Racconti sovietici 5. Vipera (3)

Quando Olga Vjačeslavovna, fermandosi per un momento con il cavallo in una stazione impantanata di neve mista al letame, dove il reggimento scese dai convogli, guardava ad un cupo tramonto acceso rosso-carboneo e blu, nelle nubi di vento e sentiva il lontano fragore dei cannoni, tutto il suo futuro prossimo con un’incancellabile offesa ed un odio vendicativo le si sollevò dentro. «Basta fumare!.. A cavallo!..» – si sentì la voce di Emeljanov. Con un’abile mossa saltò in sella, la sciabola sbatté sul fianco… Adesso nessuno si permetterebbe di strapparle la camicia, di minacciarla con il pesetto da cinque libbre, non la trascinerebbe per le braccia nel sotterraneo! «Al trotto, marc’!…». Scricchiolò la sella, cominciò a fischiare il vento umido, gli occhi fissarono la purpurea ignota oscurità del tramonto. «Le briglia sono sciolte, le catene strappate, oramai non ci fermeremo più fino all’oceano» – le tornarono in mente, come un incantevole canto, le parole dell’amico amato… Così ebbe inizio la sua vita militare.

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Nello squadrone Olga Vjačeslavovna era nominata da tutti quanti come la moglie di Emeljanov. Ma non era una moglie per lui. Nessuno ci crederebbe, si sbudellerebbero dalle risa, se sapessero che Zotova era vergine. Ma lo nascondevano sia lei, sia Emeljanov. Essere considerata sua moglie era molto più comprensibile e semplice: nessuno cercava di toccarla, tutti sapevano che Emeljanov aveva un pugno pesante, lo dovette mostrare più di una volta, e Zotova rimaneva per tutti soltanto un buon compagno, un “fratello”.

La mansione di soldato d’ordinanza obbligava Zotova a trovarsi perennemente presso il comandante dello squadrone. Durante la marcia pernottava con lui nella stessa isba e spesso nello stesso letto: con le teste da due lati opposti, coprendosi ciascuno con il proprio pellicciotto. Dopo estenuanti marce di giorno, una cinquantina di verste, dopo aver prestato le cure necessarie al cavallo ed aver mangiato alla svelta qualcosa, Olga Vjačeslavovna si sfilava gli stivali, si sbottonava la pistagna della camicia di panno e si addormentava non appena si appoggiava su una panca, su un giaciglio sopra una stufa russa, sul bordo di un letto… Non sentiva quando si sdraiava Emeljanov, né quando si alzava. Come un animale selvaggio lui dormiva poco, come se tendesse l’orecchio ad ogni fruscio notturno.

Emeljanov la trattava in modo severo, nessun atteggiamento privilegiato nei confronti di altri combattenti, trovando da ridire perfino più spesso che su chiunque altro. Soltanto a questo punto lei comprese la vera forza dei suoi occhi da falcone, fieri e minacciosi: vi era racchiusa l’espressione della lotta. La bonarietà, l’ironia gli sparirono di dosso, nella campagna militare, insieme al grasso superfluo. Dopo una verifica notturna, trovando i cavalli a posto, i combattenti addormentati, gli avamposti e le guardie in allerta sulle postazioni, Emeljanov entrava nell’isba esausto, odorando fortemente di sudore, si sedeva sulla panca per sfilarsi con un ultimo sforzo gli stivali gonfi e spesso rimaneva così seduto a lungo, sfinito, con un gambale tolto a metà. Si avvicinava al letto e per un minuto guardava con tanto d’occhi il volto arrossato nel sonno, riarso dal vento, da donna e da bambina, di Olga Vjačeslavovna. I suoi occhi si annebbiavano, un sorriso pieno di tenerezza gli si stendeva sulle labbra. Ma per una mancanza, anche la più piccola, non avrebbe avuto pietà.

