«Conosco Maestri da mezzo secolo, osservo il suo lavoro con trepidazione, stupore e qualche timore, nel vederlo perseguire la sua ideale vocazione in un generoso disordine che lo porta a collaborare spesso con poeti e artisti, illustri bibliofili, inquieti e spericolati editori, in imprese bellissime ma al limite del disastro economico. […] A settant’anni [gli anni di Maestri], nelle stanze del suo Atelier del Libro, situato nel delizioso chiostro della Basilica del Carmine, fra pile di pagine di piombo, mentre termina di stampare sul suo torchio, Stanhope (1807), in cento esemplari l’edizione del Compendio delle stregonerie di Frate Francesco Maria Guaccio, Maestri si appresta, a distanza di quasi un trentennio dalla mostra del 1967 promossa dal Centro di Studi Grafici alla Civica Biblioteca Sormani, ad esporre i suoi lavori nella splendida Sala del tesoro della Biblioteca Trivulziana, con il patrocinio del Comune di Milano» (v. pp. 11 e 13). In realtà, il catalogo della Mostra del 1992 altro non era che la replica della stessa che si era già tenuta nel 1967 (con in più qualche esemplare stampato dopo quell’anno), dove era pubblicato uno scritto del critico d’arte Guido Ballo (Adrano, 1914 – Milano, 2010), che sosteneva:
«quando si guarda – e si tocca, per la consistenza della carta – un’edizione di Bertieri, di Preda, di Mardersteig, di Tallone, o di Maestri, si prova una gioia particolare: non si ha più la sensazione di
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essere fuori dalla cultura innovativa e di subire la tradizione. […] La formazione di Maestri, a parte la familiarità, fin dagli inizi, con la tipografia paterna, avviene del resto attraverso l’insegnamento di Giulio Preda [Pavia, 1911 – Gerba, 1972], il quale lo avvia a una pulizia grafica, a un ordine, che nascono da una chiara, coerente concezione morale più che estetica» (v. pp. 8-9).
Lo stesso Ballo, intervenendo, con una seconda introduzione – La “pagina” di Luigi Maestri – sul catalogo della mostra 1992, scriveva:
«L’umiltà, che gli fa calibrare la pagina e il libro come prodotto di rigoroso artigianato, ha permesso del resto a Maestri di sviluppare un costume tipografico più personale, anche se in apparenza mai invadente o clamoroso. I risultati suscitano alla fine meraviglia» (v. pp. 15 e 16). Personalmente conosco molte opere stampate da Luigi Maestri, che sono in elenco in quei due cataloghi, ed in esse non ho mai scorto un solo libro salentino; vi si citava solo un libro pugliese, quello di Alfredo Giovine, Proverbi pugliesi, edito da Aldo Martello Editore ma «impaginato da Luigi Maestri, composto e stampato dalle Arti Grafiche Italo-Svizzere-Artis, Milano, MCMLXX». Del celebre torcoliere milanese, il bibliofilo Armando Torno ha scritto:
«Maestri è nato in tipografia, è cresciuto in tipografia (anche se ha studiato a Brera e in Bocconi), la sua vita si riassume con l’arte della tipografia. E in tipografia ha ricevuto il mondo. Da lui si aggirava sempre Piero Chiara con qualche proposta. Dino Buzzati si appoggiava con i pugni sotto il mento sulla scrivania, Ungaretti voleva occhieggiare l’effetto di una certa pagina, Quasimodo giungeva accompagnato da…. È inutile tentare l’elenco. Perché è troppo lungo. Anche tra gli artisti i nomi non mancano. Si va da Minguzzi a Giò e Arnaldo Pomodoro, da Domenico Cantatore a Guido Somaré» (v. «Il Sole 24 Ore», 14 maggio 1989, p.21). Ma poi era proprio Luigi Maestri che, in un’intervista di Vittoria Palazzo, alla domanda «Come sei giunto a fare il tipografo?» raccontava:
