Quindi nel sottotitolo del tuo libro possiamo leggere un omaggio a Gobetti?
Nel libro c’è un’indicazione di cultura gobettiana.
Quali sono stati i tuoi referenti culturali, ovvero quali autori ti hanno insegnato a leggere la realtà galatinese nel modo in cui tu l’hai letta?
Al di là di Gobetti, l’autore che più mi ha interessato dell’epoca prefascista, che mi ha indotto a guardare in un certo modo la realtà galatinese, è stato Gaetano Salvemini, in particolare gli scritti che riguardano la vita meridionale, lo spirito di classe e il ruolo del clero nell’Italia meridionale. A proposito del clero, vanno senz’altro ricordati i suoi due famosi aforismi, riguardanti la vita fisica, dire anzi fisiologica, del clericus, allorché Salvemini dice che, quando un contadino usciva dalla sua umilissima dimora sul far del giorno per recarsi in campagna e vedeva sull’uscio della canonica la perpetua, lavorava con una maggiore tranquillità d’animo, perché era certo di non avere insidie in casa sua. Era diffuso nel Sud il convincimento della vita peccaminosa del clero, quello meno culturalmente provveduto, meno spiritualmente organizzato nel modo di gestire la liturgia e la sua missione. Nel secondo aforisma si coniugano alcuni principi di carattere politico-costituzionale e una ideologia categoricamente repubblicana: Salvemini auspica che con le budella dell’ultimo sacerdote sia strozzata l’ultima testa del re. Salvemini auspicava la fine del sacerdozio…
La fine del trono e dell’altare…
Sì, per riassumere. Poi sono intervenute le letture gramsciane nel corso dell’avanzata primavera del 1946 – rammento bene questo momento -, allorché in un primo pomeriggio apparve in Piazza San Pietro a Galatina un banchetto con una serie di scatoloni di colore amaranto che contenevano la prima edizione einaudiana di tutta l’opera gramsciana. I volumi era anche rilegati con una copertina colore rosso. Incominciava in quel modo la propaganda, diffusissima anche nel Sud, della Casa Editrice Einaudi. E io li acquistai a rate e cominciai a divorarli. Così ho acquisito certi elementi di orientamento politico e culturale, che, mentre si svolgeva la lotta per il referendum Monarchia-Repubblica e per la candidatura di Gino Vallone a Galatina, mi portavano a fare delle riserve circa certi fenomeni, circostanze, manifestazioni, atteggiamenti reazionari nell’ambito del comitato valloniano. A Galatina il 21 marzo di quell’anno c’erano già state le prime elezioni postfasciste, e con 6400 voti, un vero e proprio plebiscito, era stato eletto sindaco Gino Vallone, primo sindaco di Galatina liberamente eletto. Gino Vallone era già stato nominato dal Prefetto Commissario politico ed era succeduto al Commissario prefettizio di nomina governativa, il colonnello Cohen, di origine ebraica. Rammento le discussioni che si facevano nello studio dell’avvocato Luigi Ferrol, un carissimo amico, un civilista di grande prestigio e valore, credo forse l’ultimo avvocato civilista di polso che ci sia stato a Galatina, in concorrenza con l’avvocato Gaetano Cesàri, di cultura e orientamento socialista. In quel periodo ci fu una polemica tra il socialista Cesàri e il liberale Ferrol. Noi avevamo cominciato a pubblicare “La Voce di Galatina”. Cesari collaborava al “Tribuno Salentino” di Lecce, un ricco e vecchio giornale di orientamento socialista, d’un socialismo tradizionale, direi preleninista. Ferrol, di origine piemontese – il padre era un graduato della Guardia di Finanza – , neanche a farlo apposta aveva un viso paffuto dall’impronta cavouriana. In risposta ad una nota polemica di Ferrol della quale mi sfugge l’argomento, apparsa su “La Voce di Galatina” durante le elezioni post-fasciste, il Cesari titolò un articolo Il piccolo Cavour; e rammento che Ferrol sul momento se ne risentì. Ma la polemica finì lì.
Nella Premessa alle tue Memorie si legge: “Queste Memorie rifondono in forma unitaria alcuni scritti … pubblicati perlopiù sul “Corriere” di Galatina diretto con competenza e grande passione civile da Carlo Caggia negli anni Settanta e Ottanta” (p. 7). Potresti illustrare l’humus culturale e politica di quel periodo della nostra storia recente? Potresti dire se, quando e dove vi riunivate, come stabilivate la linea del giornale, se facevate delle discussioni; e poi chi finanziava il giornale e come lo diffondevate?
