Studi su Sigismondo Castromediano

Grazie a questo volume, venendo meno all’ordine alfabetico in cui i contributi sono proposti, si può provare a cogliere la personalità di Castromediano nel suo formarsi e nel suo caratterizzarsi con elementi che non la abbandoneranno più. Si potrebbe partire dal saggio di Marco Sirtori (Gli scritti giovanili di Sigismondo Castromediano tra racconto storico e odeporica) che, esaminando i Manoscritti giovanili,2 analizza la vena narrativa del giovane duca, capace di cimentarsi con vari generi: «romanzo storico, novella fantastica di gusto quasi gotico, e racconto popolare» (p. 221). Senza ripercorrere il lungo e corposo iter disegnato dall’autore, sulla scorta di un’edizione estremamente «accurata sul piano scientifico» (p. 220), si osservano le aperture al romanzesco, elemento che gli permetterà di riscaldare senza tradire tante pagine di Carceri e galere e, anche, l’inclinazione a leggere e descrivere l’ambiente circostante con una partecipe estraneità, che gli consente di convertire «la terra attraversata» in «luogo di apprendistato politico che transita per pagine divertite e autoironiche» (p. 236): una fortissima capacità di osservazione esercitata con distacco, elemento che lo salverà nei momenti più bui e tragici della detenzione.

Poi l’arresto, ricostruito e collocato nel fermento storico del Quarantotto da Roberto Martucci (Sigismondo Castromediano e la pagina leccese del “controverso” ’48 costituzionale napoletano), attraverso il quale Castromediano mette a nudo l’ipocrisia di un’istituzione che cerca, con determinazione criminale, di «coniugare […] la severità di una pena esemplare formalmente irrogata, con la realtà effettuale di una esecuzione non avvenuta, grazie alla “provvidenziale” fuga dell’accusato» (pp. 176-177). Infatti, ignorando gli avvertimenti e i volontari ritardi nell’esecuzione del provvedimento che lo riguarda, il duca non fugge, anzi preferisce affrontare il processo e «undici anni di carcere durissimo» (p. 133), undici dei «trenta anni di ferri» che, ricorda Aldo Ravalli, gli erano stati comminati insieme alla «malleveria di ducati 1000 per tre anni dopo espiata la pena» (p. 201). Martucci dimostra in modo convincente che si tratta di una pena sproporzionata al reato ma funzionale a colpire un «capro espiatorio ideale, per dare un esempio, intimidendo una volta per tutte quel mondo variegato che si era cullato per mesi tra critiche al governo, tenzoni oratorie e tardivi appelli alle armi» (p. 175).

L’arresto conduce alle Memorie, l’opera di una vita, che Matilde Dillon Wanke (Su Carceri e galere politiche di Sigismondo Castromediano) definisce «di genere misto», «insieme appassionata e rigorosa», frutto di un «estenuante processo di correzioni e aggiustamenti», in cui «la promessa del racconto, fatta ai “compagni di catena”, sarebbe arrivata al punto da volere escludere la presenza dell’io, autore/personaggio» (p. 16). Coerentemente con quanto fin qui riscontrato, l’opera, «a partire dal terzo capitolo […] assume l’andamento non di pura e coinvolgente testimonianza, ma di inchiesta, ricerca, raccolta di dati sul modello della coeva, dignitosa, produzione storico-erudita degli intellettuali salentini» (p. 19) e questo spiega, e non solo in parte, il mancato autoritratto del duca, condannato da Anna Banti: «chi racconta la propria vita non dovrebbe […] mirare che al proprio meticoloso e spietato ritratto».3 Castromediano non è «ignoto a se stesso», ma vuol restare, questo sì, parzialmente ignoto ai suoi lettori, anche se, come osserva Marcella Marmo («Il male la soffiò dalle tenebre». Afflato etico ed esperienza realistica nel racconto della camorra carceraria di Sigismondo Castromediano), «le tracce del trauma mentale e fisico nella persona affluiscono con intelligenza di sé nel lavoro di stesura pur lento negli anni; la passione politica si esprime ben in linea con l’umanesimo etico liberale/libertario; la denuncia veemente si alterna al realismo equilibrato nella comunicazione sociale e aperto al racconto come alla riflessione» (p. 79).

È quanto, in modo diverso, sostiene Charles Klopp (Sigismondo Castromediano e la tradizione della letteratura carceraria in Italia), che immagina di immergere questo «signore feudale, la cui famiglia aveva combattuto per secoli contro i napoletani e altri stati lontani ma politicamente egemonici della regione» (p. 71), in una «odissea […] attraverso molti dei più pericolosi luoghi di detenzione dell’Italia borbonica» e, dopo il trasferimento da Lecce a Napoli, nel «contatto con reclusi che erano membri della Camorra» (p. 74), anche se «grazie alla sua condizione di nobile e all’ascendente spirituale che riesce a mantenere, Castromediano appartiene ai livelli più alti della società anche in questa lurida e pericolosa roccaforte gestita dalla Camorra» (p. 75). Ma Castromediano non è uomo comune neppure in queste circostanze e correttamente Klopp osserva che gli è più consona la prigione del castello di Montesarchio, non «priva di accenti romantici che sembravano stranamente incoraggiare chi era confinato fra le sue mura a perseverare nella resistenza» (pp. 76-77) ma, anche – lo noterà più avanti Ravalli – nella capacità di «vivere il sistema carcerario con tale totale immersione e sovrumano distacco da poterne osservare e registrare nella memoria ogni aspetto», con l’obiettivo di «darne una descrizione per validità ed attenzione mai raggiunta in alcuna relazione parlamentare» (p. 202), anche se, come ha avvertito Giannone, in Castromediano è «sostanzialmente assente la riflessione sulla mancata “funzione educativa che dovrebbe svolgere il carcere”».4

Solo grazie a questa resistenza il duca «riuscì a sopravvivere ai rigori di una detenzione difficile e pericolosa» (p. 77), riemergendo con un’acquisizione per sé e per i lettori che anticipa la riflessione dei «detenuti antifascisti» secondo cui «le carceri in cui era stato detenuto erano poco più che una sineddoche della società oppressiva di cui quelle stesse carceri erano parte» (p. 77). La sineddoche risulta tanto più micidiale quanto permeata dalla «esperienza diretta di presenze e pratiche camorristiche» dolorosamente acquisite dal duca e ripercorse da Marmo «nelle varie strutture detentive», il cui personale è composto da «gendarmi scartati dall’adeguato servizio di polizia» (p. 96), anche se Marmo coglie, da parte di Castromediano, un’«autocensura che finisce col falsificare le frequentazioni amicali con i capi camorristi» (p. 130). A Procida, dove la «corruzione già intravista altrove» si mostra «enorme nel controllo delle risorse cospicue condiviso fra carcerieri e camorristi» (p. 98), il duca ha cura di discorrere «di un sistema più complesso di mercato, che giunge a integrare il gruppo camorrista in più snodi economici tra dentro e fuori galera» (p. 100) e l’orrore sta nel fatto che «l’istituzione, ben addentro agli affari commerciali ma preposta al buon ordine di ogni aspetto del Bagno, non esaminava neanche i reclami» (p. 102).

«Il lavoro scientifico puntuale e reale sugli aspetti strutturali, organizzativi, sociologici, umani e delinquenziali che formano un insieme definibile “società carceraria”», prima di essere messo sulla carta sarà evidentemente speso a voce durante la permanenza, ricostruita da Ravalli (Sigismondo Castromediano da Cavallino a Londra fra processi e carceri per l’Unità d’Italia) nella convinzione che non sia da sottovalutare «il ruolo svolto dalla presenza in Londra dei patrioti condannati dai Borbone» – dopo che la nave che avrebbe dovuto portarli in America fu dirottata – e la loro testimonianza fu fondamentale non solo per convincere l’opinione pubblica inglese della ragionevolezza di una politica contraria ai Borbone, ma per convincere il Piemonte «che il sostegno inglese rendeva fattibile il progetto di Garibaldi» (p. 205).

Ma il dopounità si rivela, subito, amaro e la stessa percezione che di sé ha Castromediano («la nostra generazione è di giganti») non viene confermata nella tornata elettorale del 1865, che vede la mancata rielezione del duca al parlamento italiano: questo in qualche modo non fa che confermare che il suo aristocratico isolamento non era fatto per essere capito nell’immediato: «Cavallino, anche se per pochi voti, si espresse contro l’annessione al Piemonte e l’unificazione con il regno Sabaudo» (p. 206), e questo forse non era quanto il duca, pur cocentemente deluso da un post-Risorgimento che sente non appartenergli, avrebbe voluto.

Cosa emerge di questa complessa personalità quando diventa, a sua volta, oggetto di racconto? Un dittico di grande interesse, anche se fisicamente lontano all’interno del volume, è dedicato all’immagine di Castromediano nel romanzo della Banti Noi credevamo e nell’eponimo film di Mario Martone. Assai opportunamente Yannick Gouchan («Le idee di cui mi ero lungamente esaltato»: il Risorgimento e i suoi protagonisti meridionali nel romanzo Noi credevamo di Anna Banti) afferma che Domenico Lopresti «odia Torino che vede come un nuovo carcere, volontario» (p. 64), ma in questo odio si riverbera una consapevolezza più lontana che permette al protagonista di riconoscere, fin dall’inizio del romanzo, che la «“piemontesizzazione” non ha portato che miseria e corruzione nell’ex Regno delle due Sicilie» (p. 53). Il rapporto difficile e non amichevole con Torino è anche rafforzato dalla valutazione fallimentare dell’Italia nata dal Risorgimento e quest’idea – osserva Laurent Scotto d’Ardino («Io vi ho visto da lontano»: la figura cinematografica di Sigismondo Castromediano nel film Noi credevamo di Mario Martone) – viene esplicitata da Martone che, allontanandosi dal romanzo, colloca alla fine del film l’ultimo incontro fra Lopresti e Castromediano per suggerire come «a dispetto delle loro divergenze profonde, e per motivi diversi, i due uomini, i due amici, si ritrovano alla fine sia marginalizzati sia uniti da uno stesso disgusto morale e da una profonda delusione» (p. 216). Aggiungerei che non è solo un orientamento politico a dividere «il monarchico moderato e il repubblicano democratico» e non basta l’ultima sequenza per dirci che «quell’amicizia era una specie di fratellanza che stava lì, in quel “noi”, a dispetto delle divergenze politiche, in quella comunione morale, in quella tensione etica» (p. 217): il percorso di Castromediano sembra costeggiare gli eventi senza entrare mai completamente a farne parte, pur essendo disposto a pagare di persona un prezzo molto alto.

Qualcosa si intuisce dall’atteggiamento esaminato da Steven Soper (Mai dimenticare: gli elenchi dei nomi di patrioti nelle Memorie di Sigismondo Castromediano), che apre il contributo con la nota dichiarazione di Castromediano: «promisi […] ai miei compagni, d’esser lo storico dei loro dolori»: un loro che non diventa mai un nostri e non per disprezzo o per aristocratico sussiego ma perché il duca, quasi inconsciamente, si ritiene un “a parte”, e mette immediatamente in atto il proposito fin dal Diario5 dei primi tre anni di prigionia. La volontà di interrompere la narrazione per convertire «quello che sarebbe stato un numero astratto in una ben più impressionante catena di nomi individuali» (p. 242), molti dei quali «non catturarono l’attenzione di politici, diplomatici e giornalisti europei» e nonostante «la chiara preferenza per gli uomini di cultura e intelletto» (p. 247), non risponde solo alla necessità «di portare un po’ di ordine fra il caotico andirivieni di compagni, sia dentro che fra prigioni» (p. 246) ma anche alla volontà di «raccogliere liste di vivi, non di morti» (p. 249), alla creazione di «un monumento di carta» (p. 250). Castromediano rifugge invece, sistematicamente, dalla propria monumentalizzazione, tant’è vero che, di fronte alla proposta della donna da lui lungamente amata, la torinese Adele Savio, di far inserire nel Padiglione pel Risorgimento italiano, il primo nucleo del Museo del Risorgimento, il proprio ritratto in mezzo a quello dei fratelli di lei, caduti nel ’60 e nel ’61, ancora una volta si ritrae.6

Non si ritrarrebbe, forse, di fronte al solido e rigoroso «monumento di carta» che in questi anni tanti studiosi, chiamati a raccolta, gli stanno erigendo.

[In “La Rassegna della letteratura italiana”, a. 124°, n. 2, luglio-dicembre 2020, pp. 543-546].

1 Sigismondo Castromediano: il patriota, lo scrittore, il promotore di cultura, (Cavallino di Lecce, 30 novembre-1 dicembre 2012), a cura di A. L. Giannone e F. D’Astore Galatina, Congedo, 2014.

2 S. Castromediano, Manoscritti giovanili. Archivio Castromediano di Lymburg, a cura di F. D’Astore, Galatina, Congedo, 2015.

3 A. Banti, Noi credevamo, Milano, Mondadori, 1978, p. 42.

4 A.L. Giannone, Sentieri nascosti. Studi sulla letteratura italiana dell’Otto-Novecento, Lecce, Milella, 2016, p. 34.

5 S. Castromediano, Diario (1847-1851), a cura di G. Rosato, Galatina, Congedo, 2013.

6 Cara Adele, caro Sigismondo, Millerose fu cominciamento di un sogno…, Carteggio Savio-Castromediano(1859-1905) a cura di A. Marcellan, Galatina, Congedo, 2018.

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