Leopizzi appartiene ad una famiglia agiata della borghesia paesana, resta orfano dei genitori a 12 anni. Di lui e dei suoi fratelli si prende cura una zia materna. Compie gli studi superiori fino al secondo anno del liceo scientifico a Lecce e poi nel 1925 si trasferisce a Liegi, in Belgio per l’università. Le luttuose tacche esistenziali incidono molto sulla sua formazione. L’essere orfano lo condanna alla solitudine e alla carenza d’affetto, aggravata da un amore platonico per una giovane del suo paese, Ester, molto probabilmente di bassa estrazione sociale. Se ne hanno tracce nel suo Album, sorta di diario-zibaldone, in cui è dato seguirlo nei suoi umori quotidiani.
Il giovane è solo, si sente incompreso, con l’animo in tumulto, in un mondo dove “tutto è avvolto / in un dolce sorriso / d’abbandono di quiete” (Crepuscolo). Leopardiano è il bozzetto: “Soddisfatto dell’opra il contadino, / torna, contento, dal terren sudato; / e pur pensando al cibo suo meschino / a squarciagola canta imperturbato” (Tramonto), dove l’empatica figura del “contadino” fa il pendant con la “donzelletta”. In Festa il poeta prende più chiara consapevolezza del suo distacco dagli altri: “Ridon tutti nella strada; / ogni cosa ha un aspetto di letizia, / qui nel core, / provo un senso d’oppressione. / Solo, non un’anima vicina, / una voce qui non sento…tutti cantan, tutti ridono, / cercano essi tutto obliare?”. Il riso della gente, la sua indifferenza, è qualcosa che a tratti irrita il giovane “pensoso”, che in qualche modo si sente oggetto dell’altrui scherno. Allo stesso modo Gramsci detestava gli indifferenti. In uno dei due testi senza titolo Leopizzi tocca il diapason della noia e della solitudine: “Grigie e scure s’alternano l’ore, / passano effimere, / ridono, scherzano, si fanno scherno / di te che pensi!”. Trova qualche sollievo nella struggente nostalgia della madre e di un non ben definito amore. “Spesso tornano / alla mia mente i giorni / quando strettomi / al cor tra un bacio e la leve / nenia i sonni mi / cullavi, o madre mia” (A mia madre); “Io pensavo a te lontana, / nel tuo letto, tra i tuoi cari, / che sognavi” (In treno). Ma anche nostalgia per la sua terra, consolatrice: “rivivo per un istante almeno / dell’ottobrate magiche di Puglia / la pura gioia!” (Senza titolo). La poetica del giovane Leopizzi pendola tra la serenità idillica e il tormento dell’anima, a cui non è estranea la grave situazione politica dell’Italia, ch’egli vive come un dramma personale.
Il terzo motivo è tutto politico, l’autore è lucido oppositore del fascismo, che definisce una “scuola di delinquenza”, e predica la rivoluzione con toni messianici. La sua stella Diana è Mazzini, “un uomo che oggi risorge e ci addita il cammino che – da precursore e ardente apostolo – vive da lontano”.
Appare il giovane Leopizzi una sorta di foscoliano Ortis, che però non si uccide, forse perché ad un certo punto della sua vita fu aggredito da una lenta malattia mentale aggravata dal suo stato di confinato e carcerato prima e di internato poi in un manicomio, che gli impedisce di farlo, salvo che non si voglia considerare “suicidio” il suo preferire il carcere alla grazia, che più volte respinge.
Nel Tiranno, indirizzato a Mussolini, Leopizzi è tutto ira e sdegno: “Non tu che d’oro ricopri / l’ignobile e perfida spia / Che l’ardente patriota minacci / Paura più fai”. È il 1926 e Leopizzi si trova a Liegi, dove ha fondato la rivista “Vita” e dove sente su di sé e i suoi compagni la cappa pesante del regime che paga le spie per denunciare i fuoriusciti. Ma è anche profetico: “Questa turba che ora ti grida vittoria, / Griderà la tua morte!… Sorgerà infine il sole, / A chiarire il risveglio…Il tuo corpo cercheran l’avvoltoi”.
Decisamente più matura e versatile è la prosa di Leopizzi, da distinguersi in testi giornalistici e testi più creativi. Si rivela ora un abile polemista, ora un critico d’arte, ora un critico musicale e teatrale, ora un lirico cantore della natura, ora si riconosce in un “genio sognatore”. Il libro di Coppola propone quattro testi tra racconti e novelle. Ma sono gli scritti politici che lo esaltano, con le sue analisi e i suoi proclami. Si augura per l’Italia una sorta di rivoluzione francese, “il fascismo è il male, il male, il male che sta per travolgere il mondo” (Il fascismo, scuola di delinquenza), “i nostri morti ci sorridono col più lieve dei sorrisi e nello strazio novello c’indicano la forza […]. Musiche incomparabili della santa guerra civile mi trasportano lontano, mi spingono al ritorno; e voi, miei compagni, anche voi venite dopo una breve preparazione giù in casa nostra a sgominare gli usurpatori. Rientriamo, specie se facilmente svisati dalle autorità inquisitoriali, rientriamo e a fianco dei nostri fratelli prepariamo la caduta dell’autoritarismo nostra sventura” (Dobbiamo fare la rivoluzione). Parole queste che, secondo Coppola, sembrano definire meglio le ragioni del suo rientro in Italia, comunque sollecitato dalla famiglia, per ottemperare agli obblighi militari. In Italia, certo, ma per la rivoluzione. Egli dà il segnale: “L’ora delle rivendicazioni è suonata! (Basta! Proclama di rivolta). Le sue parole d’ordine sono “intransigenza, comprensione ed azione”. La lotta contro il fascismo non è per bassa vendetta ma “per dare la libertà al nostro popolo e per dargli una coscienza politica dopo”. È quanto sarebbe accaduto in Italia qualche anno più tardi, con la guerra di Liberazione nel 1943-45. Nell’articolo La voce dei lavoratori della terra passa dai toni forti, truculenti, esasperati: “succhieremo il loro sangue […] Fracasseremo le ossa a quei che non lasciano stare la gente in pace” a visioni romantiche, quasi idilliche: “Noi che lavoriamo la terra e da questa riceviamo il pane non vogliamo più vedere né stemmi, né diademi, né case, né caste, siamo contadini e solo la vanga ci è cara”.
Il suo rientro in Italia nel 1927 gli fu fatale. Evidentemente era già stato segnalato. Una cassa di cose sue, speditagli da Parigi da un amico, tal Piccarreta, fu sequestrata alla frontiera. Un’ingenuità o un calcolato tradimento? Venne fuori tutta la sua attività politica svolta a Liegi, dove aveva fondato e diretto riviste (“Vita”, “Revue Internationale”) e a Parigi dove aveva collaborato al “Corriere degli Italiani”, spesso con lo pseudonimo di Elio Salentino. Il regime lo processò e lo condannò prima al confino e poi al carcere. Invano la zia materna che lo aveva cresciuto chiese più volte la grazia a Mussolini. Non gli fu concessa perché lui non volle mai sottoscriverla, mentre la sua malattia si aggravava sempre più. Dal carcere al manicomio. Nel 1945 la sua profezia si avverò: il fascismo venne abbattuto e la libertà conquistata; ma per lui non cambiò nulla. Forse non se ne accorse nemmeno. Nel manicomio era e nel manicomio rimase fino alla morte, avvenuta nel 1974.