In una sorta di “citazionismo” Vincenti fa convivere Erodoto e Leopardi, riscrive Euripide, Bulgakov, Salgari, Chesterton, Villiers de l’Isle-Adam, Filolao, Machiavelli, Borroughs, Polidori, Swift, ecc.
In questo modo egli fa sua la “contaminatio” e mescola le carte in un gioco linguistico che offre al lettore spunti di diversa natura, ora narrativi, ora poetici.
“Scrittura come zapping” la definisce Oscar Zagabria nella prefazione a Piazza Italia, perché l’idea che ci si fa è che l’autore sia attentissimo alla cronaca quotidiana ma anche al costume ed al malcostume (mostrando infatti di fare zapping da un canale all’altro della tv), su cui i suoi studi classici gli consentono di sovrapporre e fondere i capolavori della letteratura greca, latina, inglese, francese, ecc.
Il risultato è a volte esilarante, a volte grottesco, spesso goliardico, soprattutto quando anche nei testi in prosa sopravvengono rime evidenti, come se gli fossero sfuggite di mano (si veda il testo Fiori). Continua quindi, in questo libro, l’opera di “riciclaggio” di pezzi poetici e letterari ripresi da riviste anche on line e da testi precedenti a volte riaggiustati.
Non manca l’ironia e l’autoironia, come in Psico-l’abile forever, testo spiritoso che con verve ironica avvia un confronto speculare tra l’io e l’altro da sè in un dualismo fatto di rimandi (come non pensare ad Edgar Allan Poe o a Il Visconte Dimezzato di Italo Calvino) e giochi di parole (solo “l’abile” può varcare il “labile” confine “tra quel che era e quel che sarà” di un essere scisso, demente, sdoppiato). In Il suicidio di Nanni, prendendo spunto dalle Uova Fatali di Bulgakov, Vincenti accenna ad una vicenda kafkiana, mentre in Come Salgari il viaggio è metafora della vita e sognare di viaggiare è espressione del desiderio di vivere: come Salgari infatti, che viaggiò con la fantasia consultando mappe ed atlanti (l’unico suo viaggio di cui si abbia menzione pare fosse in nave da Venezia a Brindisi), qui la fantasia di Vincenti si sbizzarrisce nell’indicare i luoghi più remoti fino alla Sicilia di Tomasi di Lampedusa. Il Signore del fuoco rimanda a Cecco Angiolieri ed a Marinetti con la loro mania di ardere il mondo per rigenerarlo col suo “ardore”.
Alla luce di questi suggerimenti la chiave di lettura permette al lettore di entrare nei testi con maggiore consapevolezza, rafforzata dalle note che lo stesso autore mi ha inviato per accompagnare il libro.
Da docente di letteratura anglo-americana, non posso esimermi dal segnalare alcuni testi in cui Vincenti si “diverte” a giocare con i classici, per esempio quelli che coinvolgono un autore che adoro: Jonathan Swift. I suoi Viaggi di Gulliver (una feroce satira della situazione politica e sociale dell’Inghilterra dei suoi tempi ma anche potente satira dei vizi dell’umanità tutta), vengono da Vincenti “aggiornati” alla politica imperialistica americana: gli americani, immagina Vincenti, sbarcano su Lilliput (l’isola dove gli abitanti sono alti 15-20 centimetri nel primo e più noto dei 4 viaggi) per portarvi il “progresso”; e qui parte una malinconica descrizione di come sarebbe oggi Lilliput colonizzata dagli americani, con fabbriche e tutto il resto (I disastri del Progresso sull’Isola di Lilliput). Scrive Paolo nel suo commento: “Immagino che sull’isola dei lillipuzziani giungano un giorno gli americani e la colonizzino, sfruttandola per ricavarne del business. Niente di nuovo, certo, in effetti è un testo scritto moltissimi anni fa. L’ispirazione mi venne dalla bellissima canzone di Francesco Guccini, Gulliver. Fra i lillipuzziani faccio interagire anche Elke Dettmer, che è una antropologa realmente esistente, il cui nome incontrai nell’esame di Storia delle tradizioni popolari sostenuto all’Università”.
