Di mestiere faccio il linguista 8. La lingua del Covid

di Rosario Coluccia

Il 31 dicembre 2019 le autorità sanitarie di Wuhan, megalopoli della Cina centro-orientale, rendevano nota al mondo l’esistenza di una malattia fino a quel momento sconosciuta, che comprometteva gravemente le capacità respiratorie dei soggetti colpiti, provocandone spesso la morte. L’11 febbraio 2020 la malattia riceveva il nome di CoViD-19. L’Italia fu tra i primi paesi occidentali ad essere colpita: il primo caso fu segnalato il 20 febbraio, il primo decesso a causa della malattia avvenne il 21 dello stesso mese, i primi provvedimenti amministrativi per tentare di limitare i danni furono presi il 23. L’11 marzo l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiarò formalmente lo stato di pandemia, tutto il mondo era coinvolto, costretto (volente o nolente) a fare i conti con l’emergenza inaspettata. Lentamente si cominciò a capire l’entità della catastrofe, qualcuno parlò di nuova peste, evocando fantasmi medievali fino a quel momento inimmaginabili. La vita di tutti noi cambiò radicalmente.

Cambiò anche la lingua. Vennero in auge parole desuete o poco praticate o parole del tutto nuove. Hanno in comune il suffissoide «-demia» (di origine greca) le parole «epidemia» e «pandemia»: significano entrambe ‘malattia’, ma la seconda ha un’accezione più generale, è ‘malattia che colpisce (o può colpire) tutti’ (“pan-” è di origine greca, vuol dire ‘tutto’, come in «panafricano» ‘che riguarda l’intero continente africano’, «pantheon» ‘tempio dedicato al culto di tutti gli dei’, ecc.). Esattamente nello stesso giorno in cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità lanciava l’allarme generale, il nostro Ministero della salute precisava. «Siamo profondamente preoccupati sia dai livelli allarmanti di diffusione e gravità sia dai livelli allarmanti di inazione. Abbiamo quindi valutato che COVID-19 può essere caratterizzato come una pandemia. Pandemia non è parola da usare con leggerezza o disattenzione». In quel comunicato si parlava più volte di COVID-19, parola con la quale senza entusiasmo abbiamo imparato a familiarizzare. È un anglolatinismo che nasce dall’accostamento di Co(rona) e Vi(rus), perché il virus osservato al microscopio mostra l’aspetto di una corona, in questo caso non simbolo di regalità, ma rinviante a una minaccia che incombe. La -D rinvia alla parola inglese «Disease» ‘malattia, morbo, infezione’, il numero 19 all’anno 2019 in cui la malattia fu ufficialmente individuata.

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