Racconti sovietici 5. Vipera (2)

Alcuni giorni più tardi, gli disse: «Due di quelli non li conosco, erano certi individui con i pastrani militari… Il terzo invece lo conosco. Una volta perfino avevo ballato con lui… Uno studente, Val’ka, un liceale… Ho sentito come loro ammazzavano il papà e la mamma… Le ossa scricchiolavano… Dottore, perché è successo? Ma che bestie feroci!»

«Pst! Pss!» – la calmava il medico preoccupato, i suoi occhi erano bagnati dietro gli occhiali.

Nessuno veniva a trovare Olečka Zotova all’ospedale; i tempi erano diversi, si pensava a tutt’altro: l’intera Russia era straziata sotto le grinfie di una guerra civile, un’esistenza solida cadeva a pezzi e si sgretolava; una furiosa, violenta rabbia si sprigionava ed imperversava nelle parole dei decreti, nei proclami dei manifestini bianchi, nei fitti motti dovunque si posasse lo sguardo del passante. Ad Olečka non rimase altro che piangere notte e giorno per un’insopportabile pena (negli orecchi era rimasto vivo un terribile grido del padre: «Basta, smettetela!», un urlo selvaggio della madre, che mai in vita sua aveva gridato in quel modo), per la paura che la assillava per come avrebbe potuto vivere ora, per la disperazione davanti all’oscuro che romba, urla e spari durante le notti dietro alle finestre dell’ospedale.

In quei giorni, probabilmente, esaurì le lacrime assegnatele per la vita intera. Fu stroncata tutta d’un tratto la sua serena, spensierata giovinezza. L’anima si ricoprì di grosse cicatrici, come una ferita in via di guarigione. Non poteva sapere ancora l’entità vera delle forze occulte e ardenti che le si celavano dentro.

Un giorno nel corridoio, sulla panchina vicino a lei, si sedette un uomo con un braccio fasciato. Indossava una vestaglia, le braghe e le ciabatte dell’ospedale, ciononostante un’allegra calda salute si sprigionava da lui come da una rovente stufa di ferro. Appena percettibile fischiettava un motivetto dei marinai, “Mela-melina”, battendo il ritmo coi talloni nudi. I suoi fieri e minacciosi occhi grigi, più volte si spostarono in direzione della bella ragazza. Il largo volto abbronzato, ricoperto sulle mascelle da una barbetta mai rasata, esprimeva noncuranza e perfino indolenza, soltanto erano molto severi gli occhi grigio-acciaio, da falcone.

 «Dal venereo?» – domandò con indifferenza.

Olečka non comprese, poi tutta arrossì per l’indignazione: «Mi stavano uccidendo, ma non mi uccisero; ecco perché mi trovo qui.» Si scostò sulla panchina, cominciò a respirare gonfiando le narici.

«Oh, mamma mia, che guaio! E’ successo per qualche giusta causa, o si è trattato dei banditi? Mi dica!»

Olečka lo fissò: era mai possibile che potesse fare domande così, come se si trattasse di una cosa naturale, semplicemente per passatempo…

«Ma come, non le è capitato di sentire di noi? Della famiglia Zotov, di via Prolomnaja?»

«Ah, ecco che cos’è! Ricordo… Che dire, lei si vede è una ragazza battagliera; non si è piegata… (Corrugò la fronte.) Invece quella gente bisogna bruciarla nel fuoco, bollirla dentro le caldaie di cottura, allora, forse, arriveremmo a qualcosa… Quanto di questo elemento marcio è uscito fuori, più di quel che credevamo, da mettersi le mani nei capelli. E’ un disastro. (I suoi occhi freddi esaminarono Olecka con un’occhiata.) Ecco, certamente, la rivoluzione lei la percepisce soltanto attraverso la violenza subita… Peccato però. E’ di una famiglia dei seguaci della setta dei vecchi credenti? Crede a Dio? Niente male, questo si appianerà. (Con un pugno batté sul bracciolo della panchina.) Ecco in che cosa bisogna credere: nella lotta!»

Olečka voleva rispondergli con qualcosa d’astioso, perfino cattivo, ma indubbiamente giusto, dal più profondo di tutta la devastazione degli Zotov; ma, sottoposta ad un suo ironico sguardo d’aspettativa, tutti i suoi pensieri lievitarono e si afflosciarono, non arrivando alla parola.