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Zotova stava portando un dispaccio al comando della divisione. Sopra la steppa, or verde or grigio-argentea per effetto dell’assenzio, il cielo sereno di maggio cantava con le voci delle allodole. Ribolliva il sangue del cavallo che, come un purosangue, trottava a passo ambio regolare. Gli scoiattoli gialli di terra, saltellando, attraversavano il sentiero. In una mattinata come questa si poteva dimenticare che c’era la guerra, che il nemico faceva arretrare e aggirava ai fianchi, che le divisioni di fanteria, rifiutando la battaglia, smantellavano i convogli e si ritiravano nelle retrovie, le città erano ridotte alla fame, nei villaggi imperversavano le rivolte. La primavera invece, come prima, adornava la terra di bellezza, turbava con i sogni. Persino il cavallo, fradicio di sudore per la scarsa razione di foraggio, sbuffava, mascalzone, guardava di sbieco con un occhio lilla, interessato al piacere dell’istinto.

Il sentiero proseguiva nei pressi di uno stagno, invaso per la metà da una macchia di carice, nelle cui acque si rifletteva un grinzoso dirupo calcareo. Il destriero ruppe l’andatura e si diresse verso l’acqua. Zotova smontò da cavallo, lo sbrigliò, dopodiché il destriero entrò nell’acqua sino alle ginocchia e si mise a bere, ma non appena fece un lungo sorso, alzò il suo muso liscio e, tutto scuotendosi, fece un forte inquietante nitrito. Subito dal saliceto al termine dello stagno si sentì un nitrito di risposta. Zotova velocemente lo imbrigliò, saltò sulla sella; fissando in quella direzione, tirò da dietro la schiena il calcio della carabina. Nel saliceto baluginarono due teste e sulla riva sbucarono fuori i cavalieri: due. Si arrestarono. Era una pattuglia. Ma di chi? La nostra o quella delle Guardie Bianche?

Il cavallo di uno chinò la testa nello scacciare un tafano dalla gamba, il suo cavaliere si sporse per riprendere una briglia, e sulla sua spalla brillò un’inconfondibile strisciolina dorata… «Sono “Bianchi”! Via, fuggire!». Olga Vjačeslavovna batté il cavallo con il fodero della sciabola, si appiattì sul garrese; e le volarono incontro i cespuglietti dell’assenzio, le lappole secche… Dietro la schiena sentì un pesante scalpitio di cavallo che le stava alle calcagna… Udì uno sparo… Di sbieco diede uno sguardo; uno dei cavalieri si diresse un po’ a destra nell’intento di tagliarle la strada. Il suo destriero baio-fiammante del Don avanzava come un levriero… Un altro sparo dietro… Con uno strappo si staccò dalla schiena la carabina, abbandonò le briglie. Il cavaliere sul destriero del Don galoppava ad una cinquantina di passi da lei. «Ferma, ferma!» – gridò minacciosamente, agitando la sciabola… Era Val’ka Brykin. Lo riconobbe, spinse il cavallo con l’interno del gambale, alzò di scatto il fucile e brillò un suo sparo di un odio cocente… Lo stallone del Don, dondolando con il muso, si impennò e subito stramazzò, schiacciando il cavaliere… «Val’ka! Val’ka!» – urlò selvaggiamente e gioiosamente; ed in quel minuto il secondo cavaliere la affrontò da dietro… Vide soltanto i suoi lunghi baffi, gli occhi grandi, spalancati per lo stupore: «Una femmina!» – e la sciabola di lui tintinnò debolmente sopra la canna della carabina di Olga Vjačeslavovna. Il cavallo con foga lo portò avanti. Nelle mani di lei non c’era più la carabina; probabilmente se ne era sbarazzata dopo lo sparo, o l’aveva fatto cadere (in seguito, nel raccontarlo, non poté ricordarlo); la sua mano avvertì il richiamo gravoso della lama della sciabola sguainata, la gola strillò nello spasmo, avviò il destriero all’inseguimento, raggiunse il cavaliere e, con ampio movimento del braccio, lo colpì. L’uomo baffuto si distese sopra la criniera, tenendosi con entrambe le mani la nuca.

Il destriero, respirando affannosamente, portava di corsa Olga Vjačeslavovna lungo la steppa d’assenzio. Si accorse che continuava a stringere l’elsa della lama della sciabola. Con uno sforzo, non riuscendo a lungo a centrare il fodero, riuscì finalmente a rimetterla dentro. Poi fermò il cavallo; il dirupo calcareo, il laghetto erano rimasti laggiù a sinistra, oramai lontani. La steppa era desolata, nessuno la inseguiva, gli spari erano cessati. Nello splendente azzurro del cielo risuonava un dolcissimo canto di allodole, come nell’infanzia. Olga Vjačeslavovna afferrò la camicia sul petto, con le dita si strinse la gola, timorosamente cercò di trattenersi, ma non ci riuscì: si sciolse in lacrime e, piangendo, tremò sulla sella.

