Se il Novecento ha rielaborato, integrato, riformulato alcuni concetti e alcune definizioni che riguardano le scienze cosiddette esatte, a maggior ragione tanto nel Novecento quanto in questo secolo nuovo si è reso necessario intervenire costantemente sui concetti e sulle definizioni di qualcosa che si sottrae, per natura e per cultura, a qualsiasi tentativo di riconduzione in una definizione, di definitiva identificazione. Se si prova a chiedere a dieci persone che cos’è la letteratura ci si ritrova con nove risposte completamente diverse e con una non risposta, con un silenzio. Probabilmente la risposta che contiene ed esprime tutte le altre è proprio il silenzio in quanto traduzione dell’impossibilità di una definizione strutturata.
Poi, nei confronti di Susanna Tamaro e del suo Va’ dove ti porta il cuore, forse abbiamo qualche debito. Soprattutto ce l’ha la mia generazione.
Un romanzo sentimentalistico, si pensava, patetico, melenso; confezionato ad arte per il mercato; una roba da venti milioni di copie vendute non può essere altro che un pacchetto regalo. Sdolcinamenti. Luoghi comuni. Frasi fatte. Questo si pensava. Quando il romanzo uscì, nel Novantaquattro, la critica militante confermava questa ipotesi, e in molti casi la determinava.
Adesso, a distanza di quasi trent’anni, si deve ammettere con onestà che quando è uscito Va’ dove ti porta il cuore, la mia generazione non lo ha capito: perché non poteva capirlo. Allora avevamo intorno ai trentaquattro anni, forse uno di meno, forse uno di più, e molte teorie che giravano nella testa. Per capirlo abbiamo dovuto lasciare che molta acqua passasse sotto i ponti. Comprendere qual è la differenza fra il superfluo e l’essenziale, tra il racconto autentico e la inautenticità di un racconto. Per capirlo abbiamo dovuto aspettare di arrivare a sessant’anni, di sentire il pentimento per il pregiudizio e cominciare a leggere il romanzo fino ad arrivare a metà di pagina 65, dove dice che verso i sessanta, quando la strada alle tue spalle è più lunga di quella che hai davanti, vedi una cosa che non avevi mai visto prima: la via che hai percorso non era dritta ma piena di bivi, ad ogni passo c’era una freccia che indicava una direzione diversa. Qualcuna di queste deviazioni l’hai imboccata senza accorgertene, qualcun’altra non l’avevi neanche vista; quelle che hai trascurato non sai dove ti avrebbero condotto, se in un posto migliore o peggiore; non lo sai ma ugualmente provi rimpianto. Potevi fare una cosa e non l’hai fatta, sei tornato indietro invece di andare avanti.
Bisogna arrivare al punto del libro dove dice che lungo i bivi della tua strada incontri le altre vite, conoscerle o non conoscerle, viverle o non viverle a fondo o lasciarle perdere dipende soltanto dalla scelta che fai in un attimo; anche se non lo sai, tra proseguire dritto o deviare spesso si gioca la tua esistenza, quella di chi ti sta vicino.
Già, forse quelli che ora contano intorno ai sessant’anni, hanno trascurato qualche strada, potevano fare qualcosa e non l’hanno fatta, sono tornati indietro invece di andare avanti. Forse adesso nascondono qualche rimpianto.
Susanna Tamaro li aveva avvertiti. Ma a quel tempo loro avevano il grande culto del romanzo impegnato. Che adesso hanno qualche difficoltà a capire cosa sia.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica, 4 giugno 2023]
Abbiamo capolavori letterari nel nostro presente e capolavori letterari del passato con i quali conosciamo forse meglio la storia che attraverso saggi e manuali. Se la scuola ci ha aiutato a leggere i classici, affinato il gusto, possiamo continuare per conto nostro, magari rileggendo Dostoevskij o Verga in età avanzata, altrimenti saremo in balia del mercato.