Lui disse: «E’ questo il punto… Però, quanto è calda la puledrina! E’ una purosangue russa con un accenno zigano… E pensare che avresti potuto vivere come tutti; la vita avresti fatto sfuggire, guardando nella finestra da dietro un ficus… Una noia…»

«E’ più allegro com’é adesso?»

«Eccome, se è allegro! E’ arrivata l’ora per darsi ad una vita vera, sregolata con i fiocchi, non si può mica sempre schioccare le pallottole del pallottoliere…»

Olečka si indignò di nuovo, e di nuovo non disse nulla; scrollò le spalle: era un tipo troppo sicuro di sé… Soltanto brontolò: «Tutta la città avete mandato in rovina, e tutta la Russia devasterete e saccheggerete, svergognati…»

«Scherza, la Russia solo… Tutto il mondo in groppa dei destrieri miriamo attraversare… Le briglia sono sciolte, le catene strappate, oramai non ci fermeremo più fino all’oceano… Volente o nolente, ma la strada è con noi.»

Chinandosi verso di lei, fece un largo sorriso, in una sfrenata allegria gli brillarono i denti. Ad Olečka venne un capogiro, come se avesse sentito già, tempo fa, parole come queste, si ricordasse questo digrignamento dei bianchi denti, come se una reminiscenza si sollevasse dall’oscurità del suo sangue, e le voci delle remote generazioni urlassero: «A cavallo! Vai, sfogati l’anima!..». Un capogiro, e di nuovo: sta seduto un uomo con un braccio fasciato… Solo che mi scaldò il cuore, è inquietante; per qualche ragione, costui dagli occhi grigi divenne intimo… Lei si accigliò e si spostò sul limite della panchina. Lui invece, fischiettando, si rimise a battere il ritmo con un tallone…

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Tutto qua; quattro chiacchiere per noia nel corridoio di un ospedale. Un uomo fischiettò e, fischiettando, se ne andò. Olga Vjačeslavovna non seppe nemmeno il suo nome. Quando, il giorno dopo, lei si sedette nuovamente sulla stessa panchina e volse lo sguardo al fondo del soffocante corridoio afoso, valutando mentalmente, in modo attento, tutte le argomentazioni persuasive da esporgli, qualcosa di intelligente, per fargli scrollare di dosso tutta la presunzione, ma lui non arrivava mai, al posto suo arrancavano certi altri con le grucce, all’improvviso capì chiaramente d’essere terribilmente scossa da quell’incontro. Aspettò ancora, probabilmente, appena appena un minuto; le vennero le lacrime agli occhi dall’offesa, poiché lei stava qui, aspettando e a lui, invece, non gli importava niente. Andò via, si sdraiò sul lettino dell’ospedale ed iniziò a pensare, al suo riguardo, ogni sorta di cose ingiuste che le passassero in quel momento per la testa. E tuttavia perché, come riuscì a suscitarle tutte queste emozioni?

Molto più dell’offesa la tormentava questa curiosità; almeno di sfuggita dargli un’occhiata ancora: rendersi conto di com’è? Non avrà certamente niente di particolare… Un milione di deficienti come lui… E’ certamente un bolscevico… Un brigante… E gli occhi, ma che occhi: insolenti, sfacciati… E faceva penare l’orgoglio di ragazza: pensare ad uno come questo per tutto il giorno! Per uno come questo serrare nel tormento le dita!..

In piena notte l’ospedale fu svegliato. I dottori, gli infermieri correvano agitati; venivano trascinati i fagottoni della biancheria. I pazienti spaventati stavano seduti sui letti. Dietro alle finestre si sentiva il rumore delle ruote dei carri e rimbombavano furiose imprecazioni. A Kazan entravano i soldati cechi. Le guardie rosse sgombravano frettolosamente la città. Tutti quelli che erano in grado di camminare, lasciarono l’ospedale. Olga Vjačeslavovna rimase, di lei nessuno si ricordò.

Con le prime luci dell’alba lungo il corridoio dell’ospedale si sentì un fragore di calci di fucili dei pettoruti cechi con le nuove divise straniere. Stavano trascinando a forza qualcuno; la voce rotta di un assistente dell’amministratore capo, si mise a strillare: «Sono un dipendente dell’ospedale, non sono un bolscevico… Lasciatemi, dove mi state portando?». Due paralitici, avvicinandosi strisciando alla finestra che dava sul cortile, comunicarono sussurrando: «Trascinano il poveretto nella legnaia per impiccarlo…»

Olga Vjačeslavovna si vestì; indossò un vestito grigiastro che le avevano dato all’ospedale, nascose con un fazzoletto bianco la benda in testa. Il suono delle campane in festa si sollevò sopra la città. Sorse l’aurora. Risuonavano, a tratti più forti, a tratti attenuandosi, le trionfanti marce militari dei reggimenti che facevano ingresso nella città conquistata. In lontananza, oltre la riva opposta del fiume Volga, echeggiava, allontanandosi, il fragore dei cannoni.

