Una bibliografia d’autore e un’intervista quasi immaginaria. Lettere di Eugenio Montale a Vittorio Pagano (Parte terza)

E, a proposito della Mosca, racconta tranquillamente un episodio piuttosto sgradevole che certo non mette in buona luce la donna e che avrebbe potuto benissimo far passare sotto silenzio:

Una volta che andai a intervistare Montale ricordo che, mentre interrogavo il poeta, ella discuteva al telefono, a due passi da noi, non so se con un medico o con un’amica, di un’unghia incarnita che la faceva soffrire. Discusse e dissertò per almeno mezz’ora, incurante di noi e della sgradevolezza del tema3.

Ma ciò che sorprende ancora è che questo articolo dedicato a Montale, quasi per una sorta di ritorsione verso la reazione di stizza manifestata dal poeta dopo l’intervista del ‘61, reazione della quale forse Fabiani era venuto in qualche modo a conoscenza, è corredato da ben quattro foto, tutte di Ezra Pound, ritratto a Venezia e definito in una didascalia con grande evidenza «il più grande poeta del secolo4.

Ma non è ancora tutto. Ho scoperto un altro lungo articolo, di ben sei pagine, di Fabiani apparso sempre sul rotocalco milanese il 25 settembre 1981, anche questo stranamente ignorato dalle bibliografie montaliane, dal titolo Il vero Montale era così, che reca l’occhiello Ritratto del famoso poeta attraverso confidenze, ricordi episodi inediti, corredato da cinque foto con didascalie e scritto in occasione della scomparsa del poeta avvenuta appunto qualche giorno prima, il 12 settembre. Ebbene, nemmeno qui, davanti alla morte Fabiani si tira indietro perché qui, in questo sorta di ritratto al vetriolo, attua un sistematico tentativo di denigrazione dell’uomo e, in parte, del poeta ricorrendo a ogni mezzo, compresi i pettegolezzi di bassa lega. Sembra quasi una resa dei conti definitiva, come se il giornalista avesse covato da lungo tempo un sordo rancore, un livore insopprimibile nei confronti di Montale. Insomma qui Fabiani si dimostra, come si direbbe oggi, un vero hater, un odiatore del poeta per ragioni incomprensibili.

Intanto, senza mezzi termini, all’inizio afferma che Montale era «beffardo, insofferente e spesso “cattivo”»5 e, comunque, più avanti conferma: «come persona, non era certo amabile e tantomeno buono» e ancora che era «un personaggio complesso, se non complessato e assai diverso da quello che tutti fingono in questi giorni»6. Poi passa a raccontare quattro aneddoti che «possono dare un’immagine inaspettata dell’uomo Eugenio Montale» e che Fabiani così riassume: «odiato dai colleghi» (e qui, in particolare, si riferisce a Quasimodo che in una occasione l’aveva definito «come uomo, uno scarafaggio»); «gelido, devoto in segreto» (e a questo proposito riferisce quanto gli aveva detto il critico Ferdinando Giannessi che una volta lo aveva trovato a casa in ginocchio a seguire la celebrazione della messa in radio); «ossequioso verso le autorità, incurante delle buone maniere» (e qui dice di avere sentito personalmente un «risucchio straordinario» di Montale mentre beveva un caffè alle Giubbe Rosse); «indifferente a ciò che avveniva intorno a lui, e dunque assai differente e cioè assai diverso da quello che le migliaia dei suoi lettori hanno creduto e credono»7.

Poi, non contento, cita alcuni giudizi che avrebbe espresso Montale, come quello sul suo biografo ufficiale, Giulio Nascimbeni, che lo accompagnava ogni sera a casa dalla redazione del “Corriere”, da lui definito, «come biografo […] certamente un buon autista…»8. Ma Fabiani, come s’è detto, non cerca di demolire solo l’uomo, ma tenta di sminuire, di svalutare anche l’opera di Montale. La sua verità poetica – afferma infatti – è «forse lontana dalla grandezza e dalla profondità che troppi le hanno attribuito; e che, forse, non ha mai assunto quel tremendo ed essenziale impegno che ebbero ad esempio Clemente Rebora, Dino Campana e Camillo Sbarbaro»9. Inoltre non manca nemmeno di stroncare il giornalista, affermando anche qui, senza mezzi termini, che quando si incontravano alle conferenze stampa Montale gli «faceva piuttosto pena»10 ed erano i giovani cronisti come lui a dargli le informazioni necessarie, essendo egli incapace di intervistare gli ospiti.

