Una bibliografia d’autore e un’intervista quasi immaginaria. Lettere di Eugenio Montale a Vittorio Pagano (Parte prima)

In questo campo sono notevoli anche altri lavori, come le traduzioni di testi medievali francesi, in particolare quelli di François Villon e la Chanson de Roland che escono proprio sull’“Albero”. Sempre come traduttore, vale la pena di ricordare che  Pagano collaborò anche nel 1958 al volume Poesia straniera del Novecento curato da Attilio Bertolucci e nel 1960 a L’idea simbolista di Mario Luzi. Nel 1956 cura la sezione letteraria della rivista giuridica leccese “Il Critone” che porta avanti fino al 1966 e che viene affiancata dalla collana dei “Quaderni del Critone”, dove hanno pubblicato, fra gli altri, Luzi, Betocchi, Bigongiari, Parronchi,  Bilenchi, Gatto, Fallacara, Macrì. Quest’ultimo è stato un po’ il suo mentore, colui che lo mise in contatto con i maggiori rappresentanti dell’ambiente letterario di Firenze, dove, com’è noto, il critico salentino, nativo di Maglie, viveva e operava. Documenta ampiamente questo rapporto il volume delle Lettere 1942-1978, scambiatesi tra i due, pubblicato qualche anno fa[3]. Nel 1958, nella collana “Quaderni del Critone”, esce la sua prima esile raccolta di versi, Calligrafia astronautica, a cui seguono i quattro volumetti, raccolti in cofanetto, de I privilegi del povero (1960), una scelta della sua produzione precedente dal 1939 al 1959, e poi il poemetto Morte per mistero (1963), sempre nelle Edizioni della rivista. L’ultima pubblicazione è Zoogrammi (1964), una plaquette di solo otto componimenti stampata sempre a Lecce, in soli tre esemplari. Tutta l’opera edita di Pagano, che ovviamente ha avuto una scarsissima diffusione anche a causa di queste autoedizioni, accentuando ancora di più la sua emarginazione, è ora nuovamente a disposizione di studiosi e lettori, essendo stata raccolta e edita di recente in un unico volume[4].

2. Come nasce il rapporto epistolare tra Montale e Pagano? Quest’ultimo, che era un grande ammiratore della poesia montaliana, nel 1942, a soli 23 anni,  sul “Meridiano di Roma” aveva pubblicato un articolo[5], che al poeta ligure non doveva essere sicuramente sfuggito, vista anche l’attenzione, sia pure dissimulata, con cui egli seguiva gli scritti che lo riguardavano. In effetti, questo pezzo, più che una recensione vera e propria, è una sorta di prosa lirica, di gusto ermetico anche nella tendenza verso un tipo di scrittura cifrata e allusiva, che prende spunto dal secondo libro montaliano per delle riflessioni di natura poetica ed esistenziale.

 Ma l’occasione specifica, piuttosto curiosa, di questo rapporto è costituita da una richiesta che la fidanzata di Pagano, poi diventata sua moglie, Marcella Romano, citata poc’anzi, aveva fatto a Montale attraverso di lui. Questa giovane, in procinto di laurearsi, aveva bisogno di informazioni sulla bibliografia delle opere e della critica di Montale che aveva scelto come oggetto della sua tesi di laurea, e decide di rivolgersi direttamente a lui. Ebbene, Montale non solo risponde in maniera estremamente cortese, con una lettera di quattro facciate dattiloscritte dai toni affabili e quasi paterni,  e delle aggiunte autografe alla fine in forma di note (anche se confessa di non essere «un buon corrispondente epistolare»), ma offre anche indicazioni preziose sulla critica che lo riguardava e implicitamente sulle sue stesse preferenze e avversioni in questo campo, nonché sulla sua stessa poetica. E, in effetti, è piuttosto sorprendente questo atteggiamento di grande disponibilità del poeta nei confronti di un giovane e sconosciuto poeta “provinciale” e della sua ancora più giovane fidanzata, atteggiamento che sarà simile anche nella seconda lettera, del mese successivo.