Olga Vjačeslavovna uscì dalla corsia. All’angolo del corridoio fu fermata da una pattuglia; due soldati cechi, entrambi coi baffi e le gambe corte, producendo un’infinità di suoni sibilanti alla loro maniera, le intimarono di tornare indietro. «Non sono una prigioniera, sono russa!» – urlò loro Olga Vjačeslavovna, con gli occhi risplendenti d’ira. Risero, allungarono le mani per un pizzicotto alla guancia, al mento… Non poteva mica farsi strada andando con il petto contro le baionette sguainate. Dovette tornare in corsia, gonfiando le narici di rabbia, si sedette sul letto, i denti picchiettavano in un fitto tremolio.

Nella mattinata gli ammalati non ricevettero la colazione, ebbe inizio il mormorio. Nell’ora di pranzo i cechi presero cinque uomini della guardia rossa con amputazioni. I paralitici alla finestra dissero che i poveretti furono condotti nella legnaia. Più tardi nella corsia entrò un ufficiale russo, stretto da un cinturone alto in vita e con i calzoni militari a sbuffo, tanto larghi, da sembrare delle ali di un pipistrello. Gli ammalati si tirarono addosso le coperte. Costui guardò i letti attorno, i suoi occhi socchiusi si fermarono su Olga Vjačeslavovna. «Zotova?» – domandò. «Mi segua…» E, come se volasse sulle ali dei calzoni, i suoi speroni sonanti riempivano con lo zoccolio il vuoto del corridoio.

Si dovette attraversare il cortile. In quel momento da uno degli ingressi dell’edificio ospedaliero, proprio da quello dove la stavano conducendo, uscì un giovanotto riccioluto con una camicia alla russa ricamata, che un po’ strano, di sfuggita, le diede un’occhiata, si mise in testa un berretto con la visiera e si avviò precipitosamente verso il portone d’uscita dall’ospedale… Olga Vjačeslavovna inciampò… Le sembrò… No, non poteva essere…

Entrò in una sala d’accettazione e si sedette vicino ad un tavolo, guardando un ufficiale con il lungo volto deformato, come in un pessimo specchio, che la stava fissando con gli occhi di diverso colore.

«Non ha vergogna, lei, la figlia di un uomo stimatissimo di questa città, una signorina per bene e di un’ottima educazione, entrare in rapporti con la gentaglia?» – sentì la voce di rimprovero che accentò ogni parola con aria sprezzante.

Fece uno sforzo per comprendere che cosa stava dicendo. Un certo pensiero assillante non le permetteva di concentrarsi. Facendo un profondo sospiro, si strinse le mani sulle ginocchia e cominciò a raccontargli le sue ultime vicissitudini. L’ufficiale fumava lentamente, premendo il peso del corpo su un gomito. Il racconto era finito. Lui voltò un foglio di carta, sotto il quale c’era uno scritto a lapis pezzetto di carta.

«Le nostre informazioni non coincidono» – disse impensierito, corrugando la fronte. «Vorrei sentire da lei qualcosa riguardo ai suoi rapporti con locale organizzazione dei bolscevichi. Allora?» Un angolo della sua bocca andò in su, le sopracciglia s’incurvarono.

Olga Vjačeslavovna con timore osservava l’asimmetria terrificante del suo viso ben rasato.

«Ma lei… Io non capisco… Ma lei è impazzito…»

«Purtroppo, per strano che sia, siamo in possesso di prove inconfutabili. (Teneva la sigaretta con bocchino di carta con mano tesa, oscillando leggermente, fece uscire una scia di fumo dalla bocca; non si potrebbe inventare un uomo più salottiero di questo.) La sua sincerità è disarmante… (Un anellino di fumo.) Sia allora sincera sino in fondo, cara… A proposito: i suoi amici della Guardia Rossa morirono da veri eroi. (Un suo fulmineo sguardo dagli occhi bicolore si rivolse verso la finestra, da cui si poteva scorgere il portone della legnaia.) Dunque, noi continuiamo a tacere? E allora…»