Più tardi, andando verso il quartier generale della divisione, a lungo ancora si asciugava rabbiosamente gli occhi, alternando le mani strette a pugno.

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Nello squadrone obbligarono Zotova a raccontare centinaia di volte questa storia. I soldati ridevano a crepapelle, giravano le teste, cascavano dalle risa.

«Ahi, gente, non ne posso più, c’è proprio da morir dal ridere! Una femmina ha fatto fuori due uomini!..»

«Aspetta, com’è che era, racconta: allora lui si avvicina a te di corsa da dietro e all’improvviso grida: “Una femmina!“»

«E quant’erano lunghi i suoi baffi?»

«Ha strabuzzato gli occhi dallo stupore!»

«Non riuscì ad alzare la mano contro una donna?»

«Si sa!»

«E tu, invece, a lui un colpetto sulla nuca… Ohi, ragazzi, tenetemi, se no cado… Un cavaliere, un damerino del cavolo, arrivato al volo!»

«E poi, tu, che hai fatto?»

«Cosa ho fatto, cosa ho fatto?» – rispondeva Olga Vjačeslavovna. «E’ naturale, no: ho ripulito la lama e di corsa a consegnare il dispaccio al comando della divisione.»

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La vita militare di marcia comportava una considerevole, insidiosa scomodità: Olga Vjačeslavovna non riusciva a vincere il pudore. Soprattutto si vergognava stizzosamente, quando nelle calde giornate lo squadrone riusciva a buttarsi in un fiume o in un laghetto; i soldati tutti nudi, negli arcobaleni del pulviscolo d’acqua, con risate fragorose e strilli entravano nell’acqua in groppa ai cavalli dissellati. Zotova era costretta a scegliersi un qualche posticino in disparte, dietro a qualche cespuglio, o alle canne. Le gridavano: «Non fare la scema, legati qualche straccio addosso e vieni con noi!»

Emeljanov rigorosamente osservava la pulizia personale e l’accuratezza nello squadrone. «Un cavalleggero con un brufolo sulla natica è messo fuori combattimento» – diceva spesso. «Se sei un cavalleggero vero, allora curati maggiormente il sedere. E quando le circostanze lo permettono, d’estate e d’inverno, un quarto d’ora di ginnastica, poi sciacquati con l’acqua fredda vicino al pozzo.»

Sciacquarsi al pozzo anche diveniva alquanto difficile per lei: doveva alzarsi prima di tutti gli altri, correre sulla rugiada fredda, quando appena appena albeggia il mattino con uno squarcio vermiglio nelle nubi stratiformi e nelle nebbie. Un giorno tirò dal pozzo con una gru lamentosamente scricchiolante un secchio d’acqua fragrante, lo sistemò sul bordo del pozzo, si spogliò rabbrividendo leggermente per l’umidità nell’aria; e sentì qualcosa che sfiorava impercettibilmente la sua schiena.

Si voltò: sul terrazzino d’ingresso all’isba stava fermo Dmitrij Vassiljevič, scrutandola con uno sguardo strano. Lei allora andò lentamente dietro il pozzo e lì si accovacciò in modo che rimasero visibili soltanto i suoi occhi fissi. Se si fosse trattato di uno qualsiasi dei compagni, gli avrebbe gridato semplicemente: «Che diavolo stai guardando, stupido, voltati!». Ma in questo caso la sua voce rimase nella gola secca per la vergogna e l’emozione. Emeljanov strinse le spalle, sorrise ed andò via.

