Ebbene, Lucini riprende questa figura reinventandola, attualizzandola e rovesciandola. Jaufré Rudel diventa ora, per citare Giulio Carnazzi, a cui siamo debitori per l’accurata “lettura” del Lai, molto utile anche per chiarire i numerosi riferimenti storici, cronachistici, geografici in esso presenti, diventa il «campione dello spirito di conquista e dell’imperialismo italiano», il «colonizzatore senza scrupoli»[1]. E come i governanti italiani di quel periodo, dei quali rappresenta in fondo la posizione ufficiale, egli nasconde sotto nobili ideali, di tipo umanitario, come la promessa di nuove terre per l’emigrazione del popolo italiano o la difesa dei libici soggetti alla dominazione turca, altre motivazioni e cioè soprattutto interessi di tipo puramente economico per affaristi di ogni genere, i «capoccioni», come li definisce nella prima strofa (ecco perché ho parlato di un’antistoria).
Ma ancora più significativa in questo senso è la strofa nona, in cui emergono i veri motivi dell’agognata conquista libica:
Eccovi il mio codazzo d’ingegneri;
ecco i forzieri vuoti italiani,
pezzenti eterni ed esigenti,
come li stomachi morti di fame.
E verran gli straccioni in lercia schiera,
avidi, macilenti a contendersi il pane,
come fanno ad ingombro qua su;
e in sul principio si accontenteranno
di cercarvi lavoro a buon mercato,
poi cresceranno pretese e superbia,
e noi li lasceremo, anche qua giù
sbasire, in pace, con grandi promesse
a scadenza mirifica e illimitata,
usanza preistorica e civile d’ogni governo,
sulla bilancia al sì ed al no alterno,
alla ragion politica e fortunata
(vv. 119-134)[2].
E più avanti Lucini individua anche, con straordinaria lucidità, la funzione di “diversivo” che doveva svolgere questa progettata impresa rispetto alla questione sociale, come mise in rilievo anche la stampa socialista in quel periodo: «Tentando, ho già scoperto la mirifica droga / della valvola aperta al bollir sovversivo della piazza» (vv. 180-181)[3]. D’altra parte “diversivo”, come fa notare proprio Carnazzi, è appunto la lezione originaria quando pubblica per la prima volta il Lai in rivista, poi sostituita da «della valvola aperta».
Anche Melisanda, d’altra parte, che nella realtà storica, come lo stesso Lucini chiarisce nella breve nota introduttiva, era la contessa cristiana di Tripoli in Siria, nella finzione letteraria diventa la contessa musulmana di Tripoli in Cirenaica, funzionale alla costruzione del protagonista. Il carattere di questo Jaufré Rudel «rimodernato» (come lo definisce sempre Lucini) si rivela già nelle prime strofe, nelle quali emergono, fra l’altro, anche le sue tendenze razzistiche nei confronti dei musulmani. Da qui la trasformazione, appunto, da cristiana a musulmana, della contessa di cui Rudel si atteggia quasi a liberatore, invitandola a cambiare abbigliamento e a vestirsi alla moda occidentale, seguendo i dettami degli stilisti parigini più in voga:
Stracciatevi la benda musulmana;
Guardate in viso ai Gentiluomini
a viso nudo, o sfolgorante di bellezza, Altezza.
Il fez vi pesa sopra le chiome
grottesco ed indecente:
or gettatelo a mare;
portate cappellini di fiori e di piume,
e fatevi ammirare
(vv. 15-22)[4].
E più avanti, rivolto sempre a Melisanda:
… e sfoggi
abiti di Parigi e decolletés di Worth,
gioielli di Lalique, e pelliccie di Bergem
e si permetta amanti, pardon, amici,
molto intellettuali, assai modern style,
preraffaelliti, tra un verso d’annunziano
e uno scambietto di ciarlatano
(vv. 30-36)[5].
