Ricordi di vita cittadina. Intervista a Giuseppe Virgilio (Parte seconda)

a cura di Gianluca Virgilio

Essendo nato nel 1921, hai frequentato il liceo negli anni 1935-1939. Vuoi raccontare qualche episodio o aneddoto, per dire se e come il fascismo condizionava la vita scolastica di un liceo classico di provincia quale fu il “Pietro Colonna”?

Che un certo condizionamento ci fosse, non si può negare. Per esempio, c’era il sabato fascista, cioè si andava a scuola regolarmente al mattino, e nel pomeriggio nei locali del fascio si era impegnati nelle esercitazioni finalizzate a militarizzare la gioventù. Il sabato fascista si risolveva, dunque, in un aggravio di impegno per la gioventù. Del fascismo ricordo un silenzio e una solitudine, conosciuti e capiti solo a posteriori – noi non sapevamo nulla di quello che accadeva nel mondo; la vita della nazione e quella europea ci era del tutto estranea –, e interrotti solo quando veniva trasmesso il discorso del duce. Il tutte le aule scolastiche era stato allestito l’impianto altoparlante, sicché quando parlava Mussolini si sospendeva la lezione e si ascoltava il discorso del duce.

Mi sembra un pesante condizionamento. Sarebbe come se oggi gli studenti dovessero sospendere la lezione per ascoltare in classe la voce del Presidente del Consiglio! Ma dimmi, che cosa di preciso avveniva in quelle circostanze?

Su quei banconi di legno degli Scolopi, seminariali, con l’insegnante in cattedra, si era costretti ad ascoltare il duce. Non è che si stesse proprio immobili, perché per noi studenti quella era un’occasione di svago: non facevamo lezione. Poi, alla fine del discorso, c’era un breve commento da parte del professore. Rammento in particolare il commento di un professore al quale volevamo tutti bene, perché era molto umano e disponibile, anche se non molto efficace nella didattica: Vittorio Distante, fascista esuberante, enfatico. In occasione di un discorso pronunziato da Mussolini dall’alto della prora di una nave nel porto di Genova che cominciava così: “Stamane, venendo dal mare…”, il professore Distante commentò con foga: “Lui vuole Roma, la sua Roma…”e batté la mano col mignolo aperto sulla cattedra, facendosi male da solo; e noi ci mettemmo a ridere. Inoltre, ricordo qualche riferimento ai discorsi di Mussolini nelle tracce dei compiti in classe assegnati dai professori di italiano.

Nel 1938, quando facevo la seconda liceale, ci fu il decreto sulle leggi razziali, e noi dovemmo presentare una dichiarazione nella quale si dicesse se si apparteneva alla razza ariana o meno. Ma noi non sapevamo e nessuno in classe e fuori della classe ci spiegava che cosa significasse appartenere alla razza ariana.

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