Ci fu qualche caso di studente o professore appartenente alla razza non ariana?
No, io non mi ricordo nessun caso. Ricordo soltanto nella mia classe la presenza spirituale di un ebreo, che parlava a noi ogni giorno, poiché noi studiavamo la storia della letteratura italiana sul testo scritto dall’ebreo Attilio Momigliano, che rimase il libro di testo fino al 1939.
I tuoi anni liceali precedettero quelli della guerra. Si aveva qualche sentore di ciò che sarebbe accaduto? E quali altri condizionamenti avvertivate?
Nessuno avrebbe potuto prevedere il futuro. Il sabato, come ti dicevo, era prevista un’ora in più, la sesta ora, che veniva tenuta da un maestro elementare, Antonio Falco, un tenente della Milizia volontaria, che aveva avuto un grosso ruolo nella formazione della prima organizzazione fascista a Galatina, ed ha mantenuto sempre un orientamento di sinistra; era un fascista sansepolcrista, si diceva, della prima ora, come lui stesso mi ha confermato telefonicamente qualche anno prima di morire. Quando Mussolini prese il potere, Falco si ritirò dalla vita attiva, per dedicarsi alla preparazione del concorso per maestro elementare. Me lo ricordo come maestro elementare molto garbato, umano e valido; fu mio maestro in quarta e quinta elementare, nei locali di Santa Chiara.
A scuola ci consigliavano di indossare la camicia nera quando c’era la ricorrenza della marcia su Roma. Non era obbligatorio andare a scuola con la camicia nera, ma molti la indossavano. Io stesso rammento di averla indossata.
Non c’era anno in cui non si presentassero per la maturità studenti privatisti che aveva più volte tentato di superare l’esame di maturità e non ci erano riusciti. Un certo Susanna – un graduato della Polizia o della Guardia di Finanza, non ricordo – rimase famoso per aver tentato, per ben dieci anni, di superare l’esame di maturità. Ma c’erano anche molti studenti locali che non ce la facevano. L’anno della guerra, il 1940, tutti conseguirono la maturità, perché di fatto l’esame era stato abolito.
Quali docenti ricordi con particolare affetto e stima? Puoi raccontare qualche aneddoto significativo?
Ho voluto sempre bene ai miei insegnanti, nel senso che non riuscivo proprio a concepire malanimo nei loro confronti, anche a seguito di qualche prova negativa. In prima liceale avevamo un bravissimo docente di Galatone, Mario Larini. Me lo ricordo in quanto, anche molti anni dopo, quando ci si incontrava tra ex-compagni di scuola e si ricordava Mario Larini, si diceva tra noi: “la questione omerica”, perché per tutto l’anno non fece che parlarci della “questione omerica”. Il fatto è che gli si era appena laureato con una tesi sulla “questione omerica”, e l’argomento lo ossessionava. Poi ricordo, ancora in prima liceale, un professore, Giuseppe Messina, venuto a Galatina appena sposato. Abitava in Via della Stazione e ci insegnava Storia dell’Arte. Ma noi di Storia dell’Arte non facemmo quasi niente; però la sua ora era piena perché parlava di tutto quello che interessava a lui: la letteratura russa, Gogol, Dostoevskij, Tolstoj. Negli anni trenta scrisse anche un libro, e chissà che non ci sia nella nostra Biblioteca comunale. Finì la carriera come Provveditore a Vercelli. Poi ricordo con simpatia un certo prof. Sambati, che non ci fece capire niente di grammatica e sintassi greca, però era simpaticissimo. Sto parlando della quarta ginnasiale, quando c’erano già i prodromi della guerra d’Etiopia. Si facevano i nomi dei ras etiopici, e uno di questi si chiamava Ras Kas. Quando facevamo le esercitazioni di greco, e la lavagna era ormai coperta, il prof. Diceva: “Cassa”, e noi ridevamo a crepapelle. Il nome del prof. Sambati divenne così “Ras Cassa”.
