Memorie di Galatina. Mezzosecolo di storia meridionalistica e d’Italia 19. La scuola popolare a Galatina ed “Il Pensiero” di Pietro de Marianis (Parte prima)

A queste intuizioni si ispirano la Legge Coppino del 1877, che sancisce l’obbligatorietà dell’ istruzione elementare (l’autorità austriaca aveva sancito quest’obbligo nel Lombardo-veneto sin dal 1818), la Legge Nasi del 1903, che migliora lo stato giuridico dei maestri e la Legge Orlando del 1906, che estende l’obbligo scolastico ed istituisce il corso popolare fino alla sesta classe. A coronamento di tanto fervore legislativo, la Legge Daneo-Credaro del 1911 riorganizza tutti gli ordini di scuola, con particolare riguardo agli istituti di cultura elementare e professionale. Ma nonostante ciò, il secolo si era chiuso senza che la scuola del popolo potesse contare su una legislazione organica. C’erano soltanto abbozzi e strumenti inefficaci che non cancellavano il nesso analfabetismo-miseria nel Sud, anche se erano in piedi le strutture fondamentali dello Stato e vigeva un istituto parlamentare abbastanza rappresentativo. Invano la Legge Credaro nel 1911, avocando alla tutela dello Stato le scuole primarie, aveva tentato di sottrarle all’indebita influenza delle camarille comunali, ed inoltre le stessa legge, mettendo a carico dello Stato le spese necessarie per tutte le scuole del Regno, escludeva la Puglia dal beneficio delle scuole rurali fissato con la legge del 15 luglio 1906, in quanto nella nostra regione la popolazione viveva agglomerata nei comuni e non in nuclei sparsi nella campagna.

1. La combattività salariale e sindacale de “Il Pensiero”

Sia stata o meno conseguenza di una cultura locale che aveva dietro di sé un retroterra culturale povero e rozzo o di una rappresentanza parlamentare imprevidente e più sensibile ai tortuosi connubi trasformistici della Destra e della Sinistra storica, incapaci l’una e l’altra di stabilire la dialettica di due partiti di governo e di opposizione, certo è che nel Sud, ed in Puglia in particolare, un problema fondamentale quale è il nesso analfabetismo-miseria, specialmente in rapporto alla Scuola popolare, restò ben lontano dalla saldatura tra teoria e pratica, tanto che il censimento del 1901 registra in Puglia la percentuale più alta di analfabeti, il 59 %, dopo il 65 % della Basilicata ed il 70% della Calabria.

Tuttavia, nei primi anni del Novecento qualcosa si muove in Puglia e più particolarmente nel Salento. E’ un movimento confuso, dapprima ispirato dalla riflessione sui disvalori dell’ignoranza e della superstizione, ma consapevole che per attuare la transizione da una Scuola per il popolo ad una Scuola del popolo, c’è bisogno di una pedagogia nuova, non più di ordine abecedaristico, ma tale che influisca non soltanto nella storia della educazione popolare, rinnovandola, ma sia anche presente come processo di democratizzazione della vita politica.

A Galatina questo movimento si concretizza con la pubblicazione del periodico “Il Pensiero”, quindicinale dei maestri elementari che incomincia ad essere pubblicato nel 1903 a Galugnano. Ne è fondatore e direttore Pietro De Marianis di Galatina, un maestro elementare che, sensibile al principio positivistico della scienza come strumento di riorganizzazione sociale, nel 1906 trasforma il periodico in Giornale amministratuvo dell’educazione a Lecce, ma con direzione e stampa a Galatina. La pubblicazione diventa così organo di una lunga ed efficace battaglia salariale a favore della classe dei maestri elementari in virtù di una sollecitazione pedagogica per cui una classe colta, in questo caso il maestro elementare, stimola l’emancipazione civile delle classi svantaggiate e contemporaneamente si autoeduca attraverso la lotta e cresce come autocoscienza dirigente.

Quest’opera di Pietro De Marianis ci appare altamente meritoria, perché ha proiettato in Galatina e nella scuola del popolo galatinese e salentino quello spirito che all’inizio del secolo è stato precetto e simbolo pedagogico di un’Italia che, ancor giovane nazione, andava a scuola di se stessa.

Dall’Unità in poi, difatti, una cultura pedagogica, nonché didattica, non c’era mai stata. Vi erano state scuole parrocchiali od altre iniziative di ispirazione caritativa ed estese alle cosiddette scuole basse e primitive. Or è qualche anno, v’era ancora a Galatina chi ricordava il nonno od il bisnonno che parlava delle primella elementare dei suoi tempi dove si memorizzava appena l’alfabeto, senza giungere a leggere, scrivere e far di conto.