Il caso era in sè insignificante, ma tutto cambiò da quel momento. Tutto all’improvviso divenne complicato; perfino le cose più semplici. Lo squadrone si era accampato per la notte nei cascinali bruciati, per dormire c’era un solo letto, come spesso accadeva. Quella notte Olga Vjačeslavovna si sdraiò proprio sull’orlo, sopra una gualdrappa dall’odore di cavallo ed a lungo non riuscì a addormentarsi, anche se con tutte le forze stringeva le palpebre.  Tuttavia non sentì quando venne Emeljanov. Quando all’alba la svegliarono i canti del gallo, vide che lui stava dormendo sul pavimento vicino all’uscio… Svanì la semplicità… Durante le conversazioni Dmitrij Vassiljevič si accigliava, rivolgeva lo sguardo altrove; lei avvertiva sul volto di lui, sul volto proprio, la stessa tesa, finta maschera. Ciononostante visse quei tempi, quei momenti ebbra di felicità.

Fino ad allora, Zotova non aveva preso parte ad una vera azione militare. Il reggimento insieme alla divisione aveva continuato sempre a retrocedere al nord. Durante le brevi battaglie, il suo posto era costantemente vicino al comandante dello squadrone. Ma ecco che da qualche parte sul fronte successe un grosso guaio; nelle file delle Guardie Rosse iniziarono a parlarne in modo sommesso e preoccupato. Il reggimento ricevette un ordine: rompere la linea nemica, colpire nelle retrovie e di nuovo sfondare sul fianco estremo dell’armata. Per la prima volta Olga Vjačeslavovna sentì la parola “incursione”. Si misero in marcia immediatamente. Lo squadrone di Emeljanov avanzava per primo. Verso la notte si fermarono nel bosco non sbrigliando i cavalli, senza accendere i fuochi. Una tiepida pioggia frusciava sopra le foglie, nel buio non si distingueva nulla alla distanza di un braccio. Olga Vjačeslavovna stava seduta sul ceppo di un tronco d’albero, quando un’affettuosa mano le si appoggiò sopra le spalle; lei capì, sospirò, rovesciò la testa. Dmitrij Vassiljevič, inchinandosi, chiese: «Non avrai paura? Bene, bene, ma stai attenta… Tieniti più vicino a me…»

Si sentì un sommesso comando, silenziosamente i combattenti si misero in groppa dei cavalli. Olga Vjačeslavovna avviò il suo destriero a caso e sfiorò con una staffa Dmitrij Vassiljevič. A lungo si snodarono i cavalli al passo. Sotto gli zoccoli scalpicciava la fanghiglia, nell’aria si sprigionava l’odore dei funghi. Poi nella fitta oscurità si distinsero offuscati spiragli di luce; il bosco iniziò a diradarsi. Da destra, molto vicino, scagliarono contro lo squadrone aghi infuocati, spari fragorosi rimbombarono nel bosco di latifoglie. Emeljanov con un urlo prolungato, ordinò: «Le sciabole giù, al galoppo, avanti marc’!..». I rami bagnati frustavano il volto, i cavalli, facendosi largo nella mischia, rantolavano, le ginocchia sbattevano contro gli arbusti degli alberi. E subito una grigia, nebbiosa, scoscesa radura si aprì davanti agli occhi, dove, come una forza della natura, galoppavano già le ombre dei cavalieri. La riva del fiume si troncò con un dirupo. Olga Vjačeslavovna diede di sprone ed il destriero, raccogliendo il deretano prima del salto, si buttò nel fiume…

Il reggimento si aprì la strada nelle retrovie nemiche. Cavalcarono nel buio sotto le nubi basse; la steppa risuonava al fragor degli zoccoli di alcune centinaia di cavalli. Al galoppo, intonarono ad intermittenza le cornette dei trombettieri. Partì l’ordine di smontare da cavallo. Agli squadroni furono distribuiti le spalline ed i fregi per i copricapo militari delle Guardie Bianche. Emeljanov raccolse attorno a sé i suoi combattenti dell’Armata Rossa.