Alla fine tenta di comporre un autoritratto sulla base delle varie interviste da lui concesse. E a questo scopo cita brani, anche piuttosto lunghi, ripresi ancora una volta dall’Intervista immaginaria, ma anche da altri scritti come Confessioni di scrittori (Interviste con se stessi)11 e da un’altra intervista di Claudio Marabini12. Così passa rapidamente in rassegna vari momenti della vita di Montale come la nascita, la famiglia, la scuola (qui fra l’altro sostiene che il poeta non conseguì il diploma di ragioniere, perché a causa della salute cagionevole si fermò alla terza classe delle scuole tecniche), il canto, i luoghi montaliani (Genova, Monterosso e poi Firenze) fino ad arrivare agli ultimi anni, alla nomina di senatore a vita conferita «per i suoi meriti culturali» (e non certo, “per la sua altissima sensibilità politica”, come è stato detto in questi giorni dopo la sua morte»13) e infine al Premio Nobel. In queste occasioni, sostiene Fabiani, ci sono state esaltazioni retoriche ed eccessive da parte dei suoi aficionados che indicarono Montale come la «“maggior voce” della poesia italiana del nostro secolo…»14. Infine, continuando sempre in questo tentativo di screditamento, sostiene che egli «fu in realtà un uomo e un poeta “in grigio” che non volle o non poté dare una risposta precisa agli interrogativi più profondi dell’uomo del suo tempo»15, e azzarda anche la previsione che «è destinato, forse, a passare in seconda linea anche per gli uomini del futuro»16. Previsione che, possiamo dire concludendo, si è rivelata clamorosamente sbagliata se è vero che noi siamo qui, a distanza di quasi quarant’anni, a parlare di Montale del quale probabilmente, anzi sicuramente, parleranno anche a lungo “gli uomini del futuro”.

Appendice

I

Lettere di Eugenio Montale a Vittorio Pagano17

1.

Firenze, Viale Duca di Genova, 38

19 gennaio 1948

Caro Pagano,

io La conosco benissimo, benché a lei sembrerà strano. Mi ha parlato spesso di Lei Giacinto Spagnoletti, e in modo da destare la mia simpatia. (Credo però che a Giacinto Lei sembrasse troppo caldo mio estimatore). Vorrei far qualcosa per favorire il compito della Sua fidanzata, ma temo che da lontano mi sarà poco possibile, anche perché non sono un buon corrispondente epistolare. La signorina di cui mi parla potrebbe consultare lo scritto autobiografico ‘Intenzioni’ uscito due anni fa nel I fascicolo (anno I) della “Rassegna d’Italia” di Flora18; con errori che potrei correggere. La mia bibliografia è contenuta nel libro Lirici Nuovi a cura di Anceschi (ed. Hoepli)19: molti numeri sono importanti. Ad essa vanno aggiunti altri nomi, p. es. quello del giovane Pasolini, autore di un Pascoli e Montale (rivista Convivium)20 di cui si dice molto bene (io non l’ho letto), uno studio a firma R. Virgillito uscito un anno fa in Humanitas”21 ecc. ecc. Occorerrebbe anche leggere la prefaz[ione] di Gianfranco Contini a un Choix de poèmes di E[ugenio] M[ontale] uscita a Ginevra nel ’4522.

Quanto alle poesie mie successive a Finisterre (che occorre tener presente nell’ediz[ione] Barbera e non nella più smilza stampa di Lugano 1943)23 posso indicare oltre “L’orto”24 e le 2 poesie di Società25: la “Ballata scritta in una clinica” (Il Ponte, anno I N°5)26, “La Primavera Hitleriana” (Inventario n°3-4, 1947)27 e “Voce giunta con le folaghe” (n°2 dell’Immagine a me dedicato, con versioni, nota di Giovanni Macchia ecc.)28. Altre minori poesie: Da una torre (nel Politecnico uno dei primi numeri)29, Nella serra, (Il “45” n° I)30, Nel parco, (Lettere ed Arti di Milano n° 4, anno II)31.

Un libretto di mie versioni poetiche pubblicheranno fra poco le ediz[ioni] della Meridiana di Milano32. Mondadori ristamperà in tre volumi le mie poesie; Ossi di S[eppia], Le occasioni e Finisterre molto accresciuta33. Cederna pubblicherà una mia traduz[ione] dell’Amleto di Shakespeare34. Le mie versioni sono molte e non vale la pena di occuparsene. Mondadori pubblicherà anche una scelta di miei articoli critici, messi insieme da Anceschi35.

