Di mestiere faccio il linguista 11. Le parolacce

di Rosario Coluccia

Nella lingua italiana esistono le brutte parole, ritenute a vario titolo sconvenienti o addirittura proibite,  le cosiddette parolacce. Non le usano solo quelli che hanno un’indole grossolana e un’inclinazione per i comportamenti poco educati. Le ha usate perfino Dante nella «Divina Commedia», opera che ha improntato per secoli la nostra lingua e la nostra letteratura. Nella «Commedia» troviamo parole grevi o insulti espliciti come «bastardo», «bordello», «ghiottone», «meretrice», «puttana», «puttaneggiare», «ruffiana» e altre che appaiono vere e proprie oscenità: «culo», «fesso» ‘fenditura tra le natiche’. Ci sono anche allusioni a malattie che mettono in risalto difetti fisici o disabilità varie («guercio», «monco», «sciancato») o alludono a malattie invalidanti o ritenute vergognose, quindi da dissimulare («rogna», «scabbia», «tigna»). Termini che oggi non osiamo evocare alla leggera, perché sappiamo che possono risultare sgraditissimi per chi li riceve. Oppure, se li usiamo intenzionalmente e con piena cognizione, lo facciamo per ferire il destinatario delle nostre parole.

La perplessità di fronte all’uso di certe parole nasce dal “politicamente corretto”, oggi entrato nella coscienza collettiva (di molti, se non di tutti). Certo non ci permettiamo «minorato» o «mongoloide» (moralmente criticabili), e (correttamente) ci chiediamo quale sia la forma giusta e rispettosa, chiedendoci se è preferibile «handicappato», o «portatore di handicap», o «disabile», o «persona con disabilità», o «persona diversamente abile». Non è una sofisticheria linguistica, non riguarda opzioni lessicali pari e tra loro intercambiabili, alternative di questo tipo non si regolano con la grammatica. La scelta coinvolge la sensibilità personale, propria e altrui. Scegliendo alcune parole al posto di altre facciamo capire cosa pensiamo veramente, le nostre idee e i nostri sentimenti. Questo si verifica sistematicamente quando parliamo di fatti che toccano la nostra sensibilità profonda. Nessuno ne è esente, nessuno può dire «non mi interessa, non mi riguarda». La malattia, la disabilità, il sesso, la vita, la morte (insieme ad altri temi in un certo senso più “moderni” come la condizione sociale, la razza, l’orientamento sessuale, la devianza), fanno parte della quotidianità di tutti noi. Impariamo a calibrare le parole: vanno impiegate valutando le connotazioni associate a ciascuna di esse e verificando i valori che alle stesse attribuiamo, a volte anche senza molto rifletterci.

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