La temperie “pluralistica” nelle Ricognizioni novecentesche di Antonio Lucio Giannone

di Alberto Fraccacreta

Il volume di Antonio Lucio Giannone, Ricognizioni novecentesche. Studi di letteratura italiana contemporanea, Avellino, Edizioni Sinestesie, 2020. è costituito da tredici studi articolati in cinque sezioni (Tra periodici e archivi letterari del Novecento, Due poeti fra Sud ed Europa, Due “antichi” tra i moderni, Temi e linee del Novecento, Futurismo tra centro e periferia), nelle quali l’A. ripercorre le segnature notevoli dei suoi interessi di ricerca, dando sistemazione definitiva ad alcuni problemi di natura storica ed ermeneutica relativi alla letteratura e, particolarmente, alla poesia del secolo scorso. Muovendosi lungo un asse, per così dire, ‘geocritico’ che sottende – assieme a figure consacrate come Ungaretti, Pirandello, Montale e Marinetti – la viva riscoperta di scrittori considerati a latere del canone (Michele Saponaro, Girolamo Comi, Vittorio Bodini), G. propone una ‘ricognizione’ anche centrifuga ed eccentrica (stricto sensu) del Novecento, la cui linea di discrimine è da rintracciare in un metaxú interpretativo alquanto fecondo (indicato per altro dai frequenti ‘fra/tra’ nei titoli di sezione): l’intento è dunque quello di iscrivere in uno spazio di relazione contestuale le tendenze e gli avvenimenti letterari occorsi in diversi luoghi del Paese (segnatamente nel Sud), senza colpire e revisionare quello che de rigueur è considerato il «centro» – anzi, dispensando occasioni di nuove puntualizzazioni – e, al contempo, conferendo una maggiore effervescenza di personalità alla «periferia». L’estrema variegatezza dei contributi e l’ampio respiro dei temi sono misurati, dunque, da un’unità di intenti che è impegnata a redigere un quadro novecentesco omogeneo e riequilibrato nella fitta rete dei rapporti tra gli autori e nel riecheggiare di insoliti punti di riferimento (ad esempio, la ‘fortuna’ di Poliziano e Leonardo da Vinci, illustrata nella terza parte).

Esemplificativa di tale temperie ‘pluralistica’ è la parabola di ricezione del Porto Sepolto – contenuto del primo studio –, in virtù di una ritrovata recensione di Giuseppe Ravegnani, La poesia e il contagocce, pubblicata «sulla “Gazzetta Ferrarese” il 16 maggio 1918 e poi sulla rivista barese “Humanitas” nel numero 35-36 dell’1-8 settembre 1918» (p. 14). Nella «mappa completa» del clima sorto attorno alla prima apparizione ungarettiana con gli interventi di Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini, Gherardo Marone, Fiorina Centi, Elpidio Jenco e Francesco Meriano, si aggiunge il testo di Ravegnani (riportato per intero in appendice), che non è soltanto una disamina del Porto Sepolto, ma collega «ben quattro libri di poesia apparsi in quel periodo», ovvero «Poesie Giapponesi, tradotte da Marone e Shimoi (Ricciardi, Napoli 1917), Archetti d’oro, di Paolo Argira, alias Fiorina Centi, (Libreria della Diana, Napoli 1917) e Coriandoli, di Armando Curcio (Libreria della Diana, Napoli 1918)» (p. 21), oltre naturalmente alla silloge di Ungaretti. Ravegnani non è attratto dalla «poesia a frantumi, a schegge, a gocce» – fil rouge polemico della recensione multipla –, alla quale preferisce la «costruzione» o, come rileva G., «il pensiero, la logica, l’equilibrio» (p. 22) di una lirica non basata esclusivamente sul sentīre, ma modulata soprattutto secondo l’intelligere. In sostanza, Ravegnani guarda a quella che potrebbe essere definita ‘poesia metafisica’, assai distante dalla mallarmeana ‘poesia pura’, nel divincolio di categorie sommarie che, per intenderci, erano utilizzate analogamente da Eugenio Montale.

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