Aggrappandosi ai braccioli della poltrona, si volse verso i cechi: «Bitte, signori…»

I cechi balzarono, sollevarono Olga Vjačeslavovna dalla sedia, passarono con le mani sui fianchi, sul petto, muovendo i baffi dalla soddisfazione; palpavano, cercando sotto la gonna le tasche segrete. L’ufficiale guardò, sollevandosi dalla sedia, gli occhi di diverso colore si allargarono. Olga Vjačeslavovna soffocò, reggendosi a stento. Il rossore, come una vampata di sangue, ricoprì le gote. Si liberò dalle mani, mandò un grido…

«In galera!» – ordinò l’ufficiale.

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         Due mesi aveva passato Olga Vjačeslavovna in galera. Dapprima, in una cella con le alcune altre prigioniere, poi da sola nella cella d’isolamento. Nei primi giorni era mancato poco che diventasse pazza per pensiero fisso del portone chiuso dall’esterno con un’asse di legno della legnaia. Non riusciva a dormire: nel sonno, il suo collo veniva attorcigliato dalle spire di una corda.

Non era sottoposta ad alcun interrogatorio, nessuno mai l’aveva chiamata, come se si fossero dimenticati di lei. A poco a poco tornò a riflettere. E all’improvviso, come se si aprisse davanti agli occhi un libro, tutto divenne chiaro. Costui, il riccioluto con la camicia ricamata, era davvero Val’ka, l’assassino: lei non si era confusa… Per paura che lei lo denunciasse, si era precipitato a calunniarla: il bigliettino scritto a matita era una sua delazione.

Olga Vjačeslavovna poteva all’infinito dimenarsi, come una pantera, in cella d’isolamento: alle sue insistenti richieste (attraverso lo spioncino della porta) di vedere il capo del penitenziario, un giudice istruttore, un pubblico ministero, i secondini cupi si voltavano soltanto. Nella frenesia continuò tuttavia a credere nella giustizia, escogitava dei piani irreali: procurarsi una matita e della carta, scrivere tutta la verità a qualche massimo organo di potere, equo, come Dio in persona.

Una volta la svegliarono le rudi voci brusche, il fragore di una porta che aprivano. Qualcuno entrava nella cella adiacente, dove era rinchiuso un uomo con gli occhiali. Di lui sapeva solo che durante la notte aveva attacchi di una tosse straziante. Balzando in piedi, lei tese l’orecchio. Le voci oltre il muro, s’alzavano di tono, divenendo delle insopportabili precipitose grida che ad un certo punto si sgretolarono, tacquero. Nel silenzio si sentì un debole lamento, come se a qualcuno stessero facendo un male tremendo su una sedia del dentista, ma si tratteneva dall’urlare.

Olga Vjačeslavovna si appiattì in un angolo sotto la finestrella della cella, follemente sbarrando gli occhi nell’oscurità. Si ricordò i racconti (quando stava in una cella in comune) delle torture… Sembrava che vedesse un volto abbandonato dal colore terreo con gli occhiali, le guance avvizzite, tremanti nell’atroce sofferenza… Gli legano i polsi delle mani e le caviglie, cosicché il fil di ferro gli penetra nella carne sino all’osso…          «Parlerai, parlerai» – le sembrò di riuscire a sentire… Si percepivano delle botte, come se venisse percossa non una persona, ma si sbattesse un tappeto… Lui tacque… Un colpo, un altro ancora… All’improvviso qualcosa muggì… «Ah! Parlerai!…». Ed ecco; non più un muggito, ma un tremendo ululato di sofferenza riempì tutto il penitenziario… Come se la polvere di quest’orrendo tappeto avvolgesse Olga Vjačeslavovna, il disgusto nauseante strinse il cuore, le gambe scivolarono in avanti, oscillò il pavimento di pietra; vi sbatté con la nuca.

Quella notte, quando un uomo tormentò un altro uomo, aveva fatto cadere nell’oscurità la sua timida speranza nella giustizia. Tuttavia, l’anima ardente di Olga Vjačeslavovna non poté rimanere silenziosa ed inerte. Non appena trascorsero le giornate buie, all’interno delle quali mancò poco che perdesse del tutto la ragione, lei, nel misurare con i passi la diagonale della cella, trovò la salvezza nell’odio, nella vendetta. L’odio, la vendetta! E un unico pensiero: uscire da qui, viva!