Forse potrei dare più precise indicazioni se la Sua fidanzata mi ponesse delle domande molto precise e concrete in forma di questionario; una sorta di intervista (la citata “Intenzioni” era già una intervista immaginaria).

Quanto a un mio viaggio a Lecce, Dio sa se mi piacerebbe metter piede in terre dove forse non verrò mai più e dove posso contare aficionados come Lei; ma per ora non ne vedo la possibilità. Il solo viaggio Firenze Lecce e ritorno (io non godo di riduzioni ferroviarie e cerco di non viaggiare in terza classe) sarebbe una grossa spesa. Inoltre il viaggio andrebbe spezzato ‒ con conseguente ulteriore dispendio. Farei certo fallire il Comitato che mi invita e grande sarebbe il discredito in cui incorrerebbe Vittorio Pagano (1). Peccato perché il testo (si tratta dell’auto-intervista/citata, con molte poesie inserite e recitate) è di effetto sicuro. L’ho già letto nelle Università di Ginevra, Friburgo e Zurigo (2), con molto successo. In patria preferisco non esibirmi, ma Lecce è cosi fuori mano che molte mie prevenzioni cadrebbero. Ora che ho sentito Eliot recitare le sue poesie mi sono accorto che varrebbe la pena di emularlo (almeno in questo); ma dove se non a Lecce? Lei forse non si immagina quale sia l’ambiente letterario dei così detti grandi centri italiani. Meglio restarne fuori.

Spero di non averla troppo scoraggiata con questa mia risposta. Specie per ciò che riguarda la bibliografia il compito della Sua fidanzata sarà arduo, se non dispone di una buona raccolta di giornali e riviste. Oltre ai nomi da Lei citati occorrerebbe tener conto dei giudizi di De Robertis, Gargiulo, Sereni, Solmi, Varese, Ferrata, forse Pancrazi, ecc. Veda pure il giudizio espresso da Felice Balbo nel libro ‘Il laboratorio dell’uomo’, ed. Einaudi, 1947); notevole perché mi stacca nettamente dalla corrente ermetica (3), cosa in parte vera ma non tale da far piacere a coloro che (come l’amico Giacinto) pensano e sentono un po’ troppo per generi e per scuole.

Ancora grazie, caro Pagano, e i più cordiali saluti e auguri dal


Suo dev.mo

Eugenio Montale

1 Aggiunga che si tratta di una settimana intera che andrebbe; ed io vivo di collaborazioni e di lavoro! (molto malamente).


2 e nel prossimo marzo in quella di Oxford e di Cambridge.


3 Era pure il pensiero di Giame Pintor.


P. S. Una mia poesia pubblicherà pure il pross[imo] numero (che esce a giorni) delle Tre Venezie.

[Lettera dattiloscritta su quattro facciate, con correzioni autografe e l’aggiunta di firma, tre note e poscritto manoscritti, con busta indirizzata a: «Dott. Vittorio Pagano / presso Sauli /via di Casanello 62 / Lecce». Carta e busta recano l’intestazione, depennata da Montale: «Letteratura / rivista bimestrale di letteratura contemporanea / Alessandro Bonsanti Direttore / Edizioni di “Letteratura” / Palazzo Strozzi – Firenze». Sul retro della busta: «Montale / v. Duca di Genova 38 / Firenze»].

2.

Firenze, 20 febbraio 1948

viale Duca di Genova 38

Caro Pagano,

sto per partire per l’Inghilterra e al mio ritorno mi fermerò, forse per mesi forse per sempre, a Milano. Non faccia perciò nulla per organizzare una mia prossima conferenza a Lecce, che nelle attuali condizioni sarebbe disastrosa per me e per il comitato. Spero di poterla accontentare un giorno, ma per ora non saprei prevedere quando. Bisogna che qualche altra ragione mi chiami verso il sud; allora tutto sarà meno difficile e meno costoso.