Il Pensiero va certamente annoverato tra il materiale storiografico del meridionalismo classico. Nel primo decennio del Novecento, quando incomincia ad essere pubblicato, la fonte prima dell’istruzione popolare era l’insegnamento religioso, disciplinato dal regolamento del 1908, piuttosto farraginoso, in quanto stabiliva tre norme: 1) lo Stato forniva l’insegnamento religioso a coloro che lo chiedevano, per mezzo dei maestri della classe, con orario a parte; 2) i maestri  dovevano dichiarare di essere disposti ad impartirlo nei locali scolastici e dovevano essere pagati dal Comune; 3) l’insegnamento religioso doveva essere impartito da maestri speciali, nei locali del Comune, ma a spese dei padri di famiglia.

Tanta farragine creò le condizioni perché si affermasse l’esercizio catechistico privato nelle parrocchie.

A Galatina, per esempio, il catechismo fu insegnato dalle figlie di Maria che facevano il loro tirocinio nel locale Istituto Immacolata ed appartenevano quasi tutte alla media o medio-alta borghesia cittadina, oppure da donne devote che avevano raggiunto l’età sinodale, che non vuol dire comaresca, e consacravano il loro tempo ad un’opera benefica. Degno di rispetto lo spirito di collaborazione delle une e delle altre, ma sotto il profilo della formazione morale dell’educando singolo, dobbiamo dire che la loro opera, avulsa com’era da un’organica vita scolastica, perdeva gran parte del suo valore.

In tutto il Sud, nel Salento ed in particolare a Galatina, precaria ed assillante è l’organizzazione istituzionale e strutturale della scuola popolare elementare. Per contrario, più intransigente ed impegnata diviene la combattività salariale e sindacale de “Il Pensiero” a cui va riconosciuto il merito di aver fatto emergere la radice del problema, e cioè la condizione economica del maestro elementare. Essa non sale in primo piano in nome di un principio utilitaristico e materialistico, bensì in virtù di un impulso etico ispirato dal principio virgiliano della malesuada fames (Eneide VI, 276), della fame cioè come cattiva consigliera, che è come una morte nella vita, di che viene il trascendere i confini del diritto, secondo l’interpretazione acuta e perspicace di un poeta, il Pascoli. La battaglia fu combattuta da Pietro De Marianis e dal suo giornale in nome del principio per il quale un maestro che ha l’ansietà del giorno successivo e che è depresso dalle preoccupazioni della vita materiale, è un cattivo educatore; un maestro che la vita ha reso amaro è un pericolo sociale.

Il 4 marzo 1917 si tenne in Bari il Congresso magistrale della Regione pugliese. La classe magistrale italiana era organizzata in diverse associazioni, e fra le più attive erano l’Unione magistrale nazionale, laica e propugnatrice della diffusione dei nuovi metodi di insegnamento, essenzialmente antidogmatici, e la Niccolò Tommaseo, clericale, il cui statuto affermava …(…)… l’incremento dell’istruzione e dell’educazione popolare sulla base dei principi cristiani (art.1). La rottura avviene quando la Tommaseo muove all’Unione l’accusa di essere alle dipendenze della “setta”, cioè della massoneria.

“Il Pensiero” naturalmente è schierato a favore dell’Unione, rappresentata in tutto il Salento dall’Alleanza scolastica “Pietro Siciliani”, composta dalle associazioni magistrali di Galatina, Aradeo, Cutrofiano, Soleto, Collepasso e Martano. A nome di essa nel Congresso di Bari Pietro De Marianis presenta una relazione in appoggio all’ordine del giorno con il quale si propone di trattare nei congressi regionali ed in quelli nazionali soltanto il tema del miglioramento economico e della carriera del maestro elementare. Questa proposta, che potrebbe apparire perentoria e pretestuosa, nasce dalla constatazione che un maestro, il quale alla fine dell’Ottocento percepiva, in virtù della legge del 1886, uno stipendio annuo di circa lire 800 (ottocento), quasi adeguato ai bisogni del tempo, quando il salario dell’operaio era di lire 1,5 al giorno e quello del contadino non raggiungeva la lira giornaliera, nel 1917, invece, percepiva lire 1200 (milleduecento) annue che, depurate dalle tasse di ricchezza mobile e di Monte Pensioni, davano un onorario giornaliero di lire 2,65. Gli aumenti sessennali potevano portare lo stipendio a lire 1680 (milleseicentottanta) lorde dopo ben 24 anni di servizio e gli aumenti per avanzamento di classe erano regolati mediante la promozione dalla sesta alla quinta classe e dalla quinta alla quarta senza aumento di sorta e dalla quarta alla terza con aumento di lire 140 (centoquaranta) e dalla terza alla seconda con sole lire 60 (sessanta). Alla prima classe potevano aspirare soltanto i maestri del capoluogo di provincia e delle grandi città. In provincia di Lecce i posti della seconda classe, dipendenti dalla Regia amministrazione scolastica, erano solamente 82 e 249 quelli della terza classe sicché, al massimo della carriera, soltanto 82 educatori del popolo salentino potevano giungere al miraggio di lire 1400 (millequattrocento) annue, 249 a quello di annue lire 1340 (milletrecentoquaranta), mentre a tutti gli altri, dopo quaranta anni di servizio ed oltre, veniva negata una promozione sia pure irrisoria.

