Abbiamo pochi decenni di tempo per salvare il pianeta. Passato questo tempo non serviranno più avvisi, esortazioni, implorazioni. Non servirà più la scienza. Sarà troppo tardi finanche per qualsiasi disperato sussulto di coscienza. L’egoismo e l’incoscienza avranno già compiuto il loro lavoro, definitivamente.
Il pianeta Terra è una realtà straordinaria. Strabiliante. Le creature che abitano il pianeta sono una realtà straordinaria. Strabiliante. Allora non si capisce per quale ragione le creature (umane) di questo pianeta lo stiano annientando. Eppure sanno che non c’è un posto diverso dove possano andare.
Quando lo avranno surriscaldato, quando ne avranno stravolto tutti gli equilibri, quando si sentiranno strangolare dall’inquinamento, non avranno un altro posto dove andare. Quando avranno distrutto tutte le foreste, e i ghiacciai si saranno squagliati, e il livello del mare si sarà alzato fino ad arrivare dentro le case, non avranno un altro luogo dove andare.
Abbiamo il tempo di pochi anni. Dopo questo tempo non ci potrà essere nessun progetto e forse neppure nessuna speranza. Dopo questo tempo potrà restarci soltanto la dolceamara nostalgia dei sopravvissuti. Come in quella canzone di Francesco Guccini in cui la realtà del passato raccontata da un vecchio ad un bambino sembra che sia il paesaggio inventato di una fiaba.
I nostri destini dipenderanno dalle decisioni che si assumeranno. Se avremo una vita migliore o peggiore dipenderà da questo. Forse anche se saremo più felici o meno infelici dipenderà da questo: dall’umanesimo che sapremo pensare e realizzare, dalle direzioni che daremo ai nostri cammini verso il progresso, dall’ accortezza di non attribuire al termine progresso lo stesso significato che ha quello di sviluppo, perché talvolta accade che i due termini raccontino storie diverse. Il futuro ci chiederà il conto: di quello che abbiamo o non abbiamo fatto per il mondo intorno a noi o lontano da noi. E’ una frase fatta, però in questo tempo è per davvero che il battito d’ali di una farfalla può provocare un uragano dall’altra parte del mondo.
Vent’anni fa, in un saggio che s’intitola “I sette saperi necessari all’educazione del futuro”, il sociologo francese Edgar Morin scriveva della condizione dell’umanità come destino planetario. Diceva che la comunità di destino deve lavorare affinché la specie umana si sviluppi in umanità, in coscienza comune e in solidarietà planetaria. Diceva così: “Dal momento che la specie umana continua la sua avventura sotto la minaccia dell’autodistruzione, l’imperativo è divenuto: salvare l’Umanità realizzandola”.
Nel tempo che attraversiamo, si rivela probabilmente indispensabile domandarsi se quell’imperativo si è fatto più urgente; se è diventata più urgente la realizzazione – la costruzione – di un nuovo umanesimo. Perché si può scampare al disastro soltanto riscoprendo il senso profondo dell’essere nel tempo e dell’essere nel mondo. Umanesimo significa essere per l’umano, per l’uomo. Soprattutto per l’uomo che esprime un bisogno ulteriore, che grida più forte, che a volte – forse spesso – grida in un modo terribilmente silenzioso.
Nei tempi che verranno, forse più che in ogni altro tempo, la parola umanesimo significherà credere, radicalmente, sostanzialmente, nella inevitabilità di un destino comune, di un destino planetario.
Abbiamo bisogno di comprendere questo, profondamente. Ma deve trattarsi di una comprensione rapida, immediata, urgente. Altrimenti avrà ragione Sebastiao Salgado: la Terra si sbarazzerà di noi.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 11 giugno 2023]