Nonostante la pratica elitaria della scrittura (gran parte delle sue raccolte sono state pubblicate privatamente in edizione numerata) e la collocazione defilata rispetto al canone che risulta dalle convergenze dei critici sulle linee portanti della lirica novecentesca, sancite dalle grandi ricognizioni antologiche, Comi non è del tutto isolato e la sua ricerca si snoda coerentemente con le premesse teoriche condivise da altri poeti di formazione primonovecentesca (Onofri, Moscardelli, Vigolo). Giannone nel saggio introduttivo, Itinerario di Girolamo Comi, ha posto in rilevo il fil rougedella veggenzae della missione conoscitiva, ragioni prime della sfida poetica, che corre dai precursori simbolisti (letti assiduamente da Comi negli anni trascorsi a Losanna e a Parigi) all’orfismo onofriano: «Il poeta vero deve svolgere un’attività di tipo sacerdotale, in quanto il fine dell’arte è quello di ricondurre il mondo fisico a quello spirituale, redimendolo, in vista di quel ricongiungimento finale col tutto, con l’assoluto, col divino, che, secondo la visione di Steiner, sarà la tappa conclusiva della storia dell’umanità. La poesia può svolgere questo compito tra gli uomini attraverso l’azione della “parola-Verbo”, un concetto centrale in Comi come in Onofri» (p. XXVII). Il mancato inquadramento entro le cartografie letterarie di questa esperienza così ricca di lieviti spirituali e di esuberanti accordi lessicali dipende in gran parte da alcune prese di posizioni ostili: quelle di Solmi, Betocchi, Frattini, Pozzi e, in particolare, quella di Pasolini, che nel discorrere della linea orfica pure accorda a Comi l’onore delle armi privilegiando, rispetto all’approdo a una poesia religiosa reputata troppo incline all’artificio, la densità delle sue prime raccolte, apprezzabili «per la confusione ancora innocente tra l’entusiasmo sensuale e l’enthousiasmós mistico». A correggere il tiro, negli ultimi decenni, hanno provveduto studiosi attenti al radicamento di Comi nella realtà culturale salentina come Donato Valli, Mario Marti, Vittorio Pagano, Gino Pisanò e Lucio Giannone. Da questo capillare lavoro di scavo critico sulla genesi della poesia, sugli interventi di poetica, sugli epistolari e sul fervore di impegno civile e intellettuale del Comi fondatore nel 1948 dell’Accademia salentina – che radunava nel palazzo avito di Lucugnano personalità del calibro di Maria Corti, Oreste Macrì, Luciano Anceschi, Rosario Assunto, Enrico Falqui – e della longeva rivista «L’Albero» (1949-1966), dai documenti vagliati e messi a disposizione emerge il profilo di un poeta colto e partecipe delle dinamiche artistiche e filosofiche del suo tempo. Il decorso dal caos rutilante di immagini ardite e di bagliori della poesia cosmico-immanentista degli anni giovanili al «silenzio ansioso di parola» e alla confidenza con la figura salvatrice del Cristo lo accosta infatti, anche se solo per alcuni tratti, ai modi della poesia religioso-sapienziale di autori quali Clemente Rebora, Luigi Fallacara e, forse con minore evidenza, Ugo Fasolo e Giuseppe Villaroel. Il diapason acuto di una poesia affermativa, che non rifugge dal sublime, agevola la sostituzione della scansione innodica alla nota elegiaca. La pronuncia sostenuta di Comi nasce da una fede inscalfibile nell’energia plastica e taumaturgica del Verbo. Questa – osserva Moliterni – «è una poesia che sembra crescere al riparo dalla crisi dei fondamenti o dalla consapevolezza paralizzante dell’insufficienza conoscitiva del linguaggio lirico, non è interessata né allo scavo privato dell’io né all’apertura nei confronti della “prosa del mondo”». L’impasto timbrico è sempre di grana preziosa, mentre la dovizia nella scelta di continue varianti ai lemmi emblematici (luce, parola, ansia, albero, cosmo) intesse una trina di slittamenti semantici e di intrecci sinestetici: «Alba: scoltura perlacea dei suoni / nell’impeto sorgivo delle prime voci», «ne scaturiscono iridi eterne / d’aromi teneri come carni». La quotidianità e i paesaggi stessi sono trasfigurati in una alchimia verbale che obbedisce a «segrete euritmie d’arcani accenti» (si veda Immagine del Salento dove un microcosmo è condensato in «numeri, figure e libri»). Le stagioni, diversamente da quelle cantate da Cardarelli e interpretate come riflessi atmosferici del proprio sentire, obbediscono alla ciclicità del tempo mitico: «Rutila il tuo peso solare / come una sfera vibrante / di parentele fra cielo e mare, / fra tempo eterno ed istante» (Estate). La catena di rime interne, assonanze, iterazioni e fugati produce effetti di saturazione e di maliosa ecolalia: «Fibre dorate di respiri – e linfe / d’idee, di dèi, d’animali e di ninfe / si son rifatte morbide strutture / di magici equilibri – o sono steli / – nell’eco cava delle mie fratture – / di risonanze sottili di cieli…» (Cantico del suolo). Nell’informe della materia che la luce plasma resecandola dall’indifferenziato dimora il demone musicale della poesia di Comi, un «ronzìo», un «brusìo musicale» che quasi frastorna prima di precisarsi nelle «parole-essenze». Il poeta stesso ha avvertito a più riprese il bisogno di sfrondare il corpus dei versi lasciando cadere la parte limacciosa e ridondante della propria produzione; si spiegano in quest’ottica di ridefinizione e chiarimento dell’operare le due autoantologie con le quali Comi si è affacciato a un pubblico più vasto: Poesia (1918-1938) edita nel 1939 per i tipi della casa editrice Modernissima e Spirito d’armonia (1912-1952) affidata alle Edizione dell’Albero. Nel Canto per Eva (1958) la disposizione tellurica e il coacervo di dati percettivi si placano in una vergine limpidezza, che tuttavia non rinuncia all’ordito delle variazioni: «La insistenza dei ritorni di alcuni motivi (intorno allo stesso “tema”) è giustificata dalla progressione, dalla crescita ritmica di certa ansietà e volontà di possesso nell’aura del trascendente» (avvertiva il poeta nella nota preliminare Intorno a questa poesia). Da questa discesa dai cieli alla misura umana dell’amore deriva «una forma di stilnovismo novecentesco» (Valli) che decongestiona la raccolta dagli eccessi della maniera e valorizza le declinazioni dell’Archetipo femminile che, se nelle prime raccolte si espandeva «in linee di miti materni», trova qui la via dell’interlocuzione con un tu modellato sulla multiforme immagine di Eva. Prima che l’ultimo libro, Fra lacrime e preghiere del 1966 disciolga la versificazione in tonalità crepuscolari adattandola con qualche fatica allo stampo dell’invocazione e della preghiera, è proprio nel Canto per Eva che Comi distilla la formula che tiene insieme il fulgore del mito e la purezza del canto fatto scaturire dal colloquio con i propri fantasmi intimi: «In me fermenta un colloquio infinito / con le poche parole che possiedo: / privilegiato custode di un “credo” / denso d’una realtà che sa di mito».
[In “La Rassegna della Letteratura italiana”, a. 123°, n. 2, luglio-dicembre 2019, pp. 520-522]