«È una scelta d’amore, non di lucro. Mio padre aveva un’azienda tipografica, che poi dirigeva in fondo mia madre perché [lui] era sempre in giro per lavoro. Mia madre credo sia stata nel 1920 la prima femminista… Io studiavo al liceo scientifico avviato alle scienze naturali e alla medicina. Le scienze sono state e sono tuttora la mia passione. Però un giorno d’estate – allora si aveva un altro senso dell’educazione, disse: “non ammetto che adesso il signorino stia tre mesi a casa senza fare niente. Per piacere vieni là e mi dai una mano in tipografia!”. Mi mise a fare il garzone e poi a tirare il torchio. Ci presi subito gusto, mi innamorai di quell’odore d’inchiostro e di carta. Del resto, io ho sempre desiderato di fare dei libri, perché a me piaceva non solo scriverli, stamparli, vederli nascere, ma soprattutto desideravo fare il bel libro. Così a poco a poco ho cominciato ad appassionarmi di tipografia e a lavorare con papà per mio divertimento. Era comodo per me perché frequentavo la Bocconi: uscivo dall’ufficio in via Solferino e andavo in Largo Treves. Per un paio d’anni sono stato anche assistente del professor Borroni! Arriviamo al ’39-40 [ha 19-20 anni]: militar soldato, guerra, mi sono fatto tutta la guerra prima in Sicilia poi in Jugoslavia, ho combattuto i tedeschi, ho fatto il partigiano, sono stato preso dalle SS, che avevano ripulito tutta la tipografia e fatto prigioniero a San Vittore. Quando la guerra è finita, ho dovuto tirarmi su le maniche e ricominciare tutto d’accapo. […] Senza una lira ho aperto una mia tipografia cominciando con una vecchia macchina, poi due, tre, quattro, cinque, e sono andato avanti per vent’anni stampando monografie, libri d’arte, di poesia, saggi, cartelle d’incisioni, litografie, cercando di realizzare ogni volta il miglior libro possibile» (v. «il Subbio», mensile di arte, letterature, Rho-Milano, marzo 1975, p. 4). Tornando ai cataloghi, in essi non è citato il libro sugli affreschi di Santa Caterina di Galatina di Antonio Antonaci. Fatto apparentemente inspiegabile, ma non tanto, perché
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come poi mi confermarono gli eredi, in realtà Maestri non poteva, per motivi di spazio, esporre tutti i suoi libri torchiati. Personalmente sono stato impegnato letterariamente a Milano per quasi 50 anni, associato all’Associazione Aldus (Associazione internazionale di bibliofilia) fondata nel 1979 da Mario Scognamiglio e presieduta da Umberto Eco dal 1990. Per cui, nella mia assidua frequentazione bibliofilica della capitale delle librerie, delle tipografie, dei grafici, dei torcolieri, e quant’altro, consultando cataloghi e librerie antiquarie (in primo luogo la “Rovello”) era strano che non fossi riuscito a scoprire che il grande tipografo milanese avesse stampato un libro salentino com’è quello del nostro Antonio Antonaci. Mi appariva grande la distanza tra la Milano tipografica degli anni ’60 e il Salento degli scrittori di quell’epoca. Ma mi sbagliavo, perché, un giorno, contattato da Salvatore Coluccia e Giuseppe Serra, entrambi del Club per l’UNESCO di Galatina e della Grecìa Salentina, mi fu chiesto un consiglio tecnico su un libro dell’Antonaci, Gli affreschi di Galatina. Saggio di Storia e Filosofia dell’Arte.
Dato che Galatina – tra l’Otto e il Novecento – è stata la patria delle tipografie salentine, ho chiesto loro chi fosse lo stampatore-editore, aspettandomi di ricevere come risposta il nome di un Editore locale; quando invece mi hanno risposto: «Luigi Maestri di Milano», e avendo la possibilità di visionare il volume, non riuscivo a credere ai miei occhi: la firma e il marchio erano quelli di Luigi Maestri, con il colophon del volume che recitava:
«finito di stampare dalla Maestri Arti Grafiche nel mese di dicembre MCMLXVI».