Per rispondere a questa domanda è necessario puntualizzare quanto segue: non ho mai partecipato ad una sola riunione del gruppo di amici che dirigevano questo giornale, né mai mi è stato chiesto uno scritto con la proposta dell’argomento; gli articoli sono stati una mia iniziativa, una scelta dettata dal bisogno di dire quello che pensavo. Negli anni Settanta ormai erano già maturati e venivano sempre più perfezionandosi in me i pensieri, le meditazioni, le riflessioni che mi suggerivano Gobetti, Gramsci e Salvemini. Io accettavo in pieno la linea del giornale, che postulava l’ideologia di una sinistra gramsciana. Qualche volta la direzione si trovava a disagio per la lunghezza dell’articolo, ma io non ho mai tollerato che gli articoli venissero tagliati. Solo raramente è accaduto che un articolo venisse diviso in due parti. Quegli articoli li spiego come il prodotto di una mia speranza e di una mia attesa di rinnovamento della società, un rinnovamento che si rinviava continuamente. Allora, sul pieno nazionale, si passava dalla politica del tripartito (DC, PLI, PSDI) al pentapartito (DC, PLI, PRI, PSI, PSDI), e si rimaneva in attesa del sinistra, della vera autentica sinistra.
Eppure nel ’75 il PCI ebbe moltissimi voti, tanto che si parlò di sorpasso della DC…
D’accordo, ma nella realtà non cambiava nulla. Ecco, in quegli articoli bisogna leggere un’ansia, un bisogno e volontà di rinnovamento, che in realtà non c’è stato.
La domenica spesso ci riunivamo nello studio dell’avvocato Caggia in via Garibaldi a Galatina; era quello un momento in cui si conversava sugli argomento che riguardavano la vita del giornale, le ripercussioni, le vibrazioni e le reazioni della gente. Qui veniva fuori anche qualche indicazione da parte del direttore, che però a me ha sempre lasciato ampia libertà. Il finanziamento avveniva tramite la pubblicità e il puntuale pagamento degli abbonamenti che erano all’incirca un migliaio. Quando si è passati dal “Corriere” al “Nuovo Corriere” il finanziamento venne dal dott. Vincenzo Antonaci, in un momento in cui subentrò lui alla direzione del giornale in conseguenza di un mutamento nell’ambito del PSI di Galatina (in riferimento al rapporto con l’on. Signorile e l’avv. Spoti, esponente locale e guida del PSI di Galatina). L’interesse di fondo del giornale era di natura politica e di passione civile di tutti i collaboratori.
Puoi dire com’è nata in te l’idea, il desiderio di ricostruire la storia di Galatina della prima metà del XX secolo? C’è stato un motivo di fondo che ti ha indotto a scrivere? E gli articoli, di cui è fatto il libro delle tue Memorie, li hai programmati, oppure essi sono nati spontaneamente, imprevedibilmente?
Questa domanda mi induce a guardare in me stesso. Nella mia vita è mancata la vicinanza affettiva dei nonni paterni e materni e questo mi ha indotto istintivamente a ricercare il contatto con l’anziano. Quando ero giovanetto di ginnasio inferiore, dunque nei primi anni Trenta, trascorrevo ore intere nell’officina di un carpentiere, Carmine Torsello, che credo sia stato forse il carpentiere più geniale e perfetto nelle sue linee per la costruzione dei mezzi di trasporto del contadino, piccolo medio e grosso proprietario. Costruiva il carro da tiro per il trasporto della merce, lu traìnu, come si diceva in dialetto. Durante la vendemmia si inseriva su lu traìnu la cassa dell’uva che trasportava dai tredici ai quindici quintali dal podere in campagna allo stabilimento in città; poi lo char à banc, che serviva per il trasporto delle contadine, per esempio quando venivano portate in campagna per i lavori agricoli; e poi il biroccio, che era il mezzo della famiglia. Se si potesse tornare indietro, e schierare un serie di modelli, il modello disegnato e costruito nella compostezza e perfezione delle sue linee, sarebbe ancora quello di Carmine Torsello. Aveva la sua officina in Via Luce all’altezza dell’incrocio con via Giulia. Ricordo che mi raccontava anche le sue avventure galanti: era un popolano libertino dalle battute pruriginose.
Passavo anche ore intere presso il banchetto nella bottega di un calzolaio: Cesare De Pascalis, sempre in via Luce. Era un calzolaio élitario. Entrando nella sua bottega, nella prima stanza, a sinistra, c’era il banchetto di lavoro; davanti, su un mobile appoggiato al muro, c’era una schiera di paia di scarpe confezionate da lui, in vendita. Non che a Galatina mancassero i negozi di scarpe, ma molti acquistavano le scarpe confezionate da lui; e avevi la possibilità di scegliere la tomaia a mocassino, con ricami e non, di diversa qualità.