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Sollevando la testa, guardava su una stretta finestrella; i vetri impolverati tintinnavano leggermente, i ragni morti ed essiccati oscillavano sui brandelli delle ragnatele. Con il fragore dei tuoni rimbombavano i cannoni in lontananza. (La Quinta Armata Rossa si avvicinava a Kazan.) Un secondino portò il rancio, sbuffando col naso, guardò di sbieco alla finestrella: «Le ho portato, signorina, una ciambella… Se avesse bisogno di qualcosa, è sufficiente che bussi… Noi è da sempre che abbiamo un riguardo… per i politici…»

Tutto il giorno tintinnarono i vetri. Dietro alle porte sospiravano i secondini. Olga Vjačeslavovna stava seduta sopra la branda, abbracciandosi le ginocchia. Non toccò il cibo. Batteva il cuore sulle ginocchia, battevano con fragore i cannoni dietro la finestra. Al crepuscolo, di nuovo entrò un secondino in punta di piedi, e, sussurrando, disse: «Gente subordinata siamo, ma siam pur sempre per il popolo…»

Verso la mezzanotte nei corridoi del carcere si sentì movimento, sbatterono le porte, si sentirono minacciose grida di comando. Alcuni ufficiali e civili, minacciando e con le armi in pugno, spingevano giù dalle scale un gruppo di una trentina di prigionieri. Prelevarono a forza dalla cella Olga Vjačeslavovna, la trascinarono di corsa giù per le scale. Lei, come una gatta selvaggia, si dibatteva tutta tra le braccia di suoi aguzzini, cercava di morderli alle mani. Per un minuto vide il cielo ventoso nel quadrangolo del cortile, il freddo della notte autunnale le riempì il petto. Poi, una bassa porta, degli scalini di pietra, l’umidità marcia del sotterraneo pieno di gente; coni di luce delle torce tascabili si mossero agitati sulle mura di mattoni, sui pallidi volti, sugli occhi sbarrati… Le espressioni oscene espiatorie… Echeggiarono gli spari delle rivoltelle, sembrò che crollassero le volte del sotterraneo… Olga Vjačeslavovna si buttò da qualche parte nel buio… Per un attimo in un raggio della torcia si distinse la faccia di Val’ka… Qualcosa le colpì caldamente una spalla, con un fuso rovente perforò il petto, strattonò la schiena… Inciampando, cadde con il viso nella muffa dall’odore di funghi…

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La Quinta Armata Rossa prese la città di Kazan, l’esercito ceco sgombrò il territorio, andando in giù del fiume sui piroscafi, i reparti russi della Guardia Bianca si sparsero ai quattro venti, una metà della popolazione, nell’orrore per le rappresaglie del cosiddetto “terrore rosso”, fuggì in capo al mondo. Per alcune settimane lungo ambedue le sponde del Volga, ingrossata per le piogge autunnali, si trascinarono gli inselvatichiti profughi con un fagottino e un bastoncino nelle mani, sopportando ogni sorta di privazioni. Se ne andò via da Kazan pure Val’ka.

Olga Vjačeslavovna, contro ogni buonsenso, rimase viva. Quando dal sotterraneo del carcere tirarono fuori i cadaveri dei fucilati e li misero in fila tutti vicini nel cortile, sotto il cupo cielo piovigginante, sopra di lei si chinò e le girò delicatamente la testa un cavalleggero con un montone rovesciato addosso.

«La ragazza respira» – disse. «Bisogna, amici, chiamare subito un medico…»

Era lo stesso giovane uomo dal sorriso splendente e dagli occhi fieri da falcone. Portò personalmente la ragazza nell’ospedale del carcere, corse a cercare nel caos di una città arresa “un professore medico immancabilmente dell’ancien règime”, irruppe nella casa di un professore, d’impulso lo arrestò, spaventando il poveretto a morte, lo portò in motocicletta all’ospedale e, indicandogli Olga Vjačeslavovna priva di coscienza, bianca pallida come un lenzuolo, disse: «Che sia viva!…»

Rimase viva. Dopo la fasciatura e la canfora aprì leggermente le palpebre bluastre e, probabilmente, riconobbe gli occhi da falcone. «Più vicino» – disse appena appena percettibilmente e, quando lui si avvicinò al massimo e attese a lungo, lei, non si sa a che pro, gli chiese: «Mi dia un bacio…». Tutt’attorno al letto c’era tanta altra gente, erano tempi di guerra; l’uomo dagli occhi grigi da falcone, tirò su col naso, si guardò intorno: «Ma guarda!», ma non osò, soltanto le aggiustò un po’ il cuscino.