In questa prima missiva (19 gennaio 1948), intanto, Montale sostiene di conoscere «benissimo»  Pagano del quale – scrive ‒ gli aveva parlato il critico tarantino Giacinto Spagnoletti, che era in contatto con l’ambiente letterario leccese,  «in modo da destare la mia simpatia», facendo notare tra parentesi: «(Credo però che a Giacinto Lei sembrasse troppo caldo mio estimatore)». Probabilmente però, come s’è detto, non gli era sfuggito nemmeno l’articolo uscito sul “Meridiano di Roma” che era una rivista molto nota in quegli anni, continuatrice della “Fiera letteraria” e dell’“Italia letteraria”. Il primo scritto che indica, per quanto riguarda la conoscenza della sua poesia, è la famosa Intervista immaginaria, uscita due anni prima sulla “Rassegna d’Italia”, mentre per la bibliografia, rinvia a quella contenuta nell’antologia di Anceschi dei Lirici nuovi del 1942. Ma, dopo queste indicazioni che oggi possono sembrare un po’ scontate (ma non lo erano certo allora quando, non si dimentichi, erano rarissimi gli strumenti a disposizione di studiosi e studenti che volessero conoscere più a fondo la poesia di Montale), il poeta consigliava di aggiungere due saggi più recenti, entrambi apparsi nel 1947, che invece destano una certa sorpresa: Pascoli e Montale, apparso su “Convivium”, del giovane Pasolini «di cui – scrive ‒ si dice molto bene» anche se,  confessa,  «io non l’ho letto», e Interpretazione della poesia di Montale di Rina Virgillito, pubblicato su “Humanitas”, una poetessa, saggista e traduttrice oggi un po’ dimenticata ma che fu a lungo in rapporto con il poeta a cui negli ultimi anni dedicò anche un volume[6]. Non sorprende per niente invece il consiglio di leggere «la prefaz[ione] di Gianfranco Contini a un Choix de poémes di E[ugenio] M[ontale] uscita a Ginevra nel ’45». Successivamente forniva informazioni precise, indicando sede e data di pubblicazione, su alcune poesie uscite su varie riviste dopo Finisterre, che consigliava di «tener presente nell’ediz[ione] Barbera e non nella più smilza stampa di Lugano 1943». Poi accennava ad alcuni  progetti editoriali alcuni dei quali si realizzarono, altri no. Insomma un quadro completo, fino ad allora, della sua produzione che soltanto l’autore poteva fornire.

Successivamente dava altre indicazioni critiche, perché – scrive ‒  oltre ai nomi citati da Pagano nella lettera (che noi però non conosciamo),  «occorrerebbe tener conto dei giudizi di De Robertis, Gargiulo, Sereni, Solmi, Varese, Ferrata, forse Pancrazi, ecc.». E in questo elenco dove, come si può vedere, figurano alcuni capisaldi della prima critica montaliana, oltre a Contini citato prima, accanto a figure autorevoli, spiccano, da un lato, la presenza di un poeta, il giovane Vittorio Sereni, e, dall’altro, l’assenza dei maggiori esponenti della critica ermetica (Bo, Macrì, Bigongiari) ai quali non fa minimamente cenno.

A questo proposito, ancora più interessante è il riferimento, che Montale fa subito dopo, a due intellettuali di spicco di quel periodo, entrambi facenti parte dell’ambiente einaudiano, i cui nomi non figurano, per quanto ne sappia, nelle trattazioni sulla fortuna critica del poeta[7]. Uno è Felice Balbo, l’altro, Giaime Pintor, già scomparso giovanissimo. Ad essi egli si sentiva idealmente vicino per la forte tensione etica che li animava e che li accomunava a quella linea torinese-gobettiana della sua formazione. Infatti, così proseguiva: «Veda pure il giudizio espresso da Felice Balbo nel libro “Il laboratorio dell’uomo”, ed. Einaudi, 1947); notevole perché mi stacca nettamente dalla corrente ermetica, cosa in parte vera ma non tale da far piacere a coloro che (come l’amico Giacinto) pensano e sentono un po’ troppo per generi e per scuole». E in una nota manoscritta aggiungeva: «Era pure il pensiero di Giame Pintor».