In questi luoghi sentivo raccontare tanti aneddoti della vita locale, soprattutto dal padre di Cesare De Pascalis, Carmine. Un particolare suscitò la mia attenzione: in quella bottega era appesa alla parete una fotografia incorniciata dei deputati del Parlamento italiano della legislatura credo del 1919, e tra i vari deputati si distingueva Antonio Vallone. Un quadro uguale era appeso nella casa-osteria gestita da Nuccio Beccarrisi in piazza Fontana, presso la casa dei Siciliani. Stiamo parlando dei primi anni Trenta, quando io frequentavo la seconda-terza ginnasio. Sicché, quando, caduto il fascismo, si riorganizzano i partiti a Galatina e si rifà il nome dei Vallone, io capisco che dietro il nome dei Vallone c’era buona parte della storia di Galatina, e nasce in me il desiderio di capire, attraverso le letture, la storia locale. Già nel dopoguerra il rinnovamento mi sembrava una legge della storia, e mi rendevo conto che tardava a venire.
Gli articoli che venivo pubblicando sul “Corriere” di Galatina, dunque, non sono stati programmati, ma sono il frutto maturo di queste impressioni che datano dalla prima giovinezza. Per farti un altro esempio, quando mi è capitato di frequentare l’albergo Paranza (soprannome di Raffaele Bello) ho scoperto per caso la dedica alle figliole di Raffaele Bello fatta da Angelo Musco. Allora ho cominciato a capire che il rinnovamento toccava la classe popolare, soprattutto il ceto delle tabacchine. L’articolo sulle tabacchine nasce anche da questo non voglio dire travaglio, ma movimento dell’animo.
Come spieghi che le Memorie si interrompono alla fine degli anni Quaranta, e che rare siano le incursioni negli anni cinquanta e sessanta, e quasi nessuna negli anni settanta e ottanta? Che cosa ti ha trattenuto, insomma, dall’estendere l’indagine o il recupero memoriale agli anni più recenti?
In parte ritengo di aver già risposto a questa domanda. Con il 18 aprile 1948 la maggioranza assoluta alla Camera è della DC. La DC può celebrare così la presa di possesso dello Stato, non la guida politica. Lungo gli anni Sessanta e Settanta, in chi seguiva lo svolgimento dei fatti politici, si crea un clima di attesa, di attesa del rinnovamento e del cambiamento della vita politica. Quante volte, per esempio, noi abbiamo deplorato, ma amaramente abbiamo dovuto prendere atto, che il Ministero dell’Interno e il Ministero della Pubblica Istruzione (due chiavistelli attraverso i quali si aprono le porte del rinnovamento) erano sempre nelle mani di un democristiano. Ecco perché io ad un certo momento mi fermo, in attesa…
Forse perché la storia seguente non valeva la pensa di essere raccontata?
No, vale la pena di essere esplorata quando c’è la speranza, e forse questo è il momento di riprendere a sperare, anche se occorrerà attendere ancora qualche anno per vedere in che modo il rinnovamento si potrà realizzare. E’ possibile recuperare il passato quando un ciclo storico è finito e incomincia uno nuovo che consolidi la visione storica, e questo non è ancora avvenuto. La vicenda del bipolarismo con le esigenze di schieramento, la dispersione e la frammentazione della DC, la fine del PSI, le vicende del post-comunismo impediscono ancora una chiara visione storica.
E allora, torniamo di nuovo indietro nel tempo, alla tua giovinezza. Vito Vallone, sindaco di Galatina per molti anni, muore nel 1943, quando tu hai 22 anni. Ti sarà capitato, dunque, di vederlo più volte. Puoi descriverlo? Quali ricordi per così dire visivi conservi dell’uomo?

Questa è una domanda che in me provoca momenti di nostalgia. Vito Vallone negli ultimi anni della sua vita non usciva più di casa. Io lo vedevo in certi periodi dell’anno, in particolare nella stagione di avanzata primavera, quasi ogni giorno, perché verso le due e mezzo del pomeriggio il vecchio cocchiere di casa, dopo aver preparato carrozza e cavallo, aiutava il suo padrone, Vito Vallone, a salire in carrozza e lo conduceva ai Paduli, dove egli aveva una villa sulla strada per Collepasso, subito dopo l’incrocio Cutrofiano-Aradeo-Noha-Collepasso. Mi ricordo questo particolare: una vecchia carrozza, il vecchio cocchiere e Vito Vallone nel fondo della carrozza. Per il resto, di Vito Vallone si sentiva sempre parlare, ma non si vedeva quasi mai in giro, faceva una vita riservata. Antonio muore nel 1925, essendo nato nel 1858, Vito muore nel 1943 ultraottantenne.
