Il rapporto tra Luigi Pirandello e la «Rivista d’Italia» è oggetto del secondo saggio, in cui l’A. delinea le fasi salienti della collaborazione nata sotto l’egida dello scrittore salentino Michele Saponaro, il quale invitò il drammaturgo al sodalizio con una lettera inviata da Milano il 26 dicembre 1917. Pirandello – che aveva già cooperato alla rivista tempo addietro – risponde positivamente suggerendo per il primo fascicolo l’ipotesi di uno studio inedito (La commedia dei diavoli e la tragedia di Dante) ma poi inoltrando di fatto una «novella sceneggiata»: «Qual era la “novella sceneggiata” spedita dallo scrittore? L’atto unico La patente, riduzione teatrale della famosa novella già apparsa sul “Corriere della Sera” il 9 agosto 1911 e raccolta nel 1915 presso Treves nel volume La trappola, la quale esce infatti sul primo fascicolo della “Rivista d’Italia”» (p. 38).
Di grande attrattiva sono le due lettere inedite – «conservate nell’Archivio Saponaro, custodito attualmente presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Salento» (p. 53) – che Montale indirizzò sempre a Saponaro, perché ricostruiscono «una fase cruciale della vita e dell’attività del poeta ligure, che proprio in quel periodo si trasferisce definitivamente da Genova a Firenze dopo aver ottenuto un impiego come consulente letterario presso la casa editrice Bemporad» (ibidem). Scritte nei primi mesi del ’27, le missive confermano con vaglio definitivo la tesi del trasferimento marzolino di Montale in Toscana – diversamente da quanto indicato da Giorgio Zampa nella Cronologia del Meridiano –, gettando luce sul lavoro da Bemporad e sulla collaborazione al quotidiano milanese «L’Ambrosiano» (Saponaro aveva chiesto all’autore degli Ossi di seppia una recensione al suo ultimo romanzo La giovinezza). In entrambi i casi emerge la (notoria) «scontentezza» di Montale: al giornale «ci sono troppi se e ma e uomini tabù etc.», mentre nella casa editrice fiorentina è costretto a lavorare «come un cane» (senza «sabato inglese», dirà alla sorella Marianna).
Nella seconda parte, invece, con l’approfondito iter nella lirica del leccese Girolamo Comi, tra gli scrittori maggiormente misconosciuti del Novecento (anche a causa della sua ferrea discrezione), G. si addentra in sottili questioni di poetica religiosa: nelle intenzioni di Comi «il poeta vero deve svolgere un’attività di tipo sacerdotale, in quanto il fine dell’arte è quello di ricondurre il mondo fisico a quello spirituale, redimendolo, in vista di quel ricongiungimento finale col tutto» (p. 77). Dalle faglie del pensiero esoterico steineriano Comi approda nel ’37 alla fede cattolica, modificando intensamente anche l’ispirazione lirica ed elidendo il panismo dannunziano delle prime composizioni. Importanti inoltre le sue iniziative in ambito culturale con la fondazione dell’Accademia salentina (’48) e la pubblicazione della rivista «L’Albero» (’49), che si avvalse di eccellenti collaboratori, come Carlo Betocchi, Mario Luzi e Giorgio Caproni. A un altro poeta pugliese, l’ispanista Vittorio Bodini, è dedicato il sesto capitolo: il suo Quaderno verde, ossia «il diario delle prime settimane di permanenza in Spagna» (p. 110) nel ’46, consiste «in una serie di incontri con alcuni dei maggiori poeti e letterati spagnoli residenti a Madrid e nei dibattiti su vari temi che da questi si sviluppano» (p. 112). Un documento di rilievo – contornato dal felice faux exprès dell’appunto estemporaneo e da sintetiche ma pungenti teoresi letterarie –, perché aggiunge materiale critico di prima mano all’opera di un intellettuale colpevolmente tenuto in disparte.