Grande la sorpresa! Un autore galatinese – Antonio Antonaci – era riuscito a farsi stampare il suo libro da uno dei più grandi stampatori su torchio del Novecento. Uno stupendo volume Gli affreschi di Galatina, cartonato, formato mezzo folio (25 x 32), con in prima di copertina e, in un riquadro inciso, un’immagine a colori degli affreschi, incollata, stampato su carta speciale priva di ossidanti, con un inchiostro nitidissimo e caratteri corsivi e normali Garamond, un frontespizio che respira classicità. L’impostazione della pagina segue i canoni pacioliani della misura aurea, mentre i testi dell’autore si alternano a stupende immagini storiche quando in bianco e nero quando a colori. Si tratta, vista l’epoca della stampa, di un unicum eccezionale, che dà oggi ampiamente l’idea di come fossero gli affreschi a quel tempo, se raffrontati a come sono oggi dopo il restauro.
Nell’incipit c’è una dedica di Antonaci al «principe Alessandro Comneno d’Otranto, nella cui anima vibra la millenaria grandezza dei suoi Avi, e al cui mecenatismo si deve la presente pubblicazione; [all’]arcivescovo di Otranto, S. E. monsignor Gaetano Pollio, il quale affettuosamente mi ha incoraggiato e sostenuto nel “dubbioso calle” che ha portato alla realizzazione di un’opera che mi è tanto costata./ La mia riconoscente attenzione va anche al prof. Giacomo C. Bascapè, dell’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, e al bravo editore, dott. Luigi Maestri».
Dunque, non ci sono dubbi sullo stampatore, perché l’autore lo cita nella dedica. Quindi l’ha conosciuto di persona. A presentare il prezioso volume è lo storico, paleografo e sigillografo Giacomo Carlo Bascapè (Redavalle, 1902 – Scopello, 1993) che così scriveva:
«L’Antonaci esamina tali pitture ed istituisce un’attenta comparazione tipologica con altri affreschi del Salento; ne ricava constatazioni stilistiche ed apprezzamenti utili, che recano un contributo serio non solamente allo studio dell’argomento, ma in generale alla valutazione della pittura quattrocentesca pugliese. Egli vede nel fiorire della civiltà artistica di Galatina – che si manifesta in modo eccezionale nei dipinti citati – una singolare, viva ed efficace testimonianza dello svilupparsi del gusto,
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della cultura, della spiritualità del popolo salentino, dotato di una spiccata sensibilità che si potrebbe definire autoctona, nata in una zona felice del mondo classico, ove l’arte ed il pensiero greco si sono incontrati e fusi con quelli romani; il periodo bizantino ha tenuta viva la fiamma – mentre in altre aree d’Italia le invasioni barbariche cancellavano ogni luce – e gli ultimi splendori del Medio Evo e l’inizio del Rinascimento hanno trovato qui un terreno fertile e un ambiente preparato./ Devo infine notare che l’Autore, oltre ad esaminare le pitture in sé, sotto l’aspetto formale, stilistico, compositivo, ha tentato di delineare il fervore spirituale, il clima culturale ed artistico in cui quelle opere sono nate e l’ambiente che le ha godute ed apprezzate, come monumenti di fede e di bellezza; insomma egli ha delineato un profilo di filosofia dell’arte della sua terra./ E questa è una novità, degna di plauso».
Infine, della sua opera, «che gli è tanto costata», Antonio Antonaci scriveva:
«studiando l’iter architettonico e specialmente pittorico (noi ci fermeremo sul secondo) della chiesa cateriniana di Galatina, si può avere una guida ampia e maestra per seguire gli sviluppi della storia e della civiltà salentina: poiché l’Arte – e come! – costituisce un materiale fecondo per stabilire le determinazioni sociali d’un popolo e quindi formulare una sociologia della conoscenza». Ed ecco perché Cosimo De Giorgi, ne La Provincia di Lecce, II (1884), scriveva: «tutta la storia dell’arte e della civiltà di Galatina si potrebbe dire che si compendia nel tempio di S. Caterina”» (v. p. 4).
[in Antonio Antonaci, Gli affreschi di Galatina, Editrice salentina, Galatina 2023]