Quando frequentavo la seconda ginnasio, cioè l’attuale seconda media, l’orario scolastico comportava un giorno, il giovedì, con un’ora nelle “seconde ore”, si diceva, cioè alla ripresa della lezione alle ore 14:00, che avveniva insieme alle classi superiori del liceo, costituite, così almeno sembrava a noi ragazzi dodicenni, da uomini già fatti. La comunanza di quest’esperienza con giovani con la barba, già maturi, mi riempiva di orgoglio, l’orgoglio di appartenere a una comunità, una specie di speranza, di prospettiva inconscia aperta sul futuro. Teneva la lezione di Francese la prof.ssa Licia D’Errico. Tutto questo ha lasciato in me un sentimento di nostalgia. Un giorno avevamo studiato la declinazione di mio tuo suo nostro vostro loro, prima come aggettivo e poi come pronome, e io la conoscevo come un dio, mentre la classe incontrava in generale enormi difficoltà. Mi ricordo questa interrogazione con lo stomaco grave, perché, come ho detto, la lezione si svolgeva nel primo pomeriggio di giovedì (il mercato di cereali, che si svolgeva davanti alla scuola), ed io rispondevo benissimo. Ad un certo punto sento un battimano, la classe mi stava facendo un applauso, mentre io ripetevo la declinazione senza fermarmi. Ancora oggi mi commuovo al ricordo.
E poi ricordo il prof. Lamberto Pesce, di Scienze Naturali, di Teano, portava i pantaloni alla zuava, perché aveva l’abitudine di usare la bicicletta. Prima di fare lezione, qualche volta, nella buona stagione, con la bicicletta era già andato a Lecce a prendere il caffé, ed era ritornato. Era piuttosto sordo, a causa della guerra, e questo era fonte di ilarità tra noi giovani. Una volta, durante un’interrogazione, non riusciva a capire se un alunno diceva asfissìa o asfìssia. Di qui le nostre risate.
“La Voce di Galatina”, quindicinale di informazione pubblicato dal gennaio 1946 al marzo 1948, fu il primo foglio libero a Galatina dopo il fascismo. Quale progetto politico immediato si voleva perseguire con questa pubblicazione? Da chi era finanziato e qual era la sua diffusione?
La situazione in quel periodo era di grande confusione, soprattutto per noi giovani, per quanto riguarda l’orientamento politico-culturale. Si erano organizzati i partiti a Galatina. In maniera particolare il PCI, che aveva già una sua organizzazione, avendo operato anche clandestinamente, guidata dall’avvocato Carlo Mauro. Il PSI era guidato dall’avvocato Gaetano Cesàri. C’era stato un embrione di Partito d’Azione, guidato dall’avvocato Achille Fedele, fu Salvatore, da distinguere dall’avvocato Achille Fedele, fu Vincenzo: erano cugini, il primo era magro e lo chiamavamo Achillino, il secondo grasso lo chiamavamo Achillone. La DC galatinese era guidata da Achillone. In un’assemblea locale il segretario del tempo, Achillone, fu defenestrato, e a lui subentrò, eletto a pieni voti, Beniamino De Maria. Questo accadde verso la fine del 1945. Da quel momento De Maria diventa il dominatore assoluto della DC, e incomincia la sua opera di proselitismo attraverso comitati civici, i Coltivatori Diretti, l’Azione Cattolica, la FUCI, ecc. Il PLI non esisteva come organizzazione; sicché io e l’avvocato Ferrol, una domenica mattina ci riunimmo in casa di questi e fondammo il primo nucleo del PLI con un regolare ordinamento organizzativo, con una predisposizione di compiti e anche di indicazione ideologica e politica. Siamo alla fine del 1945 e nei primi mesi del 1946. Ma non ci fu una vera e propria sezione, con un locale, che fosse proprio espressione politica del partito. Era soltanto un nucleo di simpatizzanti e di amici: Gino Vallone, il gruppo della famiglia Ferrol, Aldo Vallone, Michele Montanari, il cancelliere Bortoluzzi, il direttore del Banco di Napoli, il ragioniere Capani, insomma un gruppo di amici, che facevano parte della medio-alta borghesia di Galatina, del ceto medio impiegatizio, professionale, l’ultima propaggine del vecchio vallonismo prefascista, che risaliva ai tempi di Antonio e Vito Vallone.
Era un tentativo di risuscitare l’antico?