Le domande che mi pone la Sua fidanzata trovano tutte qualche risposta nello scritto della Rassegna d’Italia (anno I numero I) da me citato; nel quale va apportata almeno questa correzione. A pag. 87 invece che “preferisco libri come Adolphe ecc.” bisogna leggere preferivo libro ecc. Ho parlato di qualche risposta, perché mi accorgo che quello scritto pone con molta semplicità il problema della mia poesia. Non ritengo che convenga intorbidarlo. In me le cosiddette ricerche della lirica moderna (da 150 anni ad oggi, ma in Italia da molto meno tempo) sono state fin dall’inizio bisogno fisico, fisiologico, impossibilità di esprimermi diversamente. Una calligrafia dell’anima, se vuole. Ora, tutte le domande rivoltemi peccano (nel mio caso) di intellettualismo. Non ho una estetica alla quale attenermi; non credo che la mia via sia buona per tutti. Se si vuol capire qualcosa nell’arte d’oggi bisogna decidersi a distinguere empiricamente (col fiuto dell’expert di pittura) fra originali e copie. Anche in poesia; soprattutto in poesia. Allora si assisterà al crollo dei problemi. Ma è molto più facile procedere per schemi, lo so.

Mi scusi della brevità della presente, che mi trova in procinto di partire, mi conservi la sua stima, che considero preziosa, e mi creda sempre suo

affmo

Eugenio Montale

[Lettera dattiloscritta su due facciate, con l’aggiunta di firma manoscritta, su carta intestata «Letteratura. / Rivista bimestrale di letteratura contemporanea / Alessandro Bonsanti Direttore / Edizioni di “Letteratura” / Palazzo Strozzi – Firenze», con busta indirizzata a: «Prof. Vittorio Pagano / Lecce/ 46 – Via S. Pasquale – 46»].

3.

Milano, 19/ 1/ 1961

Caro Pagano,

non mi sono mai dimenticato di avere in Lei un amico fedele e indulgente. Ma non sono maestro né merito culti.

Il cazzone di GENTE venne a casa mia con un fotografo. Non osai metterlo alla porta, ma non vi fu intervista né le mie mani furono bruciate da alcun libro quasimodeo.

Il CRITONE lo vedo spesso con piacere (esclusa la parte penale). Poesie nuove, inedite non ne ho; frammenti, ritagli da riunire in esiguo volumetto ci saranno, ma chi li ha? Chi li mette insieme? Io non posseggo nemmeno tutte le edizioni dei miei libri. Per questa parte io sono nelle mani del collega Giorgio Zampa al quale Mondadori ha affidato il compito di raccogliere in due volumi le mie prose estranee alla Farfalla di Dinard. Ma sarà post mortem. Il solerte Zampa possiede una cassa di miei lacerti letterari: io però ne ignoro il contenuto.

A Lecce? Io ci verrei con grande soddisfazione; ma quando? Mi sembra quasi impossibile. Se verrò, sarà senza preavviso.

Non mi dimentichi, intanto; e mi mandi il libro (libretto?) delle sue poesie.

Con molto affetto

Suo affmo

Eugenio Montale

[Lettera dattiloscritta su una facciata, con l’aggiunta di firma manoscritta, con busta intestata «Corriere della Sera / F.lli Crespi & C. – Soc. Ed. Acc. Sempl. / Milano – Via Solferino, 28» e indirizzata «a Vittorio Pagano / Via M. R. Imbriani 42 / Lecce». Sul retro della busta: «Montale»].

II

Enzo Fabiani

RIMPIANGE DA TRENT’ANNI UN TOPOLINO D’AVORIO36

Timido e come spaventato, tanto da sembrare infreddolito anche d’agosto, ogni giorno nel tardo pomeriggio, un signore esce, il cappello calato sugli occhi, dal portone contrassegnato col numero undici di via Bigli, nel pieno centro di Milano. La via è quasi sempre deserta (è una delle poche rimaste silenziose come cent’anni fa), sicché il nostro eroe può gradatamente abituarsi all’aria aperta e prepararsi a quanto l’aspetta non appena abbia voltato l’angolo: un dardeggiar di teneri sguardi di fanciulle, che lo fissano come se fosse un divo; una selva d’occhi di signore bellissime, che sembrano implorare da lui chi sa quali lumi e conforti. L’anziano signore, che cammina a passettini, avverte tutto quel lampeggio che farebbe trasognare ogni uomo; l’avverte e sbuffa, e il viso gli si contrae in tic continui e angosciosi. Vorrebbe fuggire, correre; si immagina, per superare quel grandinare di dardi, già seduto in una poltrona della Scala o al suo tavolo al giornale presso cui lavora (queste, invariabilmente, le sue mète), ma non può fuggire né correre; e paga così, tremando, lo scotto quotidiano alla fama; sconta, in quel modo crudele e raffinato, la sua grandezza. Quell’anziano signore non è né un divo né un grande direttore: è semplicemente, timidamente, il poeta Eugenio Montale (autore, tra l’altro, della famosa poesia dedicata a Dora Markus, la donna austriaca che lo lasciò per sempre e che teneva nella borsetta, come amuleto, un topo bianco di avorio), la cui fama dipende, diciamolo subito, oltre che dalle indiscutibili qualità di letterato, dal sottile, tenebroso e anche a volte misterioso fascino che emana dalla sua persona, capace di suscitare, anche perché così teneramente disarmata, l’istinto materno in ogni donna.