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Il cavalleggero si chiamava Emeljanov, compagno Emeljanov. Lei domandò il nome e il patronimico; di nome e di patronimico faceva Dmitrij Vassiljevič. Non appena lo seppe, chiuse gli occhi, si mise a muovere leggermente le labbra, ripetendo: «Dmitrij Vassiljevič.»

Il suo reggimento doveva essere formato a Kazan, e intanto Emeljanov tutti i giorni veniva a trovare la ragazza all’ospedale. «Debbo dirle» – ripeteva lui per incoraggiarla, – «che è vitale lei, Olga Vjačeslavovna, proprio come una vipera… Quando guarirà, la iscriverò nello squadrone, come un mio personale soldato d’ordinanza…». Ogni giorno le parlava di questo, e non si stancava né lui a dirlo, né lei a sentirlo. Lui rideva brillando coi denti, a lei un dolce sorriso si posava sulle labbra deboli. «Le facciamo tagliare i capelli, procurerò degli stivali leggerissimi, ne abbiamo un paio di un ragazzo, un cadetto, ucciso; nei primi tempi, certamente, dovremo legarla al cavallo con delle cinghie, per non farla cascare…»

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Olga Vjačeslavovna era effettivamente vitale come una vipera. Dopo tutte le sue vicissitudini, sembrava che fossero rimasti soltanto gli occhi, che brillavano però di un’insonne passione, di un’impaziente bramosità. La vita trascorsa rimase su una sponda lontanissima. L’austera, agiata casa paterna; il liceo, le amiche sentimentali, il nevischio sulle strade, le infatuazioni giovanili per degli attori in tournée, la solita adorazione dell’insegnante di lettere: il bellissimo corpulento prof. Voronov; un liceale “circolo di Herzen” ed entusiastici fervori verso i compagni del circolo; le letture dei romanzi tradotti e una dolce angoscia per le inesistenti in realtà eroine del nord di Hamsun, un’allarmante curiosità lasciata dai romanzi di Margherit… E’ possibile che sia esistito davvero tutto questo? Un abito nuovo per le feste di Natale, l’innamoramento natalizio per uno studente travestito da Mefistofele con delle piccole corna in testa confezionate di sargia nera e riempite con l’ovatta… La fragranza dei fiori cristallizzati dal gelo a meno trenta gradi… Un malinconico silenzio, le scampanate della quaresima, le nevi del disgelo oramai marrone sulle vie dei mercanti… L’ansietà primaverile, una febbrile agitazione notturna… Una dacia al villaggio Verchnij Uslon, i boschi di conifere, i prati vastissimi, il Volga splendente nelle piene sconfinate e i cumuli di nuvole sull’orizzonte… Di tutto questo si ricordava adesso, forse, soltanto nel sonno, nel tepore di un cuscino dell’ospedale umido di lacrime…

All’interno di tutti questi sogni, come immaginò, irruppe Val’ka con il suo ardente sangue ed un pesetto da cinque libbre su un cinturino di cuoio. Quello stesso Val’ka Brykin che fu scacciato dal liceo per teppismo, che andò come volontario sul fronte della Grande guerra, ma già un anno dopo ritornò a Kazan, facendo sfoggio di un’uniforme di ulano e di una decorazione da soldato della Croce di San Giorgio. Si diceva che suo padre, il commissario di polizia Brykin (lo stesso che emanò una nota disposizione: «Alle guardie comunali: nell’entrare nel tempio divino non usare forza alcuna»), presentò un’istanza al Comandante delle truppe del distretto militare, supplicando di mandare suo figlio Val’ka alle posizioni del fronte più avanzate, in modo che fosse ucciso sicuramente, in quanto nel suo cuore paterno era preferibile accettare quel mascalzone da morto che da vivo… Val’ka era perennemente affamato, bramoso verso piaceri ed audace come un diavolo. La guerra gli insegnò le abilità e le destrezze, seppe quanto sia acido l’odor del sangue e soltanto la rivoluzione gli diede carta bianca.

Il suo pesetto da cinque libbre ruppe in mille pezzi il lieto fragile ghiaccio dei sogni di Olečka. Terribilmente sottile risultò essere il ghiaccio su cui sognò di costruire la felicità: matrimonio, amore, famiglia, una casa solida, rispettabile… Il ghiaccio nascondeva un abisso… Scricchiolò, si ruppe e la vita, rude e ardente, la sommerse con le torbide onde.