Era un ritorno, e lo si può interpretare in questo modo. Ma questo lo chiariremo tra poco. Prendemmo un locale a pianterreno in casa di Michele Montanari, in Piazza Alighieri, dove ci trovavamo per chiacchierare: era la classica chiacchierata della provincia del Sud. Noi che avevamo già dato vita a “La Voce di Galatina” ci incontravamo negli orari più disparati e anche prima che si riunisse la sera il gruppo più ampio degli amici. E lì si impostava la linea del giornale, si discuteva sulle risposte da dare agli oppositori, perché le polemiche erano all’ordine del giorno. Per esempio: i comunisti avevano cominciato la campagna per il tesseramento con una imposta in denaro. Fu questa una buona occasione – e ciò dà l’idea della meschinità dell’azione politica paesana – per denigrare l’avversario. Allora, ci fu una voce anonima su “La Voce di Galatina” circa il taglieggiamento a danno dell’operaio e del contadino da parte del PCI. I tempi erano quelli, le idee non circolavano in modo chiaro. Poi c’era l’organizzazione materiale, la correzione delle bozze, l’impacchettatura con gli indirizzi, ecc., tutte operazioni che avvenivano nella tipografia che stampava il giornale, la tipografia Vergine in Piazza Alighieri. Il finanziatore era Gino Vallone. Non più di una cinquantina di copie si vendevano a Galatina, e poi c’era un certo numero di abbonati, circa cinquanta.
Quindi un centinaio di copie venivano effettivamente vendute…
Sì, molte copie venivano mandate ad amici che soggiornavano in altre città. Si mandavano poi, per legge, alcune copie alla Biblioteca Nazionale di Firenze e a quella di Roma; infine, una copia veniva inviata ad una società milanese che sfogliava e sforbiciava gli articoli per darne notizia agli interessati.
Luigi Vallone fu uno dei protagonisti della vita cittadina del dopoguerra. Nel referendum Monarchia-Repubblica, quale scelta fece?
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Bisogna tener presente che al momento del referendum Monarchia-Repubblica, nella lista dell’Unione Democratica Nazionale, Gino Vallone sceglie, in controtendenza con la tradizione familiare, la Monarchia. Gino Vallone era convinto che la Repubblica sarebbe stata la Repubblica papalina di Pio XII, ed era questa convinzione non dico anticlericale, ma laica. Un altro esponente politico locale, sempre espresso dalla famiglia Vallone, cugino di Gino, Carlo Vallone, medico residente a Lecce, sceglie la Repubblica e si candida con il PRI.
Diciamo che la famiglia Vallone si divide perché il figlio di Antonio, Luigi, sceglie la Monarchia, mentre il figlio di Vito, Carlo, sceglie la Repubblica. Che ci fosse un calcolo preciso della famiglia in questa scelta diversificata?
Non lo so. La scelta di Carlo fu anche una scelta di cultura politica. Aveva l’appoggio dello scrittore Luigi Corvaglia, dei fratelli Reale, mentre la scelta di Luigi fu una scelta pragmatica, che gli veniva suggerita dall’orientamento popolare, che era monarchico, e poi dalla presenza nella lista, come capolista, di un vecchio monarchico, Giuseppe Grassi, all’ombra del quale Gino Vallone rimase per tutta la prima legislatura. L’avvocato Caramìa venne a Galatina per appoggiare la candidatura a Sindaco di Gino Vallone il 31 marzo 1946; ma il contrasto Monarchia-Repubblica era già latente, come è documentato nelle Memorie.
La scelta della Monarchia da parte di Gino Vallone condizionò la sua carriera politica?
Certo, perché gli impedì l’inserimento in un partito popolare. Diventava un isolato, e doveva o creare una coalizione intorno a sé o trovare un posto in coalizioni locali, liste civiche, sempre per loro natura precarie; mentre soggetti politici come Michele Di Pietro, già liberali, non esitarono a passare nella DC.
Perché Gino Vallone non fece una scelta analoga?
Perché lo scontro locale con De Maria era sempre in atto ed era aspro, e questo gli impediva la soluzione democristiana. D’altra parte rifiutava la soluzione “equivoca” socialista e comunista: ecco perché rimase fuori gioco a livello nazionale, perché era legato alle radici locali, alla lotta politica locale, cui non rinunciò mai, e di cui era magna pars. Nei primi anni Cinquanta, per esempio, Vallone non si candidò, ma la lotta contro De Maria fu condotta da lui, appoggiando la candidatura a sindaco di Carmine D’Amico, socialista riformista. Fu una lotta tremenda, ma D’Amico fu eletto sindaco.
Possiamo dunque dire che l’acerrimo nemico di Vallone fu De Maria?
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Non direi acerrimo, ma un contrasto ci fu sempre. Solo quando, negli anni Sessanta, dopo trent’anni di deputazione, De Maria non fu più eletto alla Camera, e non si ricandidò più, commettendo l’errore di non passare al Senato e lasciando il collegio senatoriale Maglie-Galatina al magliese Di Giuseppe, gli animi si ricomposero e si avviò la collaborazione tra De Maria e Vallone.