In effetti, il primo, Felice Balbo, in un saggio compreso in quel libro, nell’ambito di un discorso più generale e ampio sul rapporto tra cultura e tecnica, metteva in rilievo la distanza che separava gli ermetici da Montale e la novità che rappresentava la poesia montaliana che aveva dato «parole alla realtà» dei tempi nuovi, come «è ed è sempre stata la cultura nel suo senso migliore», mentre aggiungeva «le parole che sorgono unicamente dalle parole significano gioco quando non si tratti di pazzia. E tale è la cultura decadente»[8]. Ecco il breve ma significativo accenno a Montale: 

Eppure oggi pochi ridono di compassione di fronte ai clan esistenzialisti ed ermetici i quali si trovano appunto in quella situazione. Oggi, ad esempio, il ‘mondo letterario’ copia Montale, e invece di apprenderne la lezione vera (per la quale basta leggerlo e non imitarlo) ne approfitta per arrivare presto al ‘piano di cultura’, senz’accorgersi che prima di tutto bisogna sentire il bisogno vero di liberazione. Quel vero bisogno (realtà che urge) che soltanto ha spinto Montale verso la scoperta del suo significato nella civiltà: l’aver dato parole a realtà contemporanee che non potevano essere raggiunte con le parole romantiche. Ma egli si liberò dal romanticismo perché sentì il suo, il nostro mondo di realtà ed esperienze nuove e non perché s’invaghì di un gioco delicato: e se avviò una nuova tecnica poetica questa trasse il suo valore dall’essere stata necessaria, letteralmente, per la vita dell’umanità[9].

E anche Giaime Pintor, nei suoi articoli raccolti poi nel volume Il sangue d’Europa, dimostra sempre grande stima di Montale che in effetti non accosta mai agli ermetici[10], in anni in cui invece in alcune monografie (si pensi a quella di Salvatore Francesco Romano, Poetica dell’ermetismo, del 1942 o a Ermetismo di Mario Apollonio, del 1945) Montale veniva fatto rientrare in quella corrente. Questo accostamento, com’è noto, è proseguito fino a tempi abbastanza recente e ancora oggi, ahimè, è presente in alcune antologie e manuali scolastici.

Un altro argomento affrontato nella lettera è un eventuale viaggio di Montale a Lecce, dove Pagano l’aveva invitato per tenere una conferenza con lettura delle sue poesie, a nome anche del Circolo artistico che si era costituito intorno a “Libera Voce”. L’anno precedente per un analogo motivo era stato nel capoluogo salentino Giuseppe Ungaretti proveniente da Taranto in compagnia di Spagnoletti e Pagano ne aveva parlato in un articolo apparso appunto sul settimanale leccese[11]. Ma Montale declina gentilmente l’invito, fornendo indicazioni preziose sulle sue abitudini di vita, ma anche su certe idiosincrasie, nonché su alcune vicende della sua vita, come il viaggio in Inghilterra che aveva in programma per il mese successivo, e non manca nemmeno un accenno al rapporto con Eliot:

Quanto a un mio viaggio a Lecce, Dio sa se mi piacerebbe metter piede in terre dove forse non verrò mai più e dove posso contare aficionados come Lei; ma per ora non ne vedo la possibilità. Il solo viaggio Firenze Lecce e ritorno (io non godo di riduzioni ferroviarie e cerco di non viaggiare in terza classe) sarebbe una grossa spesa. Inoltre il viaggio andrebbe spezzato ‒ con conseguente ulteriore dispendio. Farei certo fallire il Comitato che mi invita e grande sarebbe il discredito in cui incorrerebbe Vittorio Pagano. Peccato perché il testo (si tratta dell’auto-intervista citata, con molte poesie inserite e recitate) è di effetto sicuro. L’ho già letto nelle Università di Ginevra, Friburgo e Zurigo, con molto. In patria preferisco non esibirmi, ma Lecce è cosi fuori mano che molte mie prevenzioni cadrebbero. Ora che ho sentito Eliot recitare le sue poesie mi sono accorto che varrebbe la pena di emularlo (almeno in questo); ma dove se non a Lecce? Lei forse non si immagina quale sia l’ambiente letterario dei così detti grandi centri italiani. Meglio restarne fuori.