Vito Vallone è stato a Galatina il leader dei cosiddetti “fascisti di don Vito”, l’ala dissidente del fascismo. Ricordi qualche episodio in cui si espresse questa dissidenza? E contro chi si espresse?
A me non sembra che ci sia stata una dissidenza sul piano pratico. Quello era un gruppo di fascisti legato a don Vito nella sua qualità di sindaco. Non dimenticare che don Vito è stato il sindaco operoso, affettuoso e molto pragmatico, a favore della povera gente durante la prima guerra mondiale. Lì è venuta fuori la sua capacità amministrativa ed è nata la sua fama. Molte furono le iniziative, le risorse messe a disposizione di certi strati della popolazione a cui assicurava la sopravvivenza. Lì è anche venuta alla luce la sua affabilità nell’esercizio della professione medica. Sembra una favola, ma l’utilità della sua opera si toccava con mano: la povera gente dal medico veniva anche messa in condizione di comprare un po’ di bollito per ristorare la famiglia. Quando Vito Vallone aderisce al fascismo, le schiere dei fascisti galatinesi si gonfiano. Ma una dissidenza vera e propria, una proposta politica alternativa non c’era.
Quindi secondo te la posizione di don Vito non era differente rispetto a quella di chi gestiva il potere, per esempio Angelo Ancora e Domenico Galluccio?
Questi leader fascisti che tu nomini sono strettamente legati al potere attraverso la mediazione della questura, della prefettura, dei tribunali; sono fascisti che sentono il dovere di dare un rendiconto all’autorità centrale; invece Vito Vallone era completamente autonomo, nel senso che vedeva nel fascismo uno strumento per recuperare un ordine che ormai stava finendo.
E’ corretto, dunque, dire che Vito Vallone impersona l’ala della borghesia galatinese perdente rispetto ai fascisti che prendono il potere. In definitiva, negli anni del fascismo, chi deteneva il potere reale a Galatina?
Il potere effettivo passa da Vallone, che a un certo punto si ritira, alla borghesia fascista, di cui Domenico Galluccio è espressione, e alla borghesia del tabacco, di cui è espressione Angelo Ancora. E tuttavia “i fascisti di don Vito” li ritroviamo, quando don Vito si ritira, molto attivi anche in pieno fascismo. Il fascismo a Galatina, in un primo tempo, era un vallonismo prolungato. Solo quando il fascismo esprime i suoi dirigenti ideologicamente impegnati, nominati dall’alto dalla prefettura, dalla segreteria nazionale del partito, attraverso gli organi periferici, “i fascisti di don Vito” entrano nell’ombra ed emergono i fascisti nuovi, la nuova classe dirigente, i cui vertici sono Domenico Galluccio, il podestà, e Francesco Bardoscia, il segretario del partito. Poi c’erano i piccoli gerarchi nell’ambito del sindacalismo organizzato, delle donne fasciste, e di tutta l’organizzazione del partito.
Domenico Galluccio e Angelo Ancora furono due protagonisti della scena politica galatinese, avendo ricoperto la carica di podestà durante il fascismo. Ricordi i loro volti, le loro persone, potresti descriverli?
Erano delle persone normalissime, con un atteggiamento differente nei riguardi dell’interlocutore. Domenico Galluccio era sostenuto e sobrio, parco di parole; non era molto facile all’incontro, nel senso che pensava all’amministrazione della città, che poi si riduceva esclusivamente alla firma degli atti pubblici e al colloquio con i tecnici e i funzionari del Comune, poiché non vi erano riunioni assembleari. Non ricordo di averlo visto durante pubbliche manifestazioni. Me lo ricordo, invece, subito dopo il ’29, quando il sindaco celebrava in casa il matrimonio, secondo l’uso del tempo. Buon amministratore dei propri beni, solerte, faceva spesso dei sopralluoghi in campagna, è ricordato dal popolo perché ha contribuito alla costruzione di Piazza Dante Alighieri e del Monumento ai Caduti, ma a spese del popolo che pagò il pane un soldo in più.
Angelo Ancora era una persona fine, ma soprattutto facile all’adulazione dell’interlocutore, aveva un sorriso che qualche volta appariva ed era mefistofelico. Il popolo lo ricorda ancora col nome di don Sisì, perché non diceva mai di no a nessuno, annuiva sempre.