E’ legittimo dire, in conclusione, che sul piano nazionale Vallone fu vittima del suo localismo?
C’è molto di vero in questo argomento, poiché la politica locale non gli ha consentito di inserirsi in un altro partito, per esempio anche in quello repubblicano.
Nella Storia di Galatina di Montinari curata da Antonaci si legge che tu hai appoggiato per lungo tempo, negli anni Cinquanta, la politica di Luigi Vallone. Nelle Memorie, invece, si legge un giudizio un giudizio molto critico sulla sua politica. Vallone sarebbe stato reo d’una sorta di “tradimento” delle scelte del padre Antonio. Correggimi se sbaglio.
C’è sempre un certo trasformismo nelle scelte dei politici meridionali. Anche Antonio Vallone si legava in maniera piuttosto felpata con Carlo Mauro, sfruttava i voti popolari, e poi non era estraneo alla politica di Giolitti alla Camera. Questo trasformismo è duro a morire e credo che sia una costante della politica meridionale.
Vengo alla domanda: che cosa hai condiviso del progetto politico di Vallone e che cosa poi vi ha diviso?
Alla caduta del fascismo ed al tempo dell’Assemblea Costituente per me Gino Vallone rappresentava un’aura di libertà, l’esponente del rinnovamento appoggiato dalla popolazione (tieni conto che nel post-fascismo viene eletto sindaco con 6500 preferenze). La storia di Carlo Mauro e del suo rapporto col mondo agricolo e bracciantile l’abbiamo dipanata solo molto tempo dopo. E poi Gino era l’amico disinteressato, bisognoso di compagnia. Quando la moglie era a Roma (Gino aveva comprato la casa di Tazio Nuvolari) si circondava sempre di amici, non stava mai solo, le sere estive si andava sempre a Gallipoli o a Santa Cesarea. Il problema è, ripeto, che lui faceva una politica localistica, non aperta al piano nazionale.
Nel 1959 Biagio Chirienti viene eletto sindaco di Galatina con l’appoggio del gruppo valloniano. Quali reazioni vi furono in città e in provincia?
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Fu quello un momento nel quale in Consiglio comunale non si riusciva a dare vita a una giunta fatta di valloniani e democratici cristiani, e allora con un colpo di testa alla Antonio Vallone, Gino Vallone dice: “Votiamo il sindaco comunista”, e dà un sindaco comunista alla città. Nasce così il blocco popolare, una riedizione del blocco popolare di Antonio Vallone e Carlo Mauro di molti anni prima. Non ti dico lo sgomento del ceto borghese di Galatina e provincia. Quando si esaurisce la meteora Chiarenti, che però venne eletto anche alla Provincia, riprese la collaborazione tra valloniani e democristiani. Ma prima di questa collaborazione c’erano stati diversi sindaci espressi sempre dal raggruppamento valloniano: Carlo Guido, un commerciante e medio proprietario terriero, Alberto Rizzelli, Celestino Galluccio. Solo dopo cominciò la collaborazione con De Maria. Quando si inaugura la Mostra dell’Artigianato negli anni Sessanta lo si fa di comune accordo.
Insomma, dopo tanto lottare si giunge
all’accordo.
Sì. Quando incontravo Gino Vallone, mi diceva: “Ci trattano con i guanti gialli”, per dire “con ogni deferenza”.
A p. 38 delle tue Memorie si legge un giudizio sintetico sulla storia novecentesca della nostra città. Tu scrivi “… ci sono tutti i presupposti per poter formulare una nuova sintesi storica, e parlare di un Nocevento galatinese clerico-fascista”. Questo tuo giudizio risale al 1977. Ventidue anni dopo, senti di poter confermare questo giudizio oppure vuoi formulare un giudizio diverso?
A me sembra che il giudizio vada confermato nella sua pienezza, se si pensa che subito dopo l’Assemblea Costituente e subito dopo il 1948 il clerico-fascismo ha avuto la copertura piena della DC. Tutti gli esponenti fascisti delle organizzazioni periferiche e centrali sono confluiti nel corpaccione della DC. A Galatina c’è stata una copertura valloniana di questa operazione. Non si può non riconoscere che una parte di esponenti piccoli e medi dell’amministrazione locale fascista, se non sono stati valloniani, perlomeno hanno appoggiato Vallone nel dopoguerra. In questo senso, posso confermare quel giudizio.
