La guerra capitalista

Due aspetti del volume potrebbero essere sviluppati più dettaglio:

  1. Occorrerebbe microfondare la centralizzazione tenendo conto delle specificità settoriali (almeno considerando beni di consumo e beni capitale). La microeconomia neoclassica indurrebbe ad attendersi che la centralizzazione sia associata a un aumento della concentrazione industriale e che quest’ultima implichi una tendenza all’aumento del mark-up e, dunque, dei prezzi. Ma quand’anche così non fosse, non è molto chiaro per quale ragione, seguendo gli autori, la centralizzazione si sia manifestata o sia stata accelerata in una fase di deflazione[1]. Ciò anche considerando quanto scrivono, e cioè che la centralizzazione del capitale implica e riflette crisi economiche[2].
  2. Sarebbe stato e sarebbe interessante esplorare i nessi fra crescente centralizzazione e andamento della produttività, tenendo anche conto dell’andamento non esponenziale di quest’ultima nei Paesi OCSE. 

Brancaccio et al. osservano, in modo convincente, che la guerra in corso in Ucraina “non [è] semplicemente per conquistare territorio ma per stabilire le regole imperiali del futuro” (p.12). Vi si aggiunge che “la guerra capitalista è continuazione della lotta di classe con mezzi nuovi e più infernali” (p.15). La guerra – argomentano gli autori – è figlia della centralizzazione capitalistica e quest’ultima è causata dalle crisi ricorrenti nelle quali precipita il sistema. Gli autori criticano, a ragion veduta, la capacità euristica della categoria interpretativa – molto diffusa – dei “pazzi al potere”[3]. L’imporsi della centralizzazione viene spiegato con (i) la diffusione di nuove tecnologie e l’adozione di tecniche produttive con economie di scala, (ii) la diversa solvibilità, fra imprese e aree geografiche, fra Paesi ricchi e Paesi poveri (Italia inclusa in quest’ultimo ambito). La categoria della solvibilità risulta centrale nel discorso ed è un sicuro elemento di originalità di questo studio.

Brancaccio et al. sostengono che la centralizzazione deriva dalla lotta fra imprese forti e imprese deboli sulla rispettiva solvibilità e che la solvibilità del sistema non è un mero fatto tecnico, bensì intrinsecamente politico. Infatti, essa è regolata dal banchiere centrale, nel momento in cui fissa i tassi di interesse. Le banche centrali – si sostiene – hanno il fondamentale compito di regolare il conflitto distributivo fra capitali forti e capitali deboli: siano essi imprese o Paesi (centrali e periferici). Gli alti tassi di interesse nominali non servono a contrastare l’inflazione, ma ad avvantaggiare – o non danneggiare – i creditori, già danneggiati appunto proprio dall’inflazione.

È importante osservare che Brancaccio, Giammetti e Lucarelli ritengono di aver confermato e sviluppato la scoperta marxiana di una “legge generale” del capitalismo (e di averne offerto la prova empirica – v. pp.99 ss.). Si tratta di una questione controversa, che è alla radice di un importante dibattito che si è sviluppato fra Brancaccio e Acemoglu (uno degli economisti più autorevoli sulla scena internazionale oggi), relativo appunto all’esistenza o meno di tendenze e di fenomeni né contingenti né locali che caratterizzano il capitalismo contemporaneo. Acemoglu critica l’esistenza di leggi generali nel capitalismo contemporaneo, con l’argomento che le istituzioni danno luogo a una varietà di equilibri possibili specifici al contesto. Si possono aggiungere due critiche all’impostazione degli autori sul punto, ovvero:

  1. Brancaccio et al. trovano evidenza empirica sulla centralizzazione su scala mondiale solo con dati riferiti a un periodo relativamente recente e inducono che la centralizzazione è un “potente attrattore mondiale” (p.136). Si potrebbe ritenere, per contro, che la c.d. globalizzazione – dagli anni Ottanta-Novanta – abbia costituito una fondamentale precondizione per l’accentuazione della “lotta competitiva”, e dunque dei processi di aumento del grado di concentrazione. Così come lo sia stata, in tempi abbastanza recenti, la finanziarizzazione: forse non a caso, si trova empiricamente che molte concentrazioni delle quote proprietarie si manifestano proprio nella sfera finanziaria, limitatamente al periodo 1999-2019 (appunto successivo all’avvio della libera circolazione dei capitali per come l’abbiamo conosciuta negli ultimi quarant’anni, ma il solo periodo per il quale i dati sono disponibile). Ad avviso di chi scrive, occorrerebbe disporre di dati per un periodo di tempo più lungo per destituire completamente di fondamenta la critica di Acemoglu.   
  2. Il problema sollevato da Acemoglu è molto serio e il dibattito scientifico con Brancaccio sull’argomento è stato di estremo interesse (Brancaccio e De Cristofaro, 2022). Si aggiunga una considerazione: occorrerebbe forse prendere più seriamente in considerazione la teoria istituzionalista della varietà dei capitalismi – più di quanto si faccia in questo libro – e derivarne l’implicazione che le “leggi generali” non si inquadrano bene in contesti di profondo squilibrio sistemico fra un Nord capitalisticamente sviluppato e una periferia del capitalismo che resta arretrata anche e soprattutto sul piano della condivisione delle norme sociali e morali che guidano l’accumulazione di capitale[4]. In altri termini, occorrerebbe chiarire dove (in quali aree geografiche) si applica la legge della concentrazione. A titolo esemplificativo, il Mezzogiorno d’Italia – considerato dalla Commissione Europea la più grande area sottosviluppata dell’Unione – è una zona del pianeta non particolarmente interessata alle dinamiche della centralizzazione. Si è qui, infatti, di fronte – proprio a ragione del processo di “mezzogiornificazione” – a crescenti squilibri territoriali, i quali, oltre a determinare crescenti divergenze in termini di Pil pro capite, tassi di crescita, tassi di occupazione, grado di apertura al commercio internazionale, intensità tecnologica delle produzioni, andamento della produttività del lavoro[5], si accompagnano alla sedimentazione di una cultura locale che si contrappone ai codici di comportamento propri del capitalismo maturo e che fa sì che quelle aree non siano di grande interesse per la riproduzione capitalistica dei Nord; oppure, che convenga, in qualche misura, lasciarle in condizioni di sottosviluppo economico e di arretratezza culturale. Domina, per questo secondo aspetto, nelle periferie del capitalismo l’attività di subfornitura, regolare ma anche irregolare (si pensi al lavoro schiavistico nelle campagne pugliesi). E’, in definitiva, il Sud dei fasonisti.