La terza sezione, come si è anticipato, è rivolta alle ‘tracce’ della presenza di Angelo Poliziano e Leonardo da Vinci nella letteratura italiana moderna. Grazie a «un vero e proprio revival neorinascimentale» (p. 127) i due “antichi” tornano variamente nei versi (Poliziano) di Carducci, D’Annunzio, Pascoli, persino nella Canzone dei dodici mesi di Francesco Guccini, e nelle speculazioni critiche (Leonardo) di Ungaretti, Gadda, Cecchi, Montale. La quarta parte si occupa da un lato di delineare le «diverse posizioni degli scrittori» (p. 167) in relazione alla grande guerra, con i punti di vista di Marinetti, Palazzeschi, Gadda et cetera; dall’altro di individuare una «linea meridionale» (p. 183) della poesia novecentesca, costituita non soltanto dai ‘canonici’ additati da Contini, ossia Quasimodo, Sinisgalli e Gatto, ma anche dai meritevoli Bodini, Fiore e Scotellaro.
L’ultima sezione del volume ritorna sulle matrici concettuali del futurismo, dando spazio al dibattito intorno al «paroliberismo»: con i capisaldi esposti nel Manifesto tecnico del 1912 (tra i quali, giova ricordarlo: «distruzione della sintassi; uso del verbo all’infinito; abolizione dell’aggettivo, dell’avverbio, della punteggiatura, quest’ultima sostituita dai segni matematici e musicali; uso del doppio sostantivo; uso costante e accentuato dell’analogia», p. 208), tale nuova forma espressiva non scaturisce dal puro arbitrio, bensì dalla precisa volontà di «rompere definitivamente con una tradizione che risaliva addirittura agli antichi greci» (ibidem). Un secondo intervento – in linea con la révolution poétique e con l’idea di dissolvimento del passato – tematizza, altresì, la ‘macchina volante’, che «dà a Marinetti l’esempio concreto e immediato di come tutto debba ispirarsi alla velocità e di come quindi anche la letteratura debba adeguarsi alla principale caratteristica dei tempi moderni, rappresentata in sommo grado dall’aeroplano, abbandonando la zavorra della sintassi che frena, rallenta l’espressione letteraria» (p. 224). Il capitolo conclusivo dell’opera si sofferma sull’esperienza avanguardista nel Meridione e, specialmente, a Napoli. Teatro di contrastate attività futuriste, il capoluogo campano è ambìto da Marinetti che punta «da lì all’espansione in tutto il Sud» (p. 236), come conferma un gustoso aneddoto. La «quarta serata futurista» (dopo Trieste, Milano e Torino) è infatti organizzata proprio a Napoli: «L’avvenimento – scrive G. – ebbe luogo il 20 aprile del 1910 nel teatro Mercadante e all’appuntamento Marinetti si presentò con il suo stato maggiore al completo (i poeti Antonio Mazza, Aldo Palazzeschi, Giuseppe Carrieri, Libero Altomare e i pittori Umberto Boccioni, Aroldo Bonzagni, Carlo Carrà, Luigi Russolo), sfidando, come di consueto, il pubblico degli avversari, i quali reagirono con fischi, lazzi, sberleffi e lanci di patate e di agrumi. […] Tra gli spettatori più interessati, figurava anche colui che sarebbe diventato ben presto il più convinto e infaticabile divulgatore del verbo marinettiano a Napoli e nel Meridione, Francesco Cangiullo» (p. 237).
Insomma l’A., con lo sguardo scrupoloso dell’esperto, corregge l’ottica d’impatto di un fenomeno letterario e riconduce così le differenti esperienze novecentesche a un esame più attento, consolidando l’assetto dei tempi, delle forme e delle geografie, e offrendo una prospettiva di rilettura davvero sorprendente.
[“La Rassegna della Letteratura italiana”, a.125°, gennaio-giugno 2021, n. 1, pp. 279-282]