2. La grande guerra ed il contadino

Questo stato di cose rende particolarmente attento il maestro elementare agli umori ed alle vibrazioni della società rurale e contadina che lo circonda, e spiega perché qua e là nelle pagine de “Il Pensiero” si rinviene un tessuto di trame, di rimandi, di lacerti valutativi, di riferimenti e di allusioni che si legano strettamente col territorio e scoprono la presenza nella scuola di un ruolo essenziale della vita del contadino. Questo argomento tuttavia si proietta su di uno scenario molto più ampio.

Nel n. 14-15 del primo maggio 1917 il periodico riproduce un nobile appello dell’Unione magistrale nazionale agli educatori della Russia a nome degli insegnanti primari d’Italia. Dopo aver invitato i colleghi russi a stringersi in concordia di attività e di energie con gli insegnanti di tutte le nazioni alleate …(…)… per la difesa del diritto contro la sopravvivenza dell’imperialismo tedesco …(…)… per assicurare concordi l’intangibilità della propria indipendenza fiaccando la potenza aggressiva, cresciuta per un folle sogno di egemonia predatrice …(…)…, l’appello così conclude: “Dite al vostro grande popolo, o colleghi, che la Nazione italiana attende sicura il contributo pieno ed intero della rivoluzione russa alla causa della libertà del mondo!”.

Da dove nasce tanta solidarietà col popolo russo nella classe magistrale, quando mancano ancora sei mesi perché la rivoluzione bolscevica diventi un fatto compiuto? Certamente attraverso i percorsi sotterranei della cultura popolare, per via di esperienze informali e canali occulti difficilmente ricostruibili, era arrivata ed era nell’aria anche in Italia l’eco del dispotismo della corte zarista e delle sue camarille, divenute veramente insopportabili; ma il fattore nuovo era dato dalla guerra, che aveva concentrato milioni di contadini in armi sui fronti delle città russe in condizioni spesso disastrose ed a contatto con operai scontenti, rimasti nelle loro fabbriche, in una fluttuante agitazione rivoluzionaria.

Non diversa era la condizione del contadino italiano e specialmente meridionale. “Il Pensiero” coglie questa analogia. Un osservatorio come la scuola popolare, attraverso le famiglie degli scolari, scopre gli orrori della guerra con i frequenti casi di renitenza alla leva, di comportamenti individuali e collettivi di fuga e perfino di forme di autolesionismo del contadino ingenuo, specialmente del Sud. Non sono pochi i casi di contadini che si sparano al piede dopo essersi tolte le scarpe con tutte le relative conseguenze oppure di altri che, prigionieri italiani in Austria, per spacciarsi come tubercolotici, tenevano in bocca la saliva di un commilitone veramente affetto da tisi.

Il 23 agosto 1919 furono pubblicati i risultati dell’inchiesta parlamentare su Caporetto. Ivi si registrarono critiche alla condotta dello Stato maggiore ed ai metodi di disciplina in uso nell’ esercito, fino ad inconsulte condanne a morte, critiche che hanno dato luogo alla categoria del Cadornismo dal nome del gen. Cadorna, Comandante in capo dell’esercito, poi sostituito dal generale Armando Diaz. Nei libri di testo di Storia nelle scuole medie inferiori e superiori la vergogna del cadornismo è stata sempre taciuta, dimenticando che la storia non può insegnare se non può essere ascoltata.