Olga Vjačeslavovna lo accettò proprio così: una lotta sfrenata (avevano tentato due volte di ammazzarla, non erano riusciti, quindi non le metterebbe ora paura neppure il diavolo in persona), l’odio con tutta l’anima, un tozzo di pane per oggi ed un’ansia selvaggia dell’amore sinora non assaporato; questo è la vita… Emeljanov si sedeva vicino al lettino dell’ospedale, lei si metteva il cuscino dietro la schiena, si stringeva addosso la coperta con le magrissime dita, e guardandolo con un’immacolata fiducia negli occhi, diceva: «L’immaginazione me la figurava così: un marito biondo, rispettabile, me stessa con un negligé rosa, stiamo seduti, entrambi, rispecchiandoci in una caffettiera nichelata. E niente più!… E’ questa la felicità… Adesso odio quella ragazzina… Attendeva la felicità, stupida indolente, con una vestaglia rosa, davanti ad una caffettiera!… Ma che canaglia!…»

Emeljanov, appoggiandosi coi pugni sulle cosce, rideva ai suoi racconti. Olečka, neppur accorgendosi, si sforzava con tutto il suo essere di entrare e diffondersi all’interno di quest’uomo… Aveva un unico desiderio adesso: strappare finalmente il suo corpo dal letto dell’ospedale. Si tagliò i capelli. Emeljanov le portò un corto pellicciotto di montone rovesciato da cavalleggero, le braghe di panno blu orlate di rosso e, come promise, gli eleganti stivali di capretto.

A novembre Olga Vjačeslavovna fu dimessa dall’ospedale. In città non aveva né parenti né conoscenti. Le nubi nordiche correvano al di sopra delle vie desolate; dei negozi, tappati dall’inchiodatura delle assi di legno; rovesciavano pioggia e neve. Emeljanov camminava speditamente nel fango da un vicolo all’altro, alla ricerca di un’abitazione. Olečka si trascinava un passo dietro, indossando il fradicio pellicciotto appesantito, con gli stivali di un cadetto morto ammazzato; le tremavano le ginocchia, ma avrei preferito piuttosto la morte che restare lontana da Dmitrij Vassiljevič. Ricevette al comitato esecutivo un mandato per l’insediamento abitativo per la compagna Zotova, torturata a morte dal commando delle Guardie Bianche, ed adesso cercava qualcosa di speciale. Finalmente scelse un immenso palazzo con il colonnato e i vetri a specchio, appartenuto ai ricchissimi mercanti Skorobogatov, abbandonato dai padroni, e lo requisì. Nell’edificio disabitato, attraverso le finestre rotte, soffiava il vento lungo un’infilata interminabile di stanze dagli alti soffitti affrescati e con la mobilia dorata ormai scorticata. Tintinnavano pietosamente le gocce di cristallo dei lampadari. Nel parco rumoreggiavano malinconicamente i tigli spogli. Con un calcio del piede Emeljanov aprì le porte a due battenti.

«Ma guarda, defecarono, diavoli, direttamente sul parquet, in segno di protesta…»

Nel salone dei ricevimenti frantumò in pezzi un organo di faggio lungo quanto un muro, portò il legno ricavato in un salottino angolare pieno di divani e lo fece riscaldare per bene, accendendo un camino.

«Qua sul fuoco si potrà scaldare anche un bollitore d’acqua, l’ambiente è caldo e luminoso; conoscevano, eccome, le comodità quei borghesacci…»

Procurò un bollitore di rame, portò delle carote essiccate per farsi degli infusi a posto del the, dei cereali, del lardo, delle patate; tutta la sua razione di due settimane, ed Olga Vjačeslavovna rimase da sola nel vuoto e buio edificio, dove ululavano in modo terrificante i fumaioli dei camini, come se fossero degli spettri dei mercanti Skorobogatov che gridassero a squarciagola la propria disperazione, seduti sul tetto sotto una battente pioggia autunnale…

Olga Vjačeslavovna ebbe tanto tempo per dedicarsi alle riflessioni. Si sedeva su una seggiola, fissava le fiamme del camino, dove cominciava a canticchiare il bollitore, e pensava di Dmitrij Vassiljevič: chissà se verrà oggi? Sarebbe bello se venisse, le patate che sto lessando sono quasi pronte. Sentiva da lontano i suoi passi risuonanti sui parquet: entrava allegro con i suoi occhi temibili, entrava tutta la sua vita… Staccava dalla sua cintura di cuoio una rivoltella a tamburo, due bombe a mano, si toglieva il pastrano bagnato, domandava se tutto andasse bene, se avesse bisogno ancora di qualche cosa.

