Di mestiere faccio il linguista 9. Come cambia nel tempo la sensibilità linguistica

di Rosario Coluccia

Abbiamo parlato altre volte di «Lessico famigliare», romanzo di Natalia Ginzburg; pubblicato nel 1963, nello stesso anno vinse il Premio Strega e da allora continua a essere ristampato. È bello e si legge piacevolmente: raccontando in forma partecipata, affettuosa e autoironica la vita quotidiana di una famiglia dell’alta borghesia piemontese dal 1925 ai primi anni ’50, rispecchia abitudini e forme della comunicazione linguistica di decenni fa. Il notevole scarto temporale consente a noi raffronti con il presente. Nel risvolto editoriale (anonimo ma attribuibile con sicurezza a Italo Calvino) della prima edizione del libro si legge: «La Ginzburg stavolta ha voluto evitare ogni invenzione come ogni indeterminatezza. […] Un libro unico, dunque, affollato come un gruppo fotografico che, vecchio appena di alcuni anni, già ci dà l’impressione del tempo trascorso nei visi curiosamente giovanili in cui riconosciamo fisionomie note: un ritratto di famiglia dell’Italia migliore».

Personaggio ricorrente del libro è il padre, professore universitario, uomo buono, antifascista, amico di Turati, all’antica e decisamente  brontolone. «Era molto severo nei suoi giudizi e dava dello stupido a tutti. Uno stupido era, per lui, “un sempio”. (…) Oltre ai “sempi” c’erano “i negri”. “Un negro” era, per mio padre, chi aveva modi goffi, impacciati e timidi, chi si vestiva in modo inappropriato, chi non sapeva andare in montagna, chi non sapeva le lingue straniere. Ogni atto o gesto nostro che stimava inappropriato, veniva definito da lui “una negrigura”. – Non siate dei negri! Non fate delle negrigure! – ci gridava continuamente. La gamma delle negrigure era grande. Chiamava “una negrigura” portare, nelle gite in montagna, scarpette da città; attaccar discorso, in treno o per strada, con un compagno di viaggio o con un passante; conversare dalla finestra con i vicini di casa; levarsi le scarpe in salotto e scaldarsi i piedi alla bocca del calorifero; lamentarsi, nelle gite in montagna, per sete, stanchezza o sbucciature ai piedi; portare, nelle gite, pietanze cotte e unte, e tovaglioli per pulirsi le dita». Il padre di «Lessico famigliare» dunque usa negro e negrigure (parola, quest’ultima, forse da lui inventata) per qualificare tutto ciò che non gli va a genio. Come usa in modo personalissimo altre parole, spesso di origine dialettale, che a lui piacciono molto, a noi sconosciute o semisconosciute: «sbrodeghezzi», «potacci», ecc. (ne ha parlato Francesco Montuori, università di Napoli, in un articolo della miscellanea per Rita Librandi, altra collega napoletana). Le parole sospettabili di razzismo in quel lessico famigliare non hanno la medesima connotazione che hanno ai nostri occhi, sembrano quasi bonarie, confacenti alla personalità del brontolone inoffensivo che parla in quel modo. Il nostro modo di ragionare e di sentire è diverso rispetto a quello ricostruito nel romanzo.

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