Questa forte denuncia del tentativo di espansione coloniale in Libia da parte dell’Italia, verso cui Lucini manifesta apertamente la sua indignazione morale e la sua opposizione politica, va di pari passo con la raffinata elaborazione letteraria del componimento in cui l’autore dimostra una perizia notevole che si rivela anche dalle numerose citazioni, riferimenti, riprese, non solo di Heine e di Carducci, ma anche di Petrarca e dello stesso Jaufré Rudel. E la strofa (o lassa) ottava è tutta intarsiata di versi di questi autori che Lucini mette in corsivo per renderli ancora più evidenti:
Così venni munito.
Pei secoli, Jaufré, che si lagnava
se gli è tolto veder l’amor lontano
e che al Signor per vero e per real donava
l’amor, che lo pungea, così, lontano;
Rudello, rugiadoso e trovatore ha fatto esperienza.
E per quanto passato
usando vele e remi col Petrarca;
e per quanto intessuto nelli arazzi
germanici dell’Heine
(dolci notti al castello di Blay, taumaturghe
di figure dipinti e primavere,
a splender, dai topazi dell’ogive, in faccia all’alba,
amore e gioventù);
e per quanto morente in sulla nave,
in cospetto a Tangeri
(Contessa che è mai la vita?
È l’ombra di un sogno fuggente…)
come ricanta un nostro senatore,
che bebbe in fresco a Cristo e ai porcellini
ed or professa il Re;
Jaufré rimodernato, ha fatto li apparecchi e si presenta,
con suffragio d’armati e compiacenza,
e non sofistica sopra ai perché
(vv. 95-118)[6].
Alla fine, come si vede, non manca nemmeno un riferimento polemico al mutamento delle idee politiche del Carducci che si avvicinò alla monarchia e venne nominato senatore a vita nel 1890. Come pure, più avanti, Lucini polemizza contro D’Annunzio e i poeti dannunziani che si erano fatti subito esaltatori dell’imperialismo italiano di cartapesta: «Tutta Italia ha poeti a dovizia / che raglieranno versi gabriellini, / per l’isterica sua puerizia, / che farnetica imperi levantini» (vv. 276-279)[7].

Ma, oltre che in Lucini, questa vena di contestazione politica, di denuncia sociale è presente anche, se pure in misura minore, in alcuni poeti futuristi che compaiono anche nella prima antologia ufficiale del movimento, I poeti futuristi, del 1912. E a questo proposito non si può non osservare quanto ampia sia la gamma dei temi presenti in essa, non tutti riconducibili a quelli indicati da Marinetti nel Manifesto di fondazione e ispirati alla civiltà della macchina, alla velocità, alle nuove scoperte della scienza e della tecnica. Si veda, ad esempio, l’Ode alla Violenza di Enrico Cardile, un poeta siciliano che fu vicino a Lucini, a cui era accomunato dalle idee anarchico-libertarie e che aderì per brevissimo tempo al futurismo. Ebbene, anche questa composizione, come alcune citate di Lucini, era ispirata da un grave fatto di cronaca, la fucilazione del pedagogista e anarchico catalano Francisco Ferrer avvenuta a Barcellona il 13 ottobre del 1909, che suscitò manifestazioni di protesta in varie città europee. Ferrer era stato accusato ingiustamente di avere fomentato la rivolta della popolazione di Barcellona alla Guardia Civil che aveva il compito di imbarcare i coscritti, quasi tutti appartenenti alle classi povere, mandati a combattere nelle guerre coloniali in Africa (anche qui dunque il problema dell’espansione coloniale). Lo stesso Lucini, non a caso, in questa occasione scrisse Apoteosi di Francisco Ferrer, poi compresa in Nuove Revolverate, rimaste inedite e pubblicate insieme a Revolverate da Sanguineti nel 1977[8].