Nella seconda lettera, esattamente di un mese dopo (20 febbraio ’48), Montale ritorna su questi argomenti invitando Pagano a non far nulla per realizzare la conferenza che  «nelle attuali condizioni ‒ scrive ‒ sarebbe disastrosa per me e per il comitato [organizzatore]», anche perché ‒ lo informa – «sto per partire per l’Inghilterra e al mio ritorno mi fermerò, forse per mesi forse per sempre, a Milano», dove in effetti, com’è noto, egli si trasferì il mese successivo, essendo stato assunto come redattore al “Corriere della Sera”. Per quanto riguarda altre domande sulla sua poesia e sulla sua concezione della poesia che evidentemente gli aveva posto la fidanzata di Pagano, rimanda ancora una volta decisamente all’Intervista immaginaria del ‘46 «che pone con molta semplicità – scrive – il problema della mia poesia», per cui – commenta ‒  non conviene «intorbidarlo». Però poi aggiunge altre considerazioni molto significative:

In me le cosiddette ricerche della lirica moderna (da 150 anni ad oggi, ma in Italia da molto meno tempo) sono state fin dall’inizio bisogno fisico, fisiologico, impossibilità di esprimermi diversamente. Una calligrafia dell’anima, se vuole. Ora, tutte le domande rivoltemi peccano (nel mio caso) di intellettualismo. Non ho una estetica alla quale attenermi; non credo che la mia via sia buona per tutti. Se si vuol capire qualcosa nell’arte d’oggi bisogna decidersi a distinguere empiricamente (col fiuto dell’expert di pittura) fra originali e copie. Anche in poesia; soprattutto in poesia. Allora si assisterà al crollo dei problemi. Ma è molto più facile procedere per schemi, lo so,

dove spicca quella splendida definizione della ricerca poetica da lui condotta come «calligrafia dell’anima». E il rifiuto di una posizione prefissata nel campo dell’estetica permane anche in seguito in Montale che in una occasione dichiarò di «non essere affatto un poeta intenzionale, un poeta che parte da una “posizione estetica” già fissata in anticipo»[12].

[in “R-EM. Rivista internazionale di studi su Eugenio Montale”, n. 2-3/ 2021-2022, pp. 3-29]


[1] Cfr. Gino Pisanò, Montale, Pagano e la “donna dei fiori”, “Apulia. Rassegna trimestrale  della Banca popolare pugliese”, n. 2, 1998, pp. 117-124.

[2] Cfr. Vittorio Pagano, Antologia dei poeti maledetti. Versioni metriche, a c. di Simone Giorgino, con una prefazione di Antonio Prete, Nardò, Besa Muci, 2020.

[3] Oreste Macrì – Vittorio Pagano, Lettere 1942-1978. Con un’appendice di testi dispersi, a c. di Dario Collini, Firenze, University Press, 2016.

[4] Pagano, Poesia. Calligrafia astronautica. I privilegi del povero. Morte per mistero. Zoogrammi, a c. di Giorgino, Neviano (Lecce), Musicaos, 2019.

[5] Pagano, Da le “Occasioni” di Montale, “Meridiano di Roma”, 28 giugno 1942, p. 5.

[6] Rina Sara Virgillito, La luce di Montale: per una rilettura della poesia montaliana, Cinisello Balsamo, Edizioni Paoline, 1990.

[7] Si veda, ad esempio,  Riccardo Scrivano, Eugenio Montale, in I classici italiani nella storia della critica, vol III, Da Fogazzaro a Moravia, Opera diretta da Walter Binni, Firenze, La Nuova Italia, 1977, pp. 551-624 e Pietro Cataldi, La ricezione e la storia della critica, in Montale, Palermo, Palumbo, 1991, pp. 63-175.

[8] Felice Balbo, Il laboratorio dell’uomo, Torino, Einaudi, 1946, p. 31.

[9] Ibidem, p. 34.

[10] Cfr. Giaime Pintor, Il sangue d’Europa. Scritti politici e letterari (1939-1943), a c. di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, passim.

[11] Cfr. Pagano, Ungaretti tra noi,  “Libera Voce”, 24 maggio 1947. Ora in Macrì–Pagano, cit., pp. 214-216.

[12] In Ritratti su misura di scrittori italiani,  a c. di Elio Filippo Accrocca, Venezia, Sodalizio del Libro, 1960, p. 281.

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