La precarietà del lavoro è un freno alla crescita

E’ da osservare, a riguardo, che la gran parte delle nuove assunzioni e dell’incremento di occupazione recentemente registrato dall’Istat riguarda lavoratori con contratti non standard, ovvero a tempo determinato. Si tratta di occupazione che, nel mondo anglosassone, non viene considerata nel novero della ‘buona occupazione’ e che può esaurirsi in effetti statistici di breve periodo. Ma soprattutto, ed è questa la terza motivazione del nesso fra precarietà del lavoro e crescita economica, i contratti flessibili disincentivano le innovazioni e, per questa via, riducono il tasso di crescita della produttività del lavoro. In altri termini, i contratti flessibili incoraggiano una modalità di competizione basata sulla compressione dei costi, a danno di quella (virtuosa) basata su innovazioni, formazione, produttività. Ne risente la domanda interna e anche la nostra posizione nel commercio internazionale, considerando il poco appeal di prodotti italiani venduti all’estero a prezzo basso e con poca qualità incorporata. L’introduzione del salario minimo, per contro, potrebbe fermare queste spirali viziose, ancor più se associato a un contratto unico con periodo di prova e successiva stabilizzazione a tempo indeterminato. Le imprese avrebbero la possibilità, nella prima fase, di sperimentare ambiti di flessibilità nell’uso della forza-lavoro, per formarla adeguatamente, e per corrispondere contratti a tempo indeterminato una volta sperimentata l’adeguatezza e la competenza del lavoratore che si intende assumere.Einstein usava dire che “è follia ripetere lo stesso errore aspettandosi risultati diversi”. In altri Paesi, per esempio di recente in Spagna, si è fatto un passo indietro nel processo di precarizzazione del lavoro. Sarebbe il caso di guardare con attenzione queste esperienze.

[“La Gazzetta del mezzogiorno” del 16 maggio 2023]

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