Questi due leader erano espressione di interessi o gruppi sociali differenti?
Domenico Galluccio è il rappresentante della borghesia agraria, i proprietari terrieri, invece, Angelo Ancora della borghesia del tabacco. Ancora era originario di Sternatia, aveva svolto la funzione di istitutore durante l’amministrazione di Ippolito De Maria del Convitto “Pietro Colonna”, era maestro elementare, ma io non lo ricordo nell’esercizio dell’insegnamento. Trasferitosi a Galatina dopo aver sposato un’insegnante elementare, divenne esponente attivo nei ranghi fascisti. Ero giovanetto quando fu nominato podestà dalla Prefettura: questo significava per lui il raggiungimento di un vertice per il quale aveva lavorato tutta la vita, utilizzando soprattutto la concessione del tabacco. Per questo, se si volesse fare la differenza sociologica tra i due esponenti del fascio locale su nominati, si potrebbe dire che Domenico Galluccio è esponente della classe agraria, mentre Angelo Ancora è esponente della borghesia del tabacco, una borghesia degli affari, imprenditrice. In città si sentiva parlare con insistenza della ricchezza crescente di Angelo Ancora. E poi ricordo in un’estate dei primi anni Trenta i commenti dei galatinesi circa una villa costruita con ricchezza di materiali sulla strada Cutrofiano-Aradeo, dove la famiglia Ancora andava a villeggiare. Fu attaccata una scritta sulla colonna d’entrata della villa, che diceva: SANGUE DEI POVERI. Questo dà la misura di come l’uomo veniva considerato da una certa opinione pubblica locale. Certamente dietro quella scritta c’era la mano del proletariato di sinistra della città. Ancora era podestà, se non ricordo male, quando cadde il fascismo, e da semplice cittadino – non da candidato – prese parte alle prime battaglie politiche locali postfasciste. Si barcamenava tra De Maria e Vallone, ma io sono convinto che votasse per De Maria.
E poi c’era un altro leader, Francesco Bardoscia.
Francesco Bardoscia fu segretario, dopo il segretariato dell’ingegnere Giuseppe Congedo e quello del professor Gennaro Diso, subito dopo la marcia su Roma, per nomina venuta dall’alto; e fu segretario per tutto il ventennio. Facile di parola, buon lettore, dannunziano dalla testa ai piedi. Si è speso per qualche iniziativa culturale – del resto ben scarse durante il fascismo -, per esempio ha dato il via all’organizzazione del Museo, al riordino delle cose rimaste di Pietro Cavoti. Una persona sostanzialmente corretta.
Quali altri leader fascisti galatinesi ricordi?
Ricordo l’avvocato Felice Colona, apparentato con i Bardoscia, che è stato segretario pro tempore un po’ prima di Francesco Bardoscia. Anche lui molto disponibile all’amicizia, alla conversazione, una persona a modo. L’apoteosi di questi esponenti del fascismo si ebbe con la venuta a Galatina del Cardinale Ascalesi in occasione del Congresso eucaristico nel 1938.
E un episodio che ricordi nelle tue Memorie…
Sì. Fu la celebrazione e la consacrazione della classe dirigente cittadina.
Poi c’erano i cosiddetti gerarchetti. Per esempio, i sindacalisti: Luigi Carrozzini, estroverso, un buon uomo alla ricerca della parlata italianeggiante, con molti lapsus, ma sempre facondo; e poi Vincenzo Gentile, il sindacalista veramente di parte fascista. La differenza tra i due la si è percepita alla caduta del fascismo: Carrozzini nascondeva le sue origini politiche e la sua adesione al fascismo, introducendosi nel comitato valloniano, mentre Gentile la ostentava con la prosopopea di chi si sentiva vittima dei soprusi del nuovo potere.
Poi c’erano coloro che avevano un ruolo secondario nell’organizzazione esteriore delle manifestazioni fasciste. Per esempio, ricordo un certo Remo Campanella, il custode della casa del fascio. Quando si svolgeva una manifestazione pubblica, lui si assumeva il ruolo di assicurare l’ordine, con atteggiamento imperioso: gli studenti dovevano essere ben allineati, i balilla, gli avanguardisti, le giovani italiane, ecc. E c’era una donna, una certa Peppina, conosciuta come Presidente delle donne fasciste, anche loro allineate, con la camicia nera in occasione degli anniversari della marcia su Roma. Quando marciavano al suono della banda, si sentivano tutti Achille in seno, ma nella realtà di tutti i giorni erano persone normali, di animo buono.
(continua)