«Allo scopo di mascheramento, adesso noi siamo un reggimento riunito dell’Armata Nordcaucasica del tenente generale, barone Vrangel. E’ chiaro, figli di una gallina? (I combattenti scoppiarono in una risata fragorosa.) Chi sta ridendo, un pugno in bocca, silenzio; per voi adesso non sono più il “compagno comandante”, ma la “vostra signoria signor capitano”. (Sfregò un fiammifero, sulla sua spalla brillò una spallina dorata con un filo chiaro.) Voi non siete più i “compagni”, ma i “gradi inferiori”. Quindi, stare sull’attenti, fare il saluto militare, dare del voi.» «Silenzio, sull’attenti! E’ chiaro?». Tutto lo squadrone strepitava; si raddrizzavano sull’attenti, si toccavano la visiera, alla “vostra signoria” aggiungevano le colorite paroline popolari. «Cucitevi le spalline, la stella rossa in tasca, il fregio sul berretto a visiera…»

Tre giorni e tre notti cavalcò precipitosamente il reggimento per le retrovie di Vrangel, sollevando dietro alle proprie orme colonne di fumo. Bruciavano stazioni ferroviarie, convogli, depositi militari, saltavano in aria stazioni di pompaggio d’acqua e polveriere. Al quarto giorno le forze di cavalli vennero meno, cominciarono ad inciampare e nelle fattorie di uno sperduto villaggio fu fatta la sosta in pieno giorno. Olga Vjačeslavovna, non appena ebbe prestato le cure necessarie al suo destriero, mise un piede sopra uno strato di fieno, vi si fece cadere e si addormentò. La svegliò una forte risata femminile: una florida contadina, con una gonna nera girata al di sopra dei polpacci, diceva a qualcuno, indicando Zotova: «Ma guarda, che carino…». La donna stava stendendo nel cortile le pezze da piedi lavate di qualcuno.

Quando Olga Vjačeslavovna entrò nell’isba, vicino al tavolo stava seduto Emeljanov con il viso gonfio di sonno, allegro, le piume tra i capelli, a piedi scalzi. Quindi erano le sue pezze da piedi che erano state lavate.

«Siediti, adesso portano il boršč_. Vuoi della vodka?» – disse ad Olga Vjačeslavovna.

La stessa florida contadina entrò con una pignatta di ghisa piena di boršč tra le mani, girando una gota arrossata dal vapore fragrante. Sbatté, appoggiando la pignatta proprio sotto il naso di Emeljanov, mosse dolcemente la spalla tonda: «E’ come se aspettassimo voi, vede, la minestra è già pronta…» – la voce sibillina, cantilenata, vivace, sfacciata… «Le ho lavate le sue pezze da piedi, non farà nemmeno in tempo ad accorgersene e saranno asciutte…» – e con gli occhi da cagna in calore sfiorò Dmitrij Vassiljevič.

Lui mangiava, facendo rumorini, sorbendo il brodo a lunghi sorsi e dal modo in cui stava seduto, traspariva un’insolita compiaciuta indulgenza d’approvazione.

Olga Vjačeslavovna lasciò il cucchiaio; una serpe velenosa le aveva dato un morso al cuore; rimase esanime, abbassò gli occhi. E non appena la donnetta con movimenti contorti, ancheggiando, uscì fuori dalla porta, la raggiunse di corsa nel vano antiporta, la prese per un braccio e, ansando, le sussurrò: «Ma dimmi un po’: sei stanca di vivere?..»

La contadina esclamò “ah”, strattonò con forza il braccio, si liberò e fuggì.

Dmitrij Vassiljevič più di una volta diede una perplessa occhiata ad Olga Vjačeslavovna: chissà che razza di mosca le era saltata sul naso? Ma prima di partire, nel momento di montar in sella del destriero, vide i suoi occhi furiosi ancor oscurati, le narici gonfie e dietro ad un angolo lo sguardo intimorito della stessa contadina che sbirciava come un ratto; aveva capito tutto, fece una fragorosa risata, quella di prima, di una volta, con tutto il largo sorriso della sua smagliante dentatura. Passando attraverso il portone della fattoria, sfiorò con un ginocchio quello di Olečka e, con un’inaspettata dolcezza, disse: «Ma che razza di scema sei…»

Poco mancò che lei non scoppiasse in lacrime.

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Al quinto giorno venne fuori che un intero reggimento di cosacchi bianchi stava alle calcagna del camuffato reggimento delle guardie rosse. Nel seminare il nemico, procedeva adesso a pieno ritmo, abbandonando i cavalli esausti. All’avanzar della notte, ebbe inizio un combattimento di retroguardia. La bandiera del reggimento fu affidata allo squadrone di testa. Senza mai fermarsi, a passo sostenuto, entrarono in un villaggio sconosciuto senza neanche l’ombra di una luce. Ululavano i cani, tutt’attorno sembrava spopolato, soltanto sul campanile rimbombò un tocco di campana e subito tacque.

