Il sapere ha molte forme, molte dimensioni; è eterogeneo, costituito ad incastri e complicate combinazioni, si compone di stratificazioni, è soggetto a costanti trasformazioni. Esattamente come la vita. Il sapere richiede percorsi obliqui, laterali, trasversali, la disponibilità a ritornare sui propri passi, a rinunciare alle certezze, alle convinzioni, a mettere in conto l’implicito, l’imprevisto, l’impensato. Pretende l’apertura al ripensamento, alla revisione di quello che si è appreso, al riconoscimento e all’accoglienza dell’errore. Esattamente come accade nella vita.
Allora diventa quantomeno ozioso, soffermarsi a ragionare se esiste un sapere che serve e uno che non serve. Sarebbe come dire che ci sono cose della vita che servono a qualcosa e altre che non servono a niente. Sarebbe come dire che ci sono cose della vita che non hanno significato. Ma si potrebbe facilmente obiettare che non esiste un solo istante della vita che non abbia un suo significato. Non una partita a briscola, non l’assurdità di un sogno.
Allo stesso modo, per le stesse ragioni, non esiste una conoscenza che si possa trascurare, perché sarebbe come trascurare un particolare dell’umano: l’espressione della sua condizione nel qui e nell’ora, oppure l’esperienza della sua memoria, la sua immaginazione di scenari futuri, il suo sogno ad occhi aperti di quello che vorrebbe essere, che vorrebbe fare.
Allora, se si volesse, preliminarmente e artificiosamente, fare la differenza tra il sapete che serve e quello che non serve, ci si dovrebbe forse chiedere in base a quale criterio si fa la differenza. Se la risposta dovesse essere che la differenza si fa in relazione alla funzionalità di una conoscenza nel contesto dell’esistenza, di conseguenza si dovrebbe anche spiegare come si fa ad escludere che una qualsiasi conoscenza un giorno o l’altro possa risultare utile a qualcosa. Come si fa ad escludere che possa servire la conoscenza di una poesia di Montale, della tecnica con cui Caravaggio si trasforma in un dio che genera la luce, della filosofia di Pitagora e Aristotele, di un’opera di Mozart e Beethoven. Soltanto esempi, forse metafore.
Oltretutto, se il criterio della differenza è quello della funzionalità del sapere rispetto alle necessità dell’esistenza, di conseguenza si dovrebbe procedere ad una scomposizione in settori della stessa esistenza e all’individuazione a priori di quello che potrà servire per il tempo che durerà. Ma si sa che la scomposizione dell’esistenza non si può fare e che nemmeno la previsione certa della conoscenza che potrà servire si può fare. Di conseguenza risulta pretestuosa e arbitraria la distinzione tra un sapere funzionale e un sapere non funzionale, tra la conoscenza attiva e quella inattiva. Può risultare anche dannoso, per il semplice fatto che in un momento qualsiasi, in una circostanza qualsiasi che non si può in alcun modo prevedere, può essere indispensabile la conoscenza di qualcosa che non si è mai immaginato potesse servire. Allora non si possono stabilire gerarchie tra le conoscenze, se esse sono messe in relazione all’esistenza; nemmeno se si mettono in relazione al lavoro, perché dell’esistenza è parte essenziale.
Dice Howard Gardner in un saggio che s’intitola Sapere per comprendere che le questioni non si fermano mai ai confini di una disciplina. Spesso è necessario andare oltre le discipline e cercare una sintesi. “Lo scienziato che studia la teoria di Darwin, lo storico dell’Olocausto e chi analizza la musica di Mozart, sono ugualmente impegnati a cercare di risolvere problemi concernenti delle verità, anche se si tratta di verità che possiedono un diverso status epistemologico”.
Se il sapere è fatto in un modo che rassomiglia straordinariamente al modo in cui è fatta la vita. Non si può escludere mai nulla. Nessuna scaglia di conoscenza, come non si può escludere neppure un solo istante della vita.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 18 giugno 2023]