo, gridano nel sonno. Lì dorme il vecchio corpo 12.
Anche le storie che vengono narrate sono storie comuni, minime, di ogni giorno, ambientate nelle strade, nei cortili, nei vicoli, nei “bassi” di Napoli, fra botteghe, caserme, sezioni di partito, ospedali, pensioni compiacenti. E sono storie tipiche di quegli anni del dopoguerra, storie di miseria, che raccontano i mille tentativi di sopravvivenza in una situazione difficile come quella. Ciò che colpisce subito è il linguaggio spoglio ed essenziale, lo stile sobrio, quasi scarno, antiletterario, che rivela l’influenza degli scrittori americani tradotti e fatti conoscere in Italia proprio da Vittorini e Pavese. A tratti, in effetti (e qui non si può non dare ragione a Vittorini), si nota una certa prevaricazione dell’ideologia dell’autore sulla rappresentazione della realtà (in certi raccontini c’è un eccesso di bandiere rosse sventolanti, di pugni chiusi, di slogans, di inni), ma è chiaro, come s’è detto, che bisogna riportare questi racconti al particolare momento storico in cui furono composti, al clima teso, fortemente ideologizzato, del dopoguerra e dei primi anni Cinquanta.
Vittorini, come abbiamo visto, notò il punto più alto del libro nel racconto Passeggiata panoramica, che definì “una nenia di stupenda freschezza che racconta di Napoli, e della sua folla più povera, come nessuno ne ha mai parlato”13. Ed è questo un giudizio che ancora oggi si può condividere. Passeggiata panoramica è il racconto di una gita che un gruppo di persone (una famiglia con i genitori e i figli, due fidanzati, un vecchio, una donna incinta col marito e la madre, un soldato e una ragazza, ecc.) compie la domenica con il vaporetto nel golfo di Napoli per due ore. Anche qui c’è uno sguardo d’assieme su tutti questi personaggi, la registrazione dei loro discorsi, dei sentimenti, delle speranze, delle emozioni, sullo sfondo delle nostalgiche canzoni napoletane (Anema e core, Luna rossa), che contribuiscono a dare al racconto quel tono dolcissimo di nenia, di canto malinconico, così acutamente notato da Vittorini. Alternate ai dialoghi ci sono le descrizioni di luoghi particolari della città visti dal mare.
Note
1 Cfr. A. BOCELLI, Giovani e nuovi, in “Il Mondo”, 16 novembre 1954, p. 8.
2 Cfr. N. GALLO, Fenoglio e De Jaco, in “Il contemporaneo”, a. 1, n. 30, 23 ottobre 1954.
3 A. DE JACO, Letteratura e Mezzogiorno, in La casa di tufo, Maglie, Erreci Edizioni, 1985, p. 197.
4 Ivi, p. 195.
5 ID., A mo’ di introduzione e di non richiesta giustificazione, ivi, p. 19.
6 ID., Quattro risposte a Nostro Tempo, ivi, p. 232.
7 Ivi, p. 231.
8 ID., Storia di un “ragazzo” e dei suoi due “lettori”, in “Sudpuglia”, a. XIII, n. 4, dicembre 1987, pp. 79-100.
9 E. VITTORINI, presentazione a A. DE JACO, Le domeniche di Napoli, Torino, Einaudi, 1954. Al rapporto Vittorini-De Jaco accenna anche G.C. FERRETTI, L’editore Vittorini, Torino, Einaudi, 1992, pp. 227-228.
10 A. DE JACO, Quanti secoli sono passati?, in “Sudpuglia”, cit., p. 76.
11 Ivi, p. 80.
12 ID., Le domeniche di Napoli, cit., p. 14.
13 E. VITTORINI, presentazione di Le domeniche di Napoli, cit.