Delle condizioni dei nostri contadini non c’è nelle pagine de “Il Pensiero” soltanto l’eco, ma anche la documentazione dell’attiva collaborazione per alleviarle: dalla propaganda per il buon esito del Prestito nazionale, dalla confezione di “scaldaranci”, un contenitore costruito artigianalmente per conservare il cibo caldo, e dalla raccolta di indumenti da mandare al fronte, all’aiuto discreto e riservato ai ragazzi orfani di guerra, a varie sottoscrizioni a favore di famiglie che la guerra medesima ha ridotto al limite della sopravvivenza. Noi dobbiamo confessare che ogni volta che negli scritti de “Il Pensiero” è chiamato in causa il problema dell’istruzione del contadino meridionale, non vi abbiamo mai letto il luogo comune dell’analfabetismo come mera menzogna e macchia da cancellare o lotta contro il pregiudizio, che pur c’è stato e più vivo che mai in altri periodici, del contadino istruito che diveniva indocile e meno rispettoso, bensì l’intento di correggere un difetto della pedagogia tradizionale, che ha attribuito alla scuola uno scopo puramente intellettuale. E così ne “Il Pensiero” del 31 gennaio 1918, in una lettera che il professor Giulio De Giuseppe di Maglie indirizza a Pietro De Marianis, dopo aver partecipato ad un corso di aggiornamento sulla Scuola popolare organizzato dall’Umanitaria, si può leggere: …(…)… dissi, in presenza dei colleghi, che noi non avremmo mai visto con piacere la Scuola popolare cambiarsi in una scuola industriale; dissi che la Scuola popolare, pur riformandola, doveva rimanere scuola di cultura …(…)… Ed in uno scritto intitolato “Per la scuola nelle campagne” che “Il Pensiero” pubblica il 18/12/1918, si postula …(…)… che l’istruzione impartita in queste scuole risponda alle condizioni dell’ambiente economico-sociale nel quale si svolge, abbia la stessa estensione ed intensità che ha nei centri più popolosi e tutti i sussidi e gli adattamenti tecnici che sono necessari per la sua speciale fisionomia …(…)… e che il maestro, che è chiamato ad insegnare, …(…)… conosca perfettamente l’ambiente nel quale esercita la sua alta missione d’incivilimento e possa essere pago della sua posizione sociale ed economica …(…)…

3. La libertà d’insegnamento

Nelle citazioni c’è l’eco di nuovi metodi d’insegnamento, ma in particolare si teorizza una scuola intesa come comunità di educazione in cui la vita, svolgendosi come modo naturale (la campagna) ed efficiente, che preserva i valori educativi già naturalmente presenti nelle famiglie e nella comunità, diviene essa stessa educazione e fonte di cultura e ragione di salvezza.

Il 1919 fu un anno particolarmente grave di eventi nella nostra nazione. Il 18 gennaio viene pubblicato il manifesto di fondazione del Partito Popolare Italiano; il 22 marzo la direzione del PSI decide a maggioranza di aderire alla Terza Internazionale; il 23 marzo si svolge l’adunata di Piazza S. Sepolcro a Milano e la fondazione dei fasci di combattimento; il 24 aprile i rappresentanti italiani alla Conferenza della pace di Parigi abbandonano tempestosamente i lavori per divergenze con gli alleati circa l’assegnazione all’Italia di Fiume e della Dalmazia; il 9 agosto viene approvata dal Parlamento la riforma elettorale che introduce il sistema proporzionale ed infine la firma a Saint-Germain del trattato di pace tra Austria ed Italia il 10 settembre e il 12 dello stesso mese si svolge l’occupazione di Fiume da parte dei legionari di D’Annunzio.

L’eco di questi eventi è registrata ne “Il Pensiero” sotto forma di tensioni intellettuali che risuonano in tutto il Salento, ed anche se non ha sosta la battaglia salariale e sindacale in difesa dei maestri disoccupati e di quelli smobilitati e per una immediata programmazione dell’edilizia scolastica, il periodico è in prima fila in difesa delle posizioni dell’Unione, accusata dai cattolici della Tommaseo di laicismo massonico.

Due concezioni sono di fronte. Nel manifesto di fondazione del PPI del 18 gennaio 1919 si proclama che ridare la libertà alla scuola è il primo problema dell’ora, quasi che la vera libertà, e cioè quella di matrice cattolica, sia andata perduta, perché cancellata dal concetto della moralità sociale. Questa moralità, secondo la pedagogia dell’Unione, poteva definir bene la questione del valore educativo dell’insegnamento laico, ma anche essere il fondamento di una progressiva educazione nazionale, ben allineata con tutto il pensiero moderno.