Andai a visitare Eugenio Montale il 6 gennaio scorso dalle 16 alle 18. Via Bigli 11: a destra, ascensore fino al terzo piano; poi un piano a piedi. Così mi disse la portinaia, una bella e giovane ragazza seduta dietro a un tavolo di stile, in un salone degno del direttore di una grande azienda. Presi l’ascensore lentissimo e illuminato da una luce che mi parve addirittura mistica; feci due rampe di scale e mi trovai su un pianerottolo con tre porte. Nessuna targhetta. Suonai alla porta di mezzo. Ero un po’ emozionato, e lo fui ancor più quando, passati alcuni minuti, vidi che nessuno apriva. Guardavo intanto, attraverso una grande invetriata, la distesa dei tetti di Milano, con in primo piano il campanile di San Carlo. Mi parve di sentire, nella giornata nebbiosa, salire fin lassù il profumo della via Montenapoleone, che è a un tiro di schioppo. Finalmente, dopo il secondo squillo, una cameriera mi aprì.

Mi fece accomodare in una specie di andito, molto piccolo e occupato in gran parte da un tavolo. Alla parete un quadro di De Pisis con i lati due disegni, firmati, con la grafia da bambini: Montale. Dall’andito vedevo una sala bassa, alla quale si accede per cinque o sei scalini di marmo nero. Oltre la sala, una terrazza e, nello sfondo nebbioso, i grattacieli. La stanza era assai elegante, con poltrone verdi molto grandi e sedie piccolissime; una addirittura da bambino di un anno. Alle pareti quadri di Morandi, De Chirico e altri. Ambiente tranquillo, ravvivato da globi natalizi multicolori, da qualche ramoscello di vischio dorato. Una radio trasmetteva un programma di Norrie Paramor e la sua orchestra. Era la radio di Montale. Ad un tratto una porta bianca si dischiuse; intravidi un letto disfatto; si richiuse. Norrie Paramor suonava. Ed ecco che la porta bianca si riaprì e Montale apparve: giacca di velluto verde, ciabatte color oliva matura, pantaloni grigi. Salii fino a lui mediante gli scalini neri. Mi salutò gentilmente e subito, come rattrappito, si sedette. Silenzio. Vidi che Montale sorrideva dietro il fumo della sigaretta. Incominciai a parlare del tempo; ma ero sulle spine, sapendo quale tremendo “critico” e quale acuto osservatore sia Montale.

In quel momento, per fortuna, la radio annunciò, terminato il programma di Norrie Paramor e la sua orchestra, L’elisir d’amore, melodramma in due atti di Felice Romani, musica di Gaetano Donizetti. «Trasmettono L’elisir», dissi. «Una novità», osservò asciutto Montale. Il discorso sulla musica, uno degli hobby del poeta, evidentemente non ingranava. Allora gli chiesi: «Lei è nato a Genova, ma ho sentito dire che la sua famiglia viene da Monterosso delle Cinque Terre, è vero?». Montale trasalì, scosse la cenere e disse: «Sì, in parte è vero, dato che mio padre nacque a Monterosso, dove avevamo una casa. Ma abitò sempre a Genova, dove aveva l’ufficio. Credo però che la mia famiglia sia di origine parmense e che anticamente il mio cognome fosse Montali. Fu un mio antinonno, generale napoleonico, a cambiare la “i” in “e” per francesizzare il cognome ed essere chiamato così Montàl. È una mia ipotesi che credo giusta. Altri letterati col mio cognome non ne conosco, ad eccezione di un certo Bruto Montale, di cui trovai un libriccino di versi in una Biblioteca».