«Adesso la cosa più importante è far passare la tosse pettorale e che non ci sia del sangue nell’espettorato… Per il Capodanno, vedrà, si rimetterà del tutto e sarà come nuova.»

Dopo aver preso un tè, si arrotolava a mano una sigaretta di tabacco forte ed iniziava a raccontare delle faccende militari; in modo pittoresco descriveva i combattimenti di cavalleria, a volte si infervorava a tal punto che faceva venire i brividi soltanto a guardarlo in quegli occhi ardenti e fieri.

«La guerra imperialistica è sempre di posizione, ancorata alla trincea, perché non ebbe mai né impeto né slancio, si moriva con un’angoscia» – raccontava, stando a gambe divaricate in mezzo alla stanza e con la sciabola sguainata. «La rivoluzione fondò un’armata a cavallo… E’ chiaro? Un destriero è una forza della natura… Una battaglia a cavallo è un impeto, uno slancio rivoluzionario… Ecco, non ho altro in mano che la sciabola e mi incuneo in uno schieramento di fanteria e volo al galoppo dritto verso un nido di mitragliatrici… Può il nemico resistere ad un tale mio atteggiamento e perfino soltanto alla mia vista? Non può… Preso dal panico, fugge ed io lo colpisco a sciabolate; ho le ali dietro alle spalle… Vuole sapere che cosa sia una battaglia di cavalleria? E’ quando due fiumane di soldati a cavallo al galoppo si avvicinano, neppure uno sparo… Un rombo prolungato… E tu sei come un ubriaco… Si scontrano… Si inizia un’intensa battaglia… Un minuto, massimo due… Il cuore non resiste a tanto orrore… Al nemico si rizzano i capelli… E il nemico inverte la marcia dei cavalli… Non resta che rincorrere e sciabolare… Niente prigionieri…»

Gli occhi di lui brillavano come l’acciaio, la sciabola d’acciaio fischiava nell’aria… Olga Vjačeslavovna, sentendo i brividi lungo la schiena dall’emozione, lo fissava, appoggiandosi con i gomiti appuntiti sulle ginocchia, stringendo i piccoli pugni al mento… Sembrava: le spacca adesso il cuore la lama fischiante, urlerebbe per la gioia: è così che amava quest’uomo…

Ma come mai la risparmiava, perché aveva tutto quel riguardo? E’ possibile che nutrisse solo e soltanto compassione? Provava pietà per un’orfana, come per una gattina randagia? Talvolta, sembrava, riusciva a cogliere al volo un suo sguardo di sbieco; fulmineo, annebbiato da un sentimento tutt’altro che fraterno… Un ardore arrossiva le sue gote allora, non sapeva dove volgere il viso, il cuore confuso precipitava in un vorticoso abisso… Ma no, lui estraeva da una tasca un quotidiano moscovita, si accomodava davanti al fuoco per leggere a voce alta un corsivo; qualche articolo di taglio, dove “battevano il chiodo”, sfogandosi l’animo e senza moderare i termini negli attacchi alla borghesia mondiale… «Non servono neppure le pallottole, con le parole li finiremo… Sentili, sentili come sono arguti, non sono giornalisti, ma diavoli, davvero!» – gridava, battendo i piedi dalla soddisfazione…

Arrivò l’inverno. La salute di Olga Vjačeslavovna si ristabiliva. Un giorno Emeljanov venne molto presto, ancor prima dell’alba, le disse di vestirsi e la portò al campo di addestramento, dove le insegnò le prime regole d’approccio comportamentale e di postura di un cavaliere sopra un destriero. All’alba dal cielo scendeva un morbido nevischio, Olga Vjačeslavovna galoppava attorno ad un campo imbiancato, lasciando sul terreno le impronte sabbiose degli zoccoli. Emeljanov urlava: «Ma che cavolo, figlia di una buona donna, stai seduta sopra come un cane sulla palizzata! Controlla bene le punte dei piedi, stringile, e non ti coricare!».

A lei veniva da ridere per l’immensa gioia; fischiava il vento negli orecchi, inebriava il petto, sulle ciglia si scioglievano i fiocchi di neve.

(continua)

[Traduzione dal russo di Tatiana Bogdanova Rossetti]

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