Comprende solo il poco che la divulgazione gli consente di comprendere e ha l’impressione di averla sentita, quella che dicono voce dell’universo, in una poesia di Leopardi o di Eliot, di averla già sentita in una sinfoniadi Beethoven.Ma sa che sono cose diverse, anche se qualche volta avverte il sospetto che tanto l’arte quanto la scienza in fondo non facciano altro che tentare continuamente, e spesso disperatamente, di svelare i misteri dell’uomo e dell’universo, non facciano altro che cercare di decifrare i codici dell’infinito. Per l’uomo che non sa di scienza, l’espressione onde gravitazionali ha lo stesso senso di quella leopardiana che dice “sovrumani silenzi”. Ma per l’uomo che non sa di scienza, quello che conta probabilmente più di tutto, la dimensione che custodisce segreti sublimi e inviolabili, è il termine sovrumano. E’ con il senso imperscrutabile del soprannaturale, dello straordinario, del meraviglioso, con l’ansia di sondare, di rivelare, di conoscere, che tanto lo scienziato quanto il poeta si ritrovano a fare i conti. Certo, ciascuno al proprio modo, con i propri metodi, con i propri strumenti, seguendo strade che solitamente sembrano divergere, che qualche rara volta sembrano convergere, ma che in comune hanno l’origine, il movente che si può riconoscere nello stupore nei confronti dei fenomeni del tempo e dello spazio. L’uno e l’altro confessano più o meno esplicitamente l’ infinitamente piccolo dell’uomo davanti all’infinitamente grande del sovrumano.
L’uno e l’altro si spauriscono pensando l’infinito. Poi, lo scienziato cerca di ricondurre lo spaurimento in una struttura logica che gli consenta di formulare delle risposte, il poeta si ferma all’interrogativo perché considera che la risposta all’interrogativo sull’origine e sulla funzione dei fenomeni sia costituita dai fenomeni stessi.
Se la bellissima, suggestiva ambizione dello scienziato è quella di arrivare ad un punto dal quale si possa guardare il mondo come si guarda il proprio giardino, l’ambizione del poeta, non meno suggestiva, non meno bella, è quella di lasciare al pensiero la possibilità di contemplare il mondo come una tempesta di particelle vorticanti, come un’impenetrabile densità di tenebre, un caos perfetto nel suo sconosciuto principio e nella sua imprevedibile conclusione.
Se lo scienziato lancia con ogni suo pensiero, ogni gesto, una sfida all’enigma, all’incompreso, il poeta ha stabilito con se stesso il patto di lasciarsi sedurre dalla bellezza della sproporzione, della dismisura fra l’umano e il sovrumano, della indecifrabile metamorfosi degli esseri e delle cose, dal senso nascosto, indefinito, dall’ombra che confonde i contorni e rende impenetrabili le cose.
L’uomo che non sa di scienza e che di poesia sa qualcosa appena, ma che si consola pensando che in fondo sia dell’una che dell’altra non si può sapere che qualcosa appena, si fa sempre più persuaso che ha un concreto bisogno delle certezze della scienza ma anche della suggestione di una poesia, che ha bisogno, allo stesso tempo, di quello che la scienza gli rivela e di quello che gli nasconde la poesia con l’ingannevole promessa di rivelarglielo un’altra volta, con un’altra metafora, sorprendente e nuova.
Ecco, forse è questo l’elemento che la scienza e la poesia ( l’arte, comunque) hanno profondamente in comune: aggiungere sempre qualcosa al conosciuto, sorprendere l’umano sulle infinite possibilità dell’umano ma con la consapevolezza che c’è sempre qualcosa al di là di qualsiasi conoscenza. In fondo, come si fa a sapere se al fisico che indaga l’universo ad un certo punto non possa servire l’intuizione annotata in una poesia; come si fa a sapere quali contributi possano venire alla poesia dalla scoperta che l’universo ha una sua voce.
Poi, probabilmente, il gioco continuerà al modo di sempre, con il fisico che cercherà di sciogliere i nodi e con il poeta che cercherà di stringerli più forte.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica, 2 luglio 2023]