Condussero due popolani del posto, scovati in mezzo alla paglia, che erano talmente irsuti da sembrare dei veri spiriti del bosco. Voltandosi verso i cavalleggeri che li stavano accompagnando, non riuscivano spiccicare altro che: «Ragazzi, cari, abbiate pietà, non ci ammazzate…»

«Con chi si è schierato il vostro villaggio: con le Guardie Bianche o con il Potere Sovietico?» – urlò Emeljanov, chinandosi dalla sella.

«Ragazzi, cari, non lo sappiamo neppure noi stessi… Ci hanno preso tutto, saccheggiato, devastato, ogni cosa hanno mandato in rovina…»

In ogni modo si riuscì a sapere da loro che fino ad ora il villaggio non era stato occupato da nessuno, che, effettivamente, si attendeva l’arrivo dei cosacchi di Vrangel e che dall’altra sponda del fiume, oltre il ponte ferroviario, nelle trincee si trovavano i bolscevichi. Il reggimento si tolse le spalline dorate, si attaccò le stelle rosse, attraversò il ponte e si unì ai compagni. Qui si viene a sapere che lungo tutto il fronte le armate dei Bianchi attaccavano come forsennate, ma che c’era un ordine: piuttosto la morte anziché mollare il ponte al nemico; invece per combattere non c’era nulla: i nastri di cartucce per le mitragliatrici erano tutti fuori misura, nelle trincee i pidocchi la facevano da padrone, mancava il pane, i soldati dell’Armata Rossa, a furia di mangiar cereali lessi, erano affetti da asciti, erano gonfi a più non posso, e, non appena arrivava l’oscurità della notte, disertavano in massa; avevano un agitatore politico, ma purtroppo anche quello era morto per la dissenteria.

Il comandante del reggimento parlò sul filo diretto con il comandante in capo supremo; veramente l’ordine fu dato di difendere il ponte fino all’ultimo sangue, finché l’Armata Rossa non fosse uscita dall’accerchiamento.

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«Non usciremo vivi da qua» – disse Emeljanov.

Attinse dal fiume due gavette d’acqua, una la diede ad Olga Vjačeslavovna e, accovacciandosi vicino, si mise a fissare l’incerto contorno della sponda lontana. Un’opaca stella giallognola si affacciò sul fiume dal cielo. Per tutto il giorno le batterie di Vrangel a raffiche di fuoco demolirono le trincee dei bolscevichi. Di sera arrivò un altro ordine: forzare il ponte, respingere i Bianchi dal fiume ed occupare il vicino villaggio.

Olga Vjačeslavovna seguiva con lo sguardo un immobile riflesso appannato della stella sull’acqua che trasmetteva angoscia.

«Su, andiamo, Olja,» – disse Dmitrij Vassiljevič, – «dormiamo    un’oretta.». Fu la prima volta che la chiamò solo per nome in diminutivo.

Da dietro i cespugli sulla riva scoscesa uscivano strisciando, quatte quatte, le sagome dei soldati Rossi: per tutto il giorno era stato impedito l’accesso al fiume, nessuno aveva avuto un goccio d’acqua da bere. Ognuno oramai sapeva dell’ordine terribile. Per molti quella notte sembrava l’ultima.

«Dammi un bacio» – disse Olga Vjačeslavovna con un’ansia latente nella voce.

Dmitrij Vassiljevič mise per terra la gavetta piena d’acqua; la attirò a sé per le spalle, il berretto di lei scivolò via, si chiusero gli occhi; e si mise a baciarle gli occhi, la bocca, le guance.