“La scuola non ha e non deve aver partito; essa è della Nazione, dell’Italia, e deve perciò appartenere al governo della Nazione” scrive Antonio Tundo in un editoriale de “Il Pensiero” il 21/10/1919, e con maggior acribìa pedagogica il 12/10/1919 Vincenzo Aquaro, esperto di problemi educativi, aveva richiamato il principio a cui verranno ispirati i programmi delle scuole elementari pubbliche, …(…)… le quali danno agli alunni quelle notizie e quell’indirizzo che non precludono il formarsi delle libere individualità (ed in ciò si differenzia appunto la nostra scuola da quella dei gesuiti) …(…)… Ma l’imporre una credenza tradizionale ad esseri incapaci di valutarla non può assumersi come diritto dello Stato o di chicchessia in una scuola pubblica, senza violare i sentimenti di quei genitori che questa credenza non hanno né intendono trasmettere ai propri figli. Mentre poi sta il fatto che l’umanità si è più volte ricreduta ed è tuttora divisa…(…)…

E sebbene “Il Pensiero” non esca dalla sfera pedagogica che concerne la formazione dell’autonomia di giudizio dell’educando, dall’altra parte il dibattito scade ad un basso livello postribolare. La scuola palude d’infezione che miscredenteggia la popolazione religiosa; la scuola prepara i cicisbei che vanno in cerca delle aspasie”. “Il Pensiero” del 25/3/1919 riferisce queste parole con cui il quaresimalista don Vincenzo Capezio da Eboli tuona da un pergamo di Galatone dove, a parte il neologismo barocco, si copre con inconditi argomenti una verità più profonda, e cioè l’analfabetismo usato come strumento di governo finalizzato a tenere ai margini della società masse miserabili. La predicazione di Galatone desta l’indignazione in tutti i Consigli scolastici del Salento ed in tutte le Amministrazioni comunali. E’ chiamato in causa il Provveditorato di Lecce e di Terra d’Otranto, ne parlano i giornali locali, ma la polemica produce all’interno dell’Unione il fenomeno della dissidenza. In occasione dello sciopero dei maestri si apre la prima crepa nell’Unione a Galatina;  le insegnanti Crocifissa Marra e Maria Sponziello, Giovanna Marra, Petronilla Duma e Maria Nicolaci praticano il crumiraggio, non curando nemmeno l’appello di un uomo schivo e rispettato come Ippolito De Maria …(…)… E’ troppo nobile la nostra causa, è troppo alto il nostro ideale. Non cercate di travisare l’una, ché non lo potete e noi non lo tollereremo”. “Il Pensiero” del 20/6/1919. Ma coincideva questa volta l’ideale di Ippolito De Maria, fondato sulla dignità dell’insegnante, compromessa dall’esiguità dello stipendio, con quello delle crumire, che ci sembra invece ispirato da spirito di confessionalismo? Certo si è che “Il Pensiero” finì con l’essere censurato tutto intero nel numero del 13/6/1919, meno la seguente informazione alla colonna ottava della seconda pagina: I contadini di Galatina. La lega dei contadini di questa città ha tenuto spontaneamente un importante comizio e spedito un vibrato o.d.g. al Ministro degli Interni e dell’Istruzione reclamando il trionfo della scuola popolare, documento che rispecchia l’affermazione sempre più netta della necessità di rendere laica la scuola pubblica.

Il 6 novembre 1919 sotto il governo Nitti si svolgono in un vero clima di libertà per la prima volta nella storia dell’Italia unitaria le elezioni politiche. Gli uomini appoggiati dall’Unione, e cioè Antonio Vallone, Antonio Dell’Abate e Giovanni Calò, vennero eletti. Tra di essi l’uomo di spicco era l’on. Vallone, non tanto perché era alla terza legislatura o perché era stato il più influente tra i soci fondatori a Lecce dell’Alleanza scolastica “P. Siciliani”, quanto perché nel novembre 1907 era stato certamente l’unico deputato pugliese che, tra le forze laiche, nel campo dell’educazione e della libertà dell’insegnamento, ispirandosi al concetto secondo il quale l’ideale sociale del bene non ha bisogno, per essere accolto e seguito, del principio di autorità, ma si mantiene ed anzi si rafforza nel libero esame della ragione, aveva firmato l’o.d.g. presentato alla Camera dall’on. Bissolati, che con scrittura libera, chiara e perentoria, recitava così: La Camera invita il Governo ad assicurare il carattere laico della scuola elementare, vietando che in essa venga impartito, sotto qualsiasi forma l’insegnamento religioso .

