di Gianluca Virgilio
Utopia è un termine greco che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, gli antichi greci non conoscevano affatto. Lo ha inventato l’inglese Thomas More, che nel 1516 diede questo titolo al suo romanzo, nel quale immaginava un non luogo (dal greco antico οὐ, ou, «non» e τόπος, tópos, «luogo») ovvero un buon luogo (l’omofono inglese eutopia, dal greco antico εὖ, eû, «buono o bene» e τόπος, tópos, «luogo» significa “buon luogo”).
L’isola di More è retta da una repubblica ideale, dove tutto va bene, e forse proprio per questo è rimasta un non luogo. Ed io ricordo che da ragazzo mi esercitavo con gli amici nel pensare a come dovesse andare il mondo. Cantavamo la canzone di Edoardo Bennato L’isola che non c’è – seconda stella a destra… – che doveva essere un’isola tanto bella quanto inesistente, dimenticando che se non si fanno i conti con la realtà, si finisce col cantare solo una canzone orecchiabile, mentre il mondo non cambia nemmeno di una virgola. Come in effetti è stato.
Ora leggo Michele Napolitano, grecista dell’Università degli studi di Cassino e del Lazio meridionale, che ha da poco (nel 2022) pubblicato per le edizioni inSchibboleth di Roma un ottimo volume intitolato proprio Utopia, e scopro che non sempre l’utopia è sinonimo di idealismo quando non di velleitarismo, ma che nel mondo antico è esistita un’utopia che progettava la realtà nel tentativo di modificarne l’aspetto, soprattutto per quanto concerne i rapporti sociali che innervano la vita della città, ovvero la vita comunitaria della maggior parte degli uomini.