Domandai a Montale: «Quando incominciò a scrivere poesie?». «Come ho ricordato nel 1946 in una mia “Intervista immaginaria”, scrissi i primi versi da ragazzo. Erano versi umoristici, con rime tronche bizzarre. Più tardi, conosciuto il Futurismo, composi qualche poesia di tipo fantaisiste, o se si vuole grottesco-crepuscolare. Ma non pubblicavo e non ero convinto di me. Un’ambizione più concreta e strana mi occupava: diventare baritono. Studiavo allora per la parte di Valentino nel Faust di Gounod; passai poi tutta la parte di Alfonso XII nella Favorita e quella di Lord Aston nella Lucia. L’esperienza, più che l’intuizione, della fondamentale unità delle varie arti dev’essere entrata in me anche da quella porta. I pronostici erano ottimi, ma quando morì il mio maestro, Ernesto Sivori, uno dei primi e acclamati Boccanegra, mutai rotta, anche perché l’insonnia non mi dava tregua. L’esperienza mi fu utile: esiste un problema di impostazione anche fuori del canto, in ogni opera umana. E credo di essere rimasto uno dei rari uomini d’oggi che comprenda il nostro melodramma».

Dopo la lezione di canto, che durava dalle otto e mezzo del mattino alle nove, il futuro maestro della poesia si recava alla Biblioteca comunale. «Non c’era molta scelta di libri e il distributore non ammetteva di essere disturbato. Un dirigente della Biblioteca poi, autore di un saggio sugli scultori Gaggini, mi tormentava perché leggessi ogni giorno il suo libro. Ma in uno scaffale sempre aperto trovai pascolo per parecchi mesi. Ho letto là, in quel tempo, non so quanti libri del Lamaître e dello Scherer, lo scopritore di Amiel. Studiai dunque per conto mio, e da solo imparai il francese, l’inglese e lo spagnolo». Nel 1917 Montale dovette partire per la guerra come ufficiale di Fanteria e fu, con la brigata “Liguria” e come tenente del 158° Reggimento Fanteria, sul Monte Corno e sul Lòner. Tornato a Genova, continuò a studiare e a scrivere in segreto quelle poesie che, dopo alcune primizie pubblicate sulla rivista torinese “Primo tempo”, dovevano formare il suo primo volume, Ossi di seppia, pubblicato nel 1925 da Piero Gobetti.

Riguardo a quel libro il poeta confessa: «Scrivendo quelle poesie ubbidii a un bisogno di espressione musicale. Volevo che la mia parola fosse più aderente di quella degli altri poeti che avevo conosciuto. Più aderente a che? Mi pareva di vivere sotto a una campana di vetro, eppure sentivo di essere vicino a qualcosa di essenziale. Un velo sottile, un filo appena mi separava dal quid definitivo. La espressione assoluta sarebbe stata la rottura di quel velo, di quel filo: un’esplosione, la fine dell’inganno del mondo come rappresentazione. Ma questo era un limite irraggiungibile. E la mia volontà di aderenza restava musicale, istintiva, non programmatica. All’eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo, magari a rischio di una contro eloquenza».

Ad un tratto Montale scosse la testa e arrotondando la bocca fece, con voce profonda: «O, o, oooo…» . «Che ha, si sente male?» domandai sorpreso. Il poeta sorrise e, facendo segno verso la radio che, nell’altra stanza, continuava a gridare L’elisir, aggiunse: «Che Belcore sarei stato». Sospirò, accese un’altra sigaretta (ne fuma una quarantina al giorno), e continuò: «Nel 1927 conobbi per caso l’editore Bemporad di Firenze, che aveva bisogno di un segretario. Gli chiesi di prendermi e così mi trasferii a Firenze. Nel 1928 fui nominato direttore dell’Ente morale Gabinetto G.P. Viesseux. Eravamo in tre candidati ed il mio nome, non so se per ragioni alfabetiche, era il terzo. L’allora podestà di Firenze, un Della Gherardesca, quando seppe che ero antifascista fece un segno blu accanto al mio nome; e così ebbi quel posto. Ci rimasi dieci anni, fin quando cioè il mio antifascismo non dette al naso a qualcuno. Non mi volevano dare neanche la liquidazione; poi mi liquidarono come impiegato: ebbi diciottomila lire.