4. Dalle contraddizioni liberali alla riforma gentiliana

La società civile ha vissuto il problema dell’educazione dall’unità nazionale fino agli anni Venti del nostro secolo attraverso due momenti: la formazione dell’opinione nazionale nella seconda metà del secolo diciannovesimo per mezzo dell’istruzione popolare, e l’inserimento morale e sociale del popolo nella vita collettiva attraverso la lotta contro l’analfabetismo all’inizio del ventesimo secolo. “Il Pensiero” ha registrato l’uno e l’altro di questi due momenti.

Dopo la prima guerra mondiale la media della cultura popolare era divenuta più elevata e perciò presso la pubblica opinione tornava ad essere discusso criticamente il principio della libertà d’insegnamento, inteso come diritto per tutti di educare e di istruire, dal momento che lo Stato presuppone e non crea la libertà individuale e di conseguenza il principio etico dello Stato medesimo, essenza della pedagogia laica, non può in nessun modo essere annullato.

Quando giunge al Ministero della Pubblica Istruzione Benedetto Croce, prende il via il processo di riforma scolastica in una fase che potremmo definire il terzo momento del problema educativo nell’Italia unitaria. La scuola statale “altissima conquista dello Stato moderno -secondo Croce- va conservata e migliorata, e perciò viene istituito l’esame di stato affinchè la scuola sia ricondotta “a quella serietà ed a quella dignità, che sole possono dare agli insegnanti il prestigio e l’ autorità necessarie per la formazione di forti caratteri”. (“Il Pensiero” dell’ 8 agosto 1920).

Pietro De Marianis continua ad agitare costantemente nel suo periodico il problema dell’indipendenza economica del maestro, il solo mezzo per sottrarre l’educazione all’influenza delle forze reazionarie. Perciò quando il Governo respinge l’emendamento dell’on. Calò, volto ad estendere il miglioramento economico degli impiegati statali anche ai professionisti delle scuole secondarie ed ai maestri elementari, “Il Pensiero” denuncia vibratamente che ai maestri ex militari e smobilitati ed ex combattenti non si computavano gli anni di servizio prestati come militari né agli effetti dell’anzianità né agli effetti della pensione; che per un’ora e venti minuti in più al giorno ed una classe aggiunta, i maestri percepivano compensi che andavano da lire 0,80 a lire 1,16 e con quaranta anni di servizio, dopo aver raggiunto uno stipendio massimo di lire annuali 5600 (cinquemilaseicento), venivano collocati a riposo con una pensione di lire 3 (tre) al giorno. E nei numeri del 3 ottobre e del 16 dicembre 1921 “Il Pensiero” denunciava ancora che l’on. Epicarmo Corbino, cioè il nuovo ministro della P.I. succeduto al Croce nel governo di Ivanoe Bonomi, formatosi il 4 luglio di quell’anno, aveva ritirato, per sottoporli agli organi giuridicamente competenti, i progetti crociani circa l’istituzione e l’ordinamento delle scuole elementari, dando “certamente prova di volersi allontanare dalla politica settaria dell’on. Croce, e precisava che “la Giunta del Consiglio Superiore ha esaminato i progetti dell’ ex ministro alla P. I. on. Croce ed ha espresso il concetto generale che essi non offrono nessuna base per una serena, proficua discussione”. Ci troviamo di fronte ad una visione diversa tra Croce e Corbino del problema o alla elusione intenzionale di esso? Certamente sono avvisaglie di dissenso che avvalorano la tesi della critica storica secondo la quale la classe dirigente liberale e borghese d’Italia ha frenato con le sue contraddizioni l’emancipazione del popolo, perché ha avuto paura che, insieme alle armi della cultura, al popolo medesimo venissero fornite le armi della rivoluzione.

[Memorie di Galatina. Mezzosecolo di storia meridionalistica e d’Italia, Mario Congedo Editore, Galatina 1998, pp. 140-149]

(continua)

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2 risposte a Memorie di Galatina. Mezzosecolo di storia meridionalistica e d’Italia 19. La scuola popolare a Galatina ed “Il Pensiero” di Pietro de Marianis (Parte prima)

  1. Marco scrive:

    Non riesco a vedere la seconda parte come posso fare? grazie

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