Dedicata e rivolta alla figlia di Ferrer, Paz, questa composizione ha la forma del poema-epistola, in cui emerge un desiderio di vendetta (ritorna il tema della «vendicazione» di Lucini) contro questo assassinio, ed è un violento atto d’accusa contro il dogma e l’errore dei secoli passati commessi dal potere politico e religioso:
Poi che balzammo dalle sudate carte,
al rimbombo
del piombo fratricida,
e vedemmo, nell’ombra, ignobile
transcorrere ancora la schiera
degli assassini, lubrica di sangue,
ghignante satanica spettrale:
Guzman, Lojola, Torquemada,
e tutti i pontefici,
e tutti i carnefici,
con neri vessilli, trofei fanatici,
simboli atroci;
il dogma con tutto il suo veleno
e l’errore con tutta la sua incoscienza.
Poi che balzammo dalle sudate carte
della sapienza antica,
per dire alla straziata ombra di tuo padre,
o fanciulla,
‒ Ecco, ti vendicheremo!… ‒
(65-83)[9].

Anche altri poeti che vantano una militanza più lunga nelle file del futurismo rispetto a Cardile, come Paolo Buzzi e Enrico Cavacchioli, dimostrano in alcune composizioni una sensibilità verso tematiche di tipo civile e sociale. Buzzi, ad esempio, che ebbe, non a caso, forti legami con la tradizione milanese e lombarda e, in particolare, come Lucini, con la Scapigliatura, nella prima antologia del ’12 è presente con Il canto dei reclusi, una composizione articolata in sette parti e precisamente: Dai monasteri, Dai lupanari, Dalle caserme, Dagli ospedali, Dalle prigioni, Dai manicomii, Dai cimiteri. La sua attenzione si rivolge cioè a luoghi di reclusione, di emarginazione e di repressione sociale, dove vivono figure che si contrappongono, in diverso modo, alla “normalità” della vita borghese. Come nelle Revolverate luciniane, sono gli stessi protagonisti che parlano in prima persona plurale e rivelano la loro psicologia. E se in alcune sezioni come in Dai monasteri permangono ancora toni quasi crepuscolari alla Govoni, in altre emerge invece una forte polemica sociale come in Dalle caserme, dove si allude alle manifestazioni milanesi del ‘98 represse con violenza da Bava Beccaris (alle quali è dedicata anche Maggio di sangue di Lucini) e anche agli scioperi sempre più frequenti dove si scontravano manifestanti contro soldati, in una sorta di guerra tra poveri, e dove emerge ancora una volta un forte sentimento antiborghese:
Ma se si dovesse andar tutti i giorni in piazza,
tra le folle che urlano, si finirebbe con l’odiare di più i borghesi.
In fondo, è bello tirare a mitraglia sulle teste fitte.
Noi siamo forti e vogliamo provare la forza.
Poi, troppi han fame. Fra due anni avremo fame anche noi
(vv. 29-33)[10].
E così, in Dalle prigioni, rappresenta altre figure di emarginati che vedono nella pena di morte quasi una liberazione dalla loro condizione di sofferenza.
Anche in un’altra composizione presente sempre nell’antologia del ’12, Il canto della filandiera, e già compresa nella raccolta Aeroplani (1909), Buzzi dimostra questa sua sensibilità di tipo sociale, denunciando apertamente lo sfruttamento a cui erano sottoposte le operaie delle filande, e qui si può parlare proprio di sfruttamento minorile. In questa poesia, infatti, descrive le dure condizioni di vita e di lavoro di una adolescente alla fabbrica, non tralasciando alcun aspetto di esse. E, a questo proposito, vale la pena di osservare che la macchina e i luoghi di lavoro, così esaltati da Marinetti fin dal Manifesto di fondazione («Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa»[11]), si rivelano qui strumenti di sofferenza e di oppressione per le operaie. Si assiste cioè, in un certo senso, anche a una sorta di contronarrazione all’interno stesso del futurismo:
Io amo, io amo!
Questo muggir dell’acqua e del fuoco,
questo bollor della putredine,
questo filar dei fili senza termine mai,
queste larve di negra carne sfatta,
accendon le mie vene. Ho nude le braccia e le gambe.
Fra poco mi sbocciano i seni
fuor della tela macera di sudore.
Io amo, io amo!
(vv. 1-9)[12].