«Da allora, cioè dal 1938 al 1947, anno in cui fui assunto come redattore al “Corriere della Sera”, dovetti vivere di articoli e traduzioni. Un lavoro tutt’altro che allegro». La presenza di Montale a Firenze determinò uno dei periodi più vivaci per la cultura fiorentina e italiana. E anche se Montale non saliva mai in cattedra, la sua “carica” era quanto mai importante (venuto via lui, son rimasti tre gatti a farsi a vicenda la serenata). In quegli anni era facile vedere il poeta seduto al caffè delle Giubbe Rosse, scrivere su fogliettini di carta versi e appunti. L’abitudine di scrivere in giro («Io non ho mai avuto un mio studio, scrivo dove mi capita; spesso in camera da letto») e su fogliettini Montale l’ha sempre avuta. Dicono i bene informati che il poeta ha perduto centinaia di versi proprio per quella sua abitudine: riempito un foglietto se lo mette in un taschino del panciotto, dove lo dimentica. La donna di servizio quando pulisce l’abito prende quei foglietti e li getta nella pattumiera, non sapendo quanto danno arreca alla letteratura.

Nel 1939 Montale pubblicò la seconda raccolta di versi, Le occasioni, a proposito della quale osserva: «Negli Ossi di seppia tutto era attratto e assorbito dal mare fermentante; più tardi vidi che il mare era dovunque, per me, e che persino le classiche architetture dei colli toscani erano anch’esse movimento e fuga. E anche nel nuovo libro ho continuato la mia lotta per scavare un’altra dimensione nel nostro pesante linguaggio polisillabico, che mi pareva rifiutarsi a un’esperienza come la mia. Ripeto che la lotta non fu programmatica. Forse mi ha assistito la mia forzata e sgradita attività di traduttore. Ho maledetto spesso la nostra lingua, ma in essa e per essa sono giunto a riconoscermi inguaribilmente italiano: e senza rimpianto». Vennero poi altri libri: Finisterre («Si tratta di poche poesie, nate nell’incubo degli anni ’40-’42, forse le più libere che io abbia mai scritte, e pensavo che il loro rapporto col motivo centrale delle Occasioni fosse evidente. Se avessi orchestrato e annacquato il mio tema sarei stato capito meglio. Ma io non vado alla ricerca della poesia, attendo di esserne visitato. Scrivo poco, con pochi ritocchi, quanto mi pare di non poterne fare a meno»); poi il Quaderno di traduzioni e La bufera e altre cose.

«A quando un nuovo libro di poesie?», Montale accarezzò una delle spighe colorate raccolte a mazzo in un vaso, poi: «Di poesie non ne ho. Forse pubblicherò la raccolta delle mie critiche musicali, poi di quelle letterarie. Vedremo». In quel momento il fotografo che mi aveva accompagnato pregò il poeta di prendere un volume dalla libreria e di far vista di leggerlo. Montale prese un volume, ma subito lo rimise a posto borbottando, come se si fosse scottato. Io allora, mentre si faceva fotografare con un altro, mi avvicinai alla libreria e vidi che il volume “scottante” erano le poesie di Salvatore Quasimodo, premio Nobel.

Poi, sapendo che il poeta ha l’hobby della pittura, lo pregai di farmi vedere alcuni suoi pastelli. Sorrise, andò n bagno e ne tornò con una cassettina piena di gessi colorati e con un cartone su cui si vedeva un paesaggio che ricordava vagamente lo stile di Semeghini. «Ne faccio due o tre l’anno», disse compiaciuto.

Domandai a Montale se riteneva giusto quanto era stato scritto a proposito del suo ultimo libro, Farfalla di Dinard, pubblicato recentemente da Mondadori, e cioè che Tomasi di Lampedusa sarebbe stato in qualche modo influenzato, per il suo Gattopardo, da quelle prose, pubblicate su giornali quotidiani tra il 1946 e il 1950. Montale rispose: «Non so se sia possibile affermare una cosa del genere. So di certo che Lampedusa, che si teneva al corrente di tutto, conosceva le mie poesie (alcuni critici anzi rilevarono una specie di relazione tra i miei versi e il romanzo, quando questo uscì) ma non so se abbia mai letto le mie prose. Non so quindi cosa dire in proposito». «Ed è vero che sta scrivendo un romanzo?» «No», rispose Montale. «Non ne ho il tempo. Sono giornalista ormai, e i miei impegni di critico musicale mi prendono grande parte della giornata. Nell’ultimo libro comunque, che comprende circa la metà delle prose da me scritte, c’è in nuce, il romanzo che non scriverò mai».

