Le ragioni profonde di tale singolarità rispetto alle principali correnti novecentesche vanno rintracciate innanzitutto ‒ secondo la rigorosa ricostruzione dell’intera attività non solo letteraria di Comi ma anche del suo fattivo impegno in qualità di eclettico promotore culturale, delineata nell’introduzione da Giannone ‒ nel suo radicale ripudio delle «angosce individuali, […], cioè la poesia di tipo lirico» (p. XXVI), a vantaggio invece di una speciale e originale opzione di poetica. Egli muove così da un partecipe immanentismo magicamente “paganeggiante”, in cui vibrano le conturbanti suggestioni del simbolismo francese, amplificate da una «coscienza panico-sessuale» (Comi, Poesia e coscienza, 1932), di sicuro retaggio dannunziano, torbidamente protesa ad una segreta intimità con le cose, per approdare gradualmente, attraverso frizioni interne rivenienti dalla sua rimossa sensitività, nell’ambigua seduzione di dottrine esoteriche e orfiche ‒ mediate primariamente dalla suggestione teosofica di Rudolf Steiner ‒, ad una poesia di più schietta ispirazione mistico-religiosa.
Una religiosità panorfica e aristocratica quella di Comi, che trova nell’ars poetica, o meglio nella malia della «parola-Verbo» al servizio del poeta-sacerdote, l’espressione lirica essenziale di una tensione cosmica e trascendente, ancorché sempre turbata dalla prepotenza di una sensualità residuamente sorgiva e irriducibile, verso il sogno di una armoniosa palingenesi cristiana dello spirito umano ricongiunto con «le forze primigenie dell’universo» (Donato Valli, Girolamo Comi, p. 20). Nemmeno nelle edizioni definitive delle sue varie raccolte sembrano tuttavia stemperarsi gli ardori di una carnalità a lungo incubata in un imagery preziosamente costretto a specchiarsi in un efflorescente spettacolo verbale di associazioni analogiche, talvolta sacrificato alle frigidità di un cerebrale obscurisme, per essere poi restituito in scatti volontaristicamente propositivi («in voli d’inni ed in volontà d’ali», Comi, Canto per Eva, 1958, p. 185), al culmine di una fede acquisita teoricamente come presupposto metafisico piuttosto che conquistata per sovrumano sforzo del cuore. L’elemento orfico, religioso o metafisico ‒ comunque lo si voglia intendere ‒ pare insomma restare scollegato in Comi dall’idea di ricerca, istanza determinante altresì in un genuino itinerario religioso, né tanto meno concede alcunché alle contrastive e fruttuose spinte centrifughe dell’irrazionale, ma viene tutto maestosamente assorbito nelle partiture di un fulgido «rigore teorico» (Caporossi, cit. da Giorgino, p. 325): una immaginazione poetica ante rem bisognosa di forme mitiche nell’epoca della fine di ogni contenuto sacro. In Canto per Eva, all’icona neoplatonica della prima (e ultima) Donna Comi delega l’alto ufficio di preservare l’auraticità del Valore-Poesia, minacciata dalle spericolate curvature della dinamica temporale, contro cui erige una dizione poetica metempirica, innalzandola alle vertigini mentali di una ascensionalità mitico-simbolica: una coscienza così fieramente impartecipe del mondo quanto pateticamente celebrativa, ‘innica’ appunto.
Di qui una ispirazione sapienziale sovranamente immune da tribolazioni mondane, disvelate invece nei processi dell’allegoresi moderna. E per questo fieramente esposta ad una pretesa aulica nella sua rivendicazione di un «potenziale teologico» (Moliterni, p. 302), giacché sorta al di qua delle grandi ‘svolte’ epistemologiche novecentesche e delle conseguenti metafisiche del nulla che dissolvono il sublime. Ciò non toglie, come fa notare persuasivamente Giannone, che il neoclassicismo catartico di Comi mantenga l’irresistibile fascino di una oltranzistica difesa dell’assoluto, schermato dallo spasmo dolente della caducità proprio in virtù di quella sua vibrante fiducia preventivamente accordata al sentimento religioso, che eleva la poesia in preghiera, sciogliendone il lamento in un supremo canto ierofanico.
[In “Misure critiche”, n. s., a. XVIII, n. 1-2, 2019, pp. 238-240]