di Antonio Devicienti
[…] Continuiamo, pertanto, a occuparci delle virgole anche se la casa brucia, parliamo fra noi con cura senz’alcuna retorica, prestando ascolto non soltanto a quello che diciamo, ma anche a quello che ci dice la lingua, a quel piccolo soffio che si chiamava un tempo ispirazione e che resta il dono più prezioso che, a volte, il linguaggio – che sia canone letterario o dialetto – può farci.
GIORGIO AGAMBEN: https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-virgole-e-fiamme
In Terra d’Otranto il dialetto è ancora vivo, voce che persiste e si tramanda; in Terra d’Otranto si è normalmente bilingui: dialetto e italiano convivono e riverberano l’uno nell’altro (e vorrei dire anche del griko, voce sempre più flebile ma testimone di un’anima greca che non muore).
L’italiano televisivo (e, ora, “social”) corrompe e intacca e impoverisce anche qui – e ormai da decenni – il dialetto, eppure quest’ultimo continua a offrirci l’occasione di “parlare fra noi con cura”. Pensare e parlare in dialetto significa ancorarsi a una storia stratificatissima e a un paesaggio (esterno, ma anche mentale) peculiare, pensare e parlare in italiano significa ancorarsi alla storia della nazione e dell’Europa – parlare e pensare ora in dialetto, ora in italiano a seconda delle situazioni e delle necessità significa aver cura delle parole, saggiarne il valore di consapevolezza e libertà: si è consapevoli del portato di ogni parola e si è, dunque, liberi, tetragoni ai tentativi costanti che vorrebbero inghiottirci nell’enorme cloaca del chiacchiericcio universale.