E alla fine, come in Lucini, c’è un desiderio di rivolta:
La ragna fila
d’oro, d’oro, d’oro
e scottati le dita
e respira l’aria marcia
e canta il cuore
sino a fargli una crepa!
E tendi l’orecchio al suon della Macchina eterna
che ti divora le fibre;
e cerca d’addormentarti in quello come a una Ninna –Nanna;
e torna, questa sera, a casa
pel sentiero del cimitero:
ché la strada maestra è piena di sassi
e tu potresti scagliarne uno
sull’automobili che volano in polvere
con le bagasce di seta dei padroni
(vv. 115-129)[13].
Anche Enrico Cavacchioli, un altro dei primi poeti aderenti al futurismo, affronta spesso, nelle sue composizioni, tematiche sociali, anarchiche, antiborghesi. In un ciclo di sette composizioni dal titolo 7!, compreso nella sua raccolta Cavalcando il sole del ’14, che è impostato alla maniera del Canto dei reclusi di Buzzi, rivolge la sua attenzione a personaggi che vivono ai margini della società borghese, come i mendicanti, le prostitute, gli assassini. In una di queste, 7 scaricatori di carbone, come nel Canto della filandiera di Buzzi, è descritto la dura fatica di questi operai che alla fine, parlando sempre in prima persona, prendono coscienza della loro condizione e manifestano un desiderio di ribellione:
Se un giorno, stanchi del lavoro che ci fà poveri
ed arricchisce il mondo, noi, sette scaricatori di carbone,
sputassimo la nostra saliva alcoolica
in tutte le miniere della terra
perché la terra avvampasse in un solo vulcano?
Vorremmo ben vedere, alimentare la fiamma che crea,
a lampi di shrapnel e di cannonate!»
(vv. 45-51)[14]
E qui il desiderio di vendetta, sempre presente, come abbiamo visto, in Lucini, Cardile e Buzzi, arriva ad assumere, nella fantasia dei protagonisti, dimensioni apocalittiche giungendo a immaginare la distruzione totale del pianeta, da cui sarebbe dovuto poi nascere un mondo nuovo e più giusto.
[In Contronarrazioni.
Il racconto del potere nella modernità letteraria, Atti del XXII Convegno
Internazionale della MOD, 17-19 giugno 2019, a cura di E. Mondello, G. Nisini,
M. Venturini, Tomo I, Pisa, Edizioni ETS, 2023, pp. 3-17].
[1] G. Carnazzi, Il Lai a Melisanda di Gian Pietro Lucini, in «Per leggere», III (2003), n. 4, p. 52.
[2] G.P. Lucini, Lai a Melisanda Contessa di Tripoli, in Revolverate e Nuove Revolverate, cit, 91.
[3] Ivi, p. 94.
[4] Ivi, p. 83.
[5] Ivi, p. 85.
[6] Ivi, p. 90
[7] Ivi, p. 99.
[8] Cfr. G.P. Lucini, Apoteosi di Francisco Ferrer, in Revolverate e Nuove Revolverate, cit., pp. 594-602.
[9] E. Cardile, Ode alla Violenza, in I poeti futuristi, con un proclama di F.T. Marinetti e uno studio sul Verso libero di P. Buzzi, Edizioni futuriste di «Poesia», Milano 1912, p. 181.
[10] P. Buzzi, Il canto dei reclusi, in I poeti futuristi, cit., p. 117.
[11] F. T. Marinetti, Fondazione e Manifesto del Futurismo, in Id., Teoria e invenzione futurista, a cura di L. De Maria con una Prefazione di A. Palazzeschi, Mondadori, Milano 1968, p. 10.
[12] P. Buzzi, Il canto della filandiera, in I poeti futuristi, cit., p. 133.
[13] Ivi, p. 137.
[14] E. Cavacchioli, 7 scaricatori di carbone, in Cavalcando il sole, Edizioni futuriste di «Poesia», Milano 1914, cit. da I poeti del futurismo 1909-1914, scelta e apparato critico a cura di G. Viazzi, Longanesi, Milano 1978, p. 137.