Un lascito molto negativo e importante di quella fase consiste nel riconoscere che la Destra berlusconiana non ha mai capito le cause del declino economico italiano. Si tratta della rilevante caduta del tasso di crescita della produttività del lavoro, che si inscrive nel quadro della perdita di competitività subita a seguito del nostro ingresso nella globalizzazione degli anni Ottanta-Novanta. Uno dei fattori che ha contribuito all’erosione dell’importanza delle nostre produzioni nel commercio internazionale è la perdita di capacità innovativa; la quale appare strettamente dipendente dal calo – o dal non aumento – della spesa, sia pubblica sia privata, in formazione, istruzione, ricerca scientifica. Berlusconi non concepì neppure la necessità di incentivare maggiore innovazione nel settore privato e, sul piano comunicativo, contribuì a rafforzare nell’opinione pubblica la convinzione che non vi fossero crisi economiche nel nostro Paese. Contrariamente a tutta l’evidenza disponibile. Si trattava del gioco di finanza creativa lasciato a Tremonti, ovvero il tentativo (perdente) di migliorare le aspettative di imprese e consumatori con le parole di Palazzo Chigi. L’eredità di questo berlusconismo è pessima: abbiamo una percentuale bassa di laureati e poche sedi universitarie nel confronto con i nostri principali partner europei. L’istruzione – è utile ribadirlo – un fondamentale input per i processi produttivi contemporanei oltre a essere il veicolo essenziale dei diritti di cittadinanza: un Paese poco istruito, di norma, produce poco, è dipendente strutturalmente da altri, e soffre di problemi di coesione sociale, di insediamento di criminalità, di scarso rispetto delle norme formali e informali vigenti. Vi è da riconoscere che i successori di Berlusconi al Governo non hanno fatto molto meglio di lui sulla questione, ma aver dato vita al problema non è certamente motivo di vanto.
[“La Gazzetta del Mezzogiorno”, 19 giugno 2023]