«Ti farei diventare mia moglie, Olja, ma non si può adesso come adesso, lo capisci…»

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Gli attacchi notturni furono respinti. Le Guardie Bianche avevano fortificato il lato opposto del ponte con il filo spinato e lo difendevano per tutta l’estensione a raffiche di mitra. Un’alba grigia sorse sopra un fiume nebbioso, al di sopra dei prati umidi. Il terreno su entrambe le rive rimbalzava in aria ogni minuto come se crescessero i cespugli neri. L’aria fischiava e ululava, a nuvolette fitte brillava schrapnel. Il fragore inebetiva gli uomini. Una moltitudine di corpi, a braccia e gambe allargati, con volti per terra, rimasero distesi vicino al ponte. Ogni tentativo di prenderlo fu inutile. Gli uomini non riuscivano più a sollevarsi per andare di petto contro il fuoco rovente delle mitragliatrici nemiche.

Allora dietro al terrapieno ferroviario otto attivisti del partito comunista, in sella ai cavalli, si radunarono sotto la bandiera rossa del reggimento; strappata e forata dai proiettili. La bandiera nelle luci dell’aurora aveva il colore del sangue. Due squadroni montarono in sella ai destrieri. Il comandante del reggimento disse: «Si deve morire, compagni» – e si mise in prima persona sotto la bandiera. Uno di quegli otto era Dmitrij Vassiljevič. Sguainarono le sciabole, diedero di sprone, uscirono da dietro il terrapieno e, con una pesante andatura di carriera, si avviarono sopra le risuonanti assi di legno del ponte.

Olga Vjačeslavovna vide: ecco, il destriero di uno di loro era crollato sul parapetto del ponte ed il destriero insieme al cavaliere volavano giù dall’altezza di dieci sagene nel fiume. In sette arrivarono a metà del ponte. Ancora uno di loro, come fosse addormentato, cadde dalla sella. Quelli davanti invece riuscirono ad arrivare alla fine del ponte e con le sciabole stavano spaccando il filo spinato. Un alto combattente della Guardia Rossa oscillò, la bandiera rossa nelle sue mani s’inclinava, la acchiappò nella caduta Emeljanov, e subito il suo cavallo si mise a dibattersi.

Le pallottole fischiavano di un’arroventata musica. Olga Vjačeslavovna, come il vento, cavalcava sulle assi di legno distanziate del ponte, al di sopra di un precipizio da capogiro. In uno slancio, seguendo Zotova, risuonarono, tremarono le strutture di ferro del ponte, in centocinquanta voci urlavano a squarciagola i combattenti. Dmitrij Vassiljevič rimaneva fermo a gambe larghe, tenendo davanti a sé l’asta della bandiera rossa, il suo volto era morto, dalla bocca aperta usciva una lenta scia di sangue. Cavalcando vicino, Olga Vjačeslavovna gli strappò dalle mani la bandiera. Lui oscillò verso il parapetto del ponte, si sedette. Balenarono davanti agli occhi gli squadroni; le criniere dei cavalli, le schiene curvate, le lame rilucenti.

Tutto si riversò dall’altra parte; il nemico fuggì, tacquero i cannoni. A lungo ancora, sopra una fiumana di cavalieri lungo un immenso campo, sventolava, per poi sparire oltre i vetrici del villaggio, la bandiera rossa del reggimento ridotta in brandelli; adesso la portava un giovane soldato dell’armata rossa con un largo faccione, che spronando il suo cavallo coi talloni a piedi nudi e sventolando l’asta della bandiera, gridava: «Forza fratelli, avanti, abbattiamoli tutti!..»

Raccolsero sul campo Olga Vjačeslavovna; stordita per la caduta dal cavallo e fortemente ferita ad un’anca. I compagni dello squadrone sentivano tanta compassione per lei, non sapevano neppure come darle la brutta notizia che Emeljanov era stato ucciso. Mandarono una deputazione dal comandante del reggimento con la richiesta di insignire Zotova per l’eroismo. Pensarono a lungo con che cosa? Un portasigari – non fuma, un orologio – non è da femmine portarlo. Nella sacca di un cavalleggero trovarono una spilla d’oro puro: un cuore trafitto da una freccia. Il comandante del reggimento accordò senza obiettare quest’onorificenza, ma espresse una clausola nell’ordine scritto: «Per l’eroismo, insignire la compagna Zotova con una spilla d’oro: la freccia. Togliere il cuore invece, in quanto è un simbolo borghese…».

(continua)

[Traduzione dal russo di Tatiana Bogdanova Rossetti]

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