A tal proposito, nel secondo dei due volumi della raccolta di studi sopra menzionata è possibile leggere il pregevole contributo di Annalucia Cudazzo, intitolato Un «verso che gioca con la morte». Lettura di Morte per Mistero di Vittorio Pagano (pp. 795-815) , che analizza una delle opere più significative del poeta leccese, soffermandosi sulla genesi, sulle peculiarità stilistiche e sui motivi tematici che la attraversano.
Morte per mistero è l’esito di un lavoro quasi febbrile, portato a termine in breve tempo, a seguito di un periodo di profondo travaglio interiore vissuto dall’autore nel 1963, come testimoniato da una lettera di Oreste Macrì, legato a Pagano da un rapporto di amicizia. L’opera, apparsa per le edizioni del «Critone», segna una svolta nell’itinerario poetico dell’autore leccese, principalmente per due motivi: in primo luogo, si ritrova qui per la prima volta una timida ma decisiva apertura nei confronti della realtà contemporanea, fino a quel momento sapientemente elusa come conseguenza dell’adesione all’ermetismo; in secondo luogo, la svolta rappresentata da Morte per mistero si lega all’adozione di una struttura poetica nuova: qui, infatti, vengono lasciate da parte le forme chiuse, in favore di un’opera di più vasta estensione, attraverso il ricorso al poemetto. L’influsso della stagione ermetica, in questa fase abbandonata dall’autore, si rileva tuttavia nel carattere enigmatico e a tratti sibillino dell’opera, non facile da interpretare, non soltanto per lo stile, ma anche per i numerosi riferimenti ad altre opere e a vicende realmente accadute, sconosciute al lettore perché raramente esplicitate.
Al centro dell’opera è il tema della morte, esito predeterminato dell’esistenza umana, destino ineluttabile la cui natura è tuttavia sconosciuta e oscura all’uomo (da qui il termine «mistero» adoperato nel titolo). La lettura di Morte per Mistero supportata da Annalucia Cudazzo muove dal Sein Zum Tode (Essere per la morte) heideggeriano, concetto all’insegna del quale si può interpretare l’intero poema: scopo precipuo dell’opera – come scrive l’autrice del contributo – sarebbe, infatti, quello di rivelare la morte per poterla poi accettare nella sua ineluttabilità. La finitudine esistenziale è dunque una costante e si presenta con una molteplicità di volti e di immagini, assumendo le più svariate sembianze e venendo declinata dall’autore in vari modi: essa investe la dimensione storica, politica, universale e finanche quella personale. Ad aprire l’intero poema è, dunque, l’immagine dell’albero a cui si sarebbe impiccato Giuda Iscariota, macchiatosi di tradimento ai danni del Cristo; dal suicidio di Giuda si passa all’agonia di un passero in punto di morte, scena veduta dagli occhi dell’autore in un momento non ben precisato della propria infanzia. La morte, nella poesia di Pagano, interessa anche il piano politico-sociale, con la descrizione, da parte di un figlio, del momento del proprio trapasso a causa dell’esplosione di una bomba. In una sorta di climax, di focalizzazione dal generale al particolare, dall’universale al personale, trova spazio il ricordo della perdita di persone care, tra le quali vi è l’amico Orio Pino Casarano, a cui, dopo la dipartita, il poeta domanda in un verso di grande pathos e intensità lirica: «Orio, perché si rimane?», esprimendo così il senso di colpa di chi sopravvive alla scomparsa di una persona amata.
Pagano ha piena consapevolezza della condizione dell’essere umano, come si legge in versi che – come osserva la Cudazzo – rivelano notevoli affinità con il montaliano Meriggiare pallido e assorto: gli uomini non sono altro che «sassi che alle muraglie / altissime rimbalzano / e indietro tornano», eppure il poeta non dichiara la propria resa ma – parafrasando le parole dell’autrice del contributo – è proprio da questa incapacità, da questa debolezza insita nella natura umana, che Pagano trae la forza per dichiarare il suo impegno solenne a guarire «la piaga di Prometeo», simbolo della ribellione all’ordine precostituito e, dunque, alla condizione esistenziale dell’umanità.
Ad Antonio Lucio Giannone, pertanto, va riconosciuto il merito di aver riacceso i riflettori su un intellettuale che, benché rassegnato al proprio destino di poeta minore, ebbe sicuramente un ruolo di primo piano non solo nel contesto meridionale (salentino, nello specifico), ma anche nel panorama nazionale, grazie alle relazioni intrecciate con numerosi intellettuali del calibro di Betocchi, Luzi, Bigongiari, Caproni e Gatto.
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