E’ anche vero che, chi dovesse leggere le tue Memorie, si farebbe un’idea diversa della cultura politica locale, cioè scoprirebbe che oltre al clerico-fascismo, esiste un altro filone politico, ovvero una cultura di sinistra. In un giudizio complessivo, che ruolo può avere questo secondo filone nella cultura politica galatinese?
Chi legga disinteressatamente le cose che ho scritto, capisce che questa cultura di sinistra è stata emarginata intenzionalmente; ma capisce anche che in essa c’erano i germi del rinnovamento, che continuano a rimanere vivi. Sta al pensiero, all’opinione dei più capire se sono germi che meritano di crescere, o lasciarli isterilire.
Per finire, due domande su argomenti ameni. La prima: siamo in tempo d’estate, di vacanza: dove e in quali forme si svolgeva la villeggiatura durante il fascismo?
In campagna, la maggior parte di tutti i ceti sociali andavano in campagna. Solo alcune famiglie dei ceti alti andavano al mare. Il gruppo Vallone si recava con la famiglia Sticchi di Maglie a Santa Cesarea, i Bardoscia di Nicola dalla proprietà di Sannicola si spostavano a Gallipoli. Il ceto medio emigrava ai Paduli; c’erano alcune zone particolari, per esempio il Colamaria, dove un bel gruppo di famiglie del ceto medio (i Congedo di Pantaleo, gli Ascalone di Andrea, la famiglia Falco-Mollona, i Maiorano), emancipate, garbate, ben composte, si radunavano ogni sera in qualche casa, facevano i giochi di società che affratellavano, accomunavano con sincerità di sentimento le famiglie galatinesi degli anni Trenta.
Delle allegre brigate, insomma. Quando cominciava la villeggiatura in campagna?
Subito dopo la festa di San Pietro. L’avanguardia era costituita dai coloni che coltivavano il tabacco.
La seconda domanda riguarda le squadre di calcio durante il fascismo. Quali erano, dove si giocava, chi le finanziava? Ricordi qualche figura di calciatore particolarmente famoso? Le squadre erano seguite solo in casa o anche in trasferta?
Durante il fascismo c’erano tre squadre, contemporaneamente: la Fascista, amministrata dal segretario del Partito fascista, Francesco Bardoscia, era una squadra veramente grande. Emergeva una stella paragonabile ai grandi giocatori odierni, una mezzala, Ninì La Porta. Poi c’era un centromediano, Pasquale Manna (allora c’era il sistema metodista, ma sarebbe stato grande anche nel sistema di gioco d’oggi). L’allenatore era un vecchio portiere del Taranto e poi del Lecce, quando il Lecce stava in serie B negli anni Venti. C’era Gino Moro, che era portiere e allenatore al tempo stesso.
Poi ricordo la Fiume, dannunziana, e nonostante che Francesco Bardoscia fosse anche lui dannunziano, questa squadra faceva concorrenza alla Fascista. Era difficile trovare una famiglia in cui non nasceva un dissidio: c’era sempre il tifoso dell’una e il tifoso dell’altra nella stessa famiglia. Nella rispettiva dirigenza si notava un certo attrito di natura politica, e secondo me la dissidenza nasceva tra chi rivendicava il primato del fascismo sansepolcrista, della prima ora (la Fascista), e il cosiddetto fascismo di sinistra (la Fiume). Tra i dirigenti di quest’ultima squadra ricordo Alberto Ascalone, che andrà in Africa dopo la conquista dell’impero, Fedele Salacino, maestro elementare ed arguto poeta dialettale col nome di Gino de Porta Luce, e Ninì Micheli, iscritto all’Azione Cattolica. Dietro la dissidenza calcistica si celava quella politico-ideologica. E ci fu anche una disputa cavalleresca con relativo duello tra Francesco Bardoscia e Fedele Salacino.
Infine c’era la Starace, scalcinata e con poco seguito, di cui so poco o nulla. Ricordo invece la formazione completa della Fascista negli anni Trenta: Moro, Restio, Castena detto Ciui, Papadia, Manna, Scalese (centromediano), Cerbino, Noia (ala destra), Pagani, Laporta II, Schirinzi e Giordano e Laporta I (una bella ala destra dei tempi della Pro Italia dei primi anni Venti), che è stata la prima squadra dei tempi di Vito Vallone. Le grandi sfide erano col Casarano, e si andava in trasferta a seguire le squadre anche coi mezzi precari di allora.
Non mi dire che da giovane tifavi per la Fascista?
Sì io ero per la Fascista.
Bene, con questa rivelazione finale possiamo chiudere l’intervista. Grazie.