A dieci anni dalla crisi Xylella: l’auspicabile transizione a un’economia post-agricola

A ben vedere, si può sostenere una posizione apparentemente provocatoria, secondo la quale – come per tutte le crisi, del resto – anche quella dell’agricoltura pugliese è da considerarsi un’opportunità. L’ulivo secolare, da tempo, svolgeva sempre più la funzione di valorizzazione del paesaggio, più per fini turistici che realmente produttivi. Xylella era ed è da leggere come opportunità per due ragioni. In primo luogo, la produzione di ulivo, per molti decenni, è stata una monocultura locale, con tutti i problemi che la scommessa su una sola produzione può dare, in primis l’elevato rischio connesso alla modifica della domanda internazionale. In secondo luogo, l’esistenza di un’ampia dotazione di uliveti da coltivare ha tenuto per molti anni queste terre in condizioni di povertà, favorendo una distribuzione del reddito fortemente sperequata a favore della rendita fondiaria. Una forte vocazione agricola tiene, infatti, bassi i margini di profitto e, soprattutto, connota un assetto sociale basato sul parassitismo dei proprietari o sulla piccola proprietà fondiaria. A ciò si aggiunge che le condizioni di vita dei contadini pugliesi sono state sempre ai limiti della sussistenza con profonda e diffusa violazione dei diritti, impedendo, di fatto, lo sviluppo di una forma mentis moderna, orientata alla crescita della produttività e all’innovazione nei settori trainanti dello sviluppo capitalistico, tipicamente l’industria e la finanza. La crisi Xylella avrebbe obbligato – e tuttora obbliga – a una riconversione produttiva. Sperabilmente superando la vocazione esclusivamente o prevalentemente agricola del Salento e del resto della Puglia. È ben noto infatti che, negli ultimi decenni, l’incidenza dell’agricoltura sul Pil, nelle economie mature, si è drasticamente ridotta, soprattutto a seguito della rimozione delle barriere tariffarie e non tariffarie. Ed è ben noto che, negli scambi internazionali, una forte specializzazione agricola danneggia chi la persegue. Ciò per un meccanismo che si chiama lo scambio ineguale. Le periferie dello sviluppo capitalistico, infatti, sono normalmente caratterizzate (come lo era la Puglia pre-2013) da vocazione all’agricoltura con appezzamenti di terra molto piccoli, ad alta intensità di lavoro e a bassissimo contenuto innovativo. Si registra anche il problema del ricambio generazionale, laddove i giovani tendono a non accettare lavori faticosi nelle campagne. Lo scambio internazionale prevede l’acquisto, in quei territori, di prodotti manufatti, costruiti in forme di mercato oligopolistiche, dunque con prezzi di vendita elevati e l’esportazione di beni (tipicamente quelli agricoli e, nel nostro caso, olio, da tavola o da lampada, come accadeva nell’Ottocento) agricoli, derivanti da mercati prossimi alla concorrenza, dunque con prezzi di vendita molto bassi. In più, i bassi salari in agricoltura si traducono anche in prezzi relativi bassi, dal momento che i beni importati sono prodotti in condizioni di più elevata sindacalizzazione dei lavoratori e, dunque, in salari più alti nelle aree centrali. Dunque, il commercio internazionale impoverisce i Paesi con produzioni tradizionali e, in questa lettura, ha contribuito a mantenere relativamente povere le nostre terre rispetto ad altre opzioni possibili. Ciò appunto per un meccanismo che prevede l’importazione di beni industriali a prezzi elevati e le esportazioni di olio e prodotti agricoli a prezzi bassi.

[“La Gazzetta del Mezzogiorno”, 8 giugno 2023]

Questa voce è stata pubblicata in Economia e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *