di Gianluca Virgilio
In tempo di guerra, il mestiere del giornalista non è per nulla facile. Non è lo è mai, per la verità, perché informare le persone non ha nulla di asettico e dunque chi detiene il potere non può permettersi di lasciar mano libera al giornalista. A maggior ragione quando infuria la guerra, la verità prende il largo e la propaganda si mescola all’informazione fino a sfigurarla. È il tempo della censura. Il giornalista dà conto delle decisioni dei potenti e, ben scortato dall’esercito, visita luoghi colpiti dalle bombe e riferisce di morti e feriti, meglio se bambini, sempre a carico del nemico. Il cattivo e da una parte, il buono dall’altra. Così l’opinione pubblica viene formata e disinformata. Se poi il giornalista vuole sottrarsi al ruolo che il potere gli assegna, ha poche chance di farcela, ovvero di riportare al lettore qualche informazione non contraffatta senza rischiare addirittura la vita.
Pensavo a tutto questo leggendo il reportage di Andrea Sceresini e Lorenzo Giroffi, Ucraina. La guerra che non c’era, Baldini+Calstoldi, Milano 2022 (seconda edizione accresciuta rispetto alla prima del 2015), il diario di viaggio di due giornalisti freelance che, nel tempo in cui in Italia pochi sapevano dove fosse il Donbass, tra l’inizio di ottobre e la metà di novembre del 2014, con molto coraggio e pochi soldi in tasca, hanno visitato i due opposti campi, lungo la linea del fronte, dei separatisti e dei governativi. Accolti dagli uni e dagli altri ora con sorrisi ora con sospetto, i due hanno incontrato le persone più diverse, animate dalle motivazioni più disparate: “miliziani dal volto umano, ufficiali alcolizzati e cocainomani, volontari di mezza Europa ubriachi di ideologia …”, come trovo riassunto nell’aletta di prima di copertina. Il libro procede in questo modo, col racconto degli incontri e con una serie di ritratti e di storie individuali che stentano a diventare storia collettiva di popoli contrapposti.