Il libro è ben scritto, ben argomentato ed efficacemente strutturato. La prima parte passa in rassegna la teoria della centralizzazione capitalistica nella Storia del pensiero economico e grande attenzione viene lì dedicata ad alcuni autori che sono stati sostanzialmente espunti dalla didattica e dalla ricerca scientifica nel settore (Forges Davanzati, 2016). Il volume qui recensito, infine, contiene numerosi spunti, tradotti in uno stile divulgativo, di un discorso più ampio sulle tendenze del capitalismo contemporaneo: discorso che rinvia, per approfondimenti specialistici, ad alcuni studi pubblicati dagli autori su riviste scientifiche internazionali, peraltro da considerarsi originali per quanto attiene alle tecniche econometriche utilizzate.

Riferimenti bibliografici

Brancaccio, E. e De Cristofaro, F. (2022). In Praise of ‘general laws’ of Capitalism: Notes from a Debate with Daron Acemoglu, “Review of Political Economy”, DOI: 10.1080/09538259.2022.2037930

Carnevali, E., Godin A., Lucarelli S., Veronese Passarella M. (2020) Productivity growth, Smith effects and Ricardo effects in Euro Area’s manufacturing industries, “Metroeconomica”, pp.129-155: https://doi.org/10.1111/meca.12270,  

Forges Davanzati, G. (2006). Ethical codes and income distribution: A study of John Bates Clark and Thorstein Veblen. London-New York: Routledge.

Forges Davanzati, G. (2016). La scomparsa del marxismo nella didattica e nella ricerca scientifica in Economia Politica in Italia, “Materialismo storico”, 1 (1-2), pp.92-114.

Forges Davanzati, G. (2011). Credito, produzione, occupazione: Marx e l’istituzionalismo. Roma: Carocci.

Forges Davanzati, G. and Pacella, A. (2014). Thorstein Veblen on credit and economic crises, “Cambridge Journal of Economics” vol.38, n.5, pp.1043-1061.

                                                                                


[1] Nella ricerca di Brancaccio et al. manca un’analisi soddisfacente del nesso esistente fra centralizzazione del capitale e moderazione salariale, quest’ultima essendo la causa fondamentale della deflazione e della disinflazione negli anni precedenti la crisi sanitaria del COVID-19 nonché la cifra essenziale del capitalismo globalizzato. 

[2] Chi scrive ha proposto una microfondazione della teoria dell’impresa in ambito istituzionalista, a partire da alcune tesi di Thorstein Veblen sugli obiettivi, sull’organizzazione e sulla tecnologia dell’impresa capitalista (cfr. Forges Davanzati, 2011; Forges Davanzati, 2014). In un ambito teorico propriamente postkeynesiano, si segnala, in particolare, la teoria dell’impresa elaborata da Mark Lavoie.

[3] Si può però osservare che la tesi per la quale la Storia – seguendo Althusser – è solo un “processo senza soggetto” rinvia a un dibattito filosofico di estremo rilievo, che, in questa sede, pur rinviando a pubblicazioni scientifiche di uno degli autori (Brancaccio, in particolare), non è trattato. Non vi è dubbio che l’obiettivo sia ripristinare la pace e farlo in modo che essa sia duratura: ma ora in discussione sono gli strumenti e gli autori di questo libro sembrano propendere per una certa ineluttabilità del conflitto armato, parto, appunto, della tendenza del sistema a generare al suo interno fenomeni di centralizzazione dei capitali, che, peraltro, mette in discussione i fondamenti della democrazia liberale.

[4] Sul tema sia consentito rinviare a Forges Davanzati (2006), con particolare riferimento all’opera di Thorstein Veblen, e alla bibliografia lì citata.

[5] Su quest’ultima variabile si è concentrato Lucarelli, uno degli autori di questo libro, nel saggio di Carnevali et al. (2020).

[“Il Ponte” anno LXXIX n. 2 – marzo-aprile 2023]

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