Eugenio Montale guardò il suo orologio, che però era fermo da molte ore. Gli dissi che erano ormai le sei. «Devo andare al giornale, allora», disse come angosciato, «a vedere se c’è qualche novità». Si mise in fretta il paltò, si calcò il cappello sugli occhi e uscimmo. In strada, feci con lui una decina di metri: ma quando fummo all’angolo lo salutai. Volli lasciarlo a sostenere da solo gli sguardi ardenti delle fanciulle che lo fissano come se fosse un divo e quelli imploranti delle signore, che sembrano aspettare da lui chi sa quali consolazioni e conforti: fanciulle e donne che, stranamente, richiamano tutte Esterina “minacciata dai vent’anni”, e Dora Markus, il cui cuore è “un lago d’indifferenza”: creature d’amore e di sogno che a Montale devono la vita.

[In “R-EM. Rivista internazionale di studi su Eugenio Montale”, n. 2-3/ 2021-2022, pp. 3-29]

1 Fabiani, Una stupenda elegia, “Gente”, 27 marzo 1971, p. 82.

2 Ibidem, p. 83

3 Ibidem, p. 82.

4 Ibidem, p. 83.

5 Fabiani, Ritratto del famoso poeta attraverso confidenze, ricordi episodi inediti. Il vero Montale era così, “Gente”, 25 settembre 1981, p. 137.

6 Ibidem.

7 Ibidem, p. 140.

8 Ibidem.

9 Ibidem, p.141.

10 Ibidem, p. 142.

11 Cfr. Confessioni di scrittori. Interviste con se stessi, Torino, Edizioni Radio Italiana, Torino, 1951, pp. 67-72.

12 Cfr. Claudio Marabini, Montale e la Liguria, “Nuova Antologia”, maggio 1976, pp. 94-98.

13 Ibidem, p. 144.

14 Ibidem.

15 Ibidem.

16 Ibidem.

17 La trascrizione delle lettere di Montale è fedele agli originali. Com’è consuetudine, abbiamo utilizzato il corsivo per i termini sottolineati e abbiamo inserito le nostre integrazioni fra parentesi quadre.

18 Cfr. Montale, Intenzioni (Intervista immaginaria), “La Rassegna d’Italia”, 1 gennaio 1946, pp. 84-89.

19 Cfr. Luciano Anceschi, Lirici Nuovi, Milano, Hoepli, 1942; II ed. con una nuova premessa e bibliografia, Milano, U. Mursia & C., 1964.

20 Cfr. Pier Paolo Pasolini, Pascoli e Montale, “Convivium”, marzo-aprile 1947, pp. 199-205.

21 Cfr. Rina Sara Virgillito, Per un’interpretazione della poesia di Montale, “Humanitas”, gennaio 1947, pp. 100-106.

22 Cfr. Gianfranco Contini, Pour présenter Eugenio Montale, in Montale, Choix del poèmes, traduit de l’italien par Silvio d’Arco Avalle et Simone Hotelier, Genève, Èditions du Continent, 1946, pp. 9-31.

23 Cfr. Montale, Finisterre, Lugano, Collana di Lugano, 1943: II ed. Firenze, Barbèra, 1945.

24 Cfr. Id, L’orto, “La Fiera letteraria”, 11 aprile 1946, p. 3.

25 Cfr. Id., Due motivi [I. I miei morti che prego perché preghino… II. Ezechiel saw the Wheel], “Società, luglio-dicembre 1946, pp. 575-7.

26 Cfr. Id., Ballata scritta in una clinica, “Il Ponte”, agosto 1945, p. 399.

27 Cfr. Id., La primavera hitleriana, “Inventario”, autunno-inverno 1946-47, pp. 11-2.

28 Cfr. Id., Una voce è giunta con le folaghe, “L’immagine”, giugno 1947, pp. 109-10.

29 Cfr. Id., Una poesia di Montale [Da una torre], “Il Politecnico”, 3 novembre 1945, p. 1.

30 Cfr. Id., Poesia di Eugenio Montale, “Il ‘45”, n. 1, 1946, p. 19.

31 Cfr. Id., Nel parco, “Lettere ed Arti”, aprile 1946, p. 13.

32 Cfr. Id., Quaderno di traduzioni, Milano, Edizioni della Meridiana, 1948.

33 Questa edizione non vide mai la luce.

34 Cfr. William Shakespeare, Amleto, principe di Danimarca, trad. di Montale, Milano Cederna, 1949.

35 Nemmeno questo volume venne pubblicato.

36 Con il sottotitolo «Eugenio Montale, uno dei più grandi poeti europei, da giovane studiava per diventare baritono. Ritratto biografico di Enzo Fabiani», “Gente”, 20 gennaio 1961, pp. 50-52.

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