Un altro autore “classico” (un minore in questo caso), e qui mi si consenta una digressione che amplia le già dettagliate informazioni fornite da Vincenti, è il misconosciuto John W. Polidori, medico e scrittore inglese di origini italiane, nato nel 1795 e morto suicida nel 1821, segretario e medico personale del noto poeta romantico Lord Byron, e figlio dell’esule pisano Gaetano Polidori (1764-1853) a sua volta segretario personale di Vittorio Alfieri (1785-1789). Il nome di Polidori è legato alla sua opera più importante, The vampire, ovvero Il Vampiro, capostipite di un genere narrativo che avrà molta fortuna nella letteratura “gotica” e dell’orrore. Per Byron, Polidori nutriva un rapporto di amore-odio, perché, dice il gossip letterario, forse amava, non corrisposto, il suo “datore di lavoro”, ma al tempo stesso mal sopportava il suo carattere tirannico e le vessazioni alle quali era continuamente sottoposto. Scrisse alcune opere di medicina, un dramma, Ximenes, un lungo racconto, Ernestus Berchtold, or the Modern Oedipus, e molte poesie, ma la sua unica opera di successo fu Il Vampiro. Un successo a metà, però, nel senso che questa opera, appena pubblicata, venne scambiata per un romanzo di Byron e a questi attribuita. Il motivo del fraintendimento era dovuto al fatto che lo stile dell’opera fosse tipicamente “byroniano”. La genesi dell’opera di Polidori si ebbe in una fredda sera autunnale in quel di Ginevra quando, a Villa Diodati, si riunirono Lord Byron, insieme a Polidori, Percy Shelley e la giovane moglie Mary, ed altri. Polidori, infatti, riprese un frammento di un’opera che Byron aveva abbozzato durante quell’incontro con gli altri scrittori inglesi nella sua casa di Ginevra (di cui Vincenti parla nel testo successivo). Polidori lo rielaborò e lo completò, dando così vita al suo vampiro, mutuando dall’incompiuta di Byron parte della trama e il luogo dell’ambientazione, cioè la Grecia. Inoltre, il suo vampiro, Lord Ruthven, un dandy inglese di fine secolo, decadente e maledetto, ricorda molto Lord Byron poiché Polidori lo modellò proprio sulle fattezze e sul portamento, oltre che sul carattere, del suo satanico signore, riprendendo un altro personaggio analogo della letteratura horror inglese, vale a dire il vampiro Lord Ruthven Glenavron, creato dalla scrittrice Lady Caroline Lamb, e protagonista del suo romanzo omonimo del 1816. La Lamb (che nel testo successivo Vincenti colloca nella compagnia di Villa Diodati dove, in realtà, non fu mai presente) era una scrittrice di poco successo, che era stata innamorata di Lord Byron – per il quale aveva anche lasciato il marito- e poi da questi tradita ed abbandonata; il risentimento – che la accomunava a Polidori- la portò a rappresentare il protagonista del suo romanzo nelle vesti di Byron, e lo stesso fece Polidori il quale, del personaggio della Lamb, per il suo vampiro, mutuò perfino il nome, Ruthven. Il libro di Polidori ebbe molto successo soprattutto fuori dall’ Inghilterra, perché in patria scontava il grande odio in cui era tenuto lo scrittore Byron a causa delle sue intemperanze e della sua condotta amorale. All’estero, invece, soprattutto in Francia e in Germania, poi anche in Italia, l’opera venne tradotta e ne vennero tratte delle rappresentazioni teatrali. In Francia, fra le varie traduzioni, particolarmente efficace fu quella di Charles Nodier, Lord Ruthven ou les Vampires. Lo stesso Nodier, alcuni anni dopo, trasse dalla sua opera un adattamento teatrale, su libretto del tedesco Haeser e musica di Marschener. Quest’opera, Der Vampir, in quattro atti, rappresentata per la prima volta a Lipsia nel marzo del 1828, venne portata in tutte le principali città europee compresa Londra. Ed è alla rappresentazione londinese che Vincenti immagina che partecipi lo stesso Polidori il quale, tornato a casa e tormentato dai suoi incubi, poi, si dà la morte. In effetti, John Polidori si uccise, con “un sottile veleno di propria composizione” ma, dice la cronaca, a causa delle ristrettezze economiche, non potendo saldare un vecchio debito. «Mi è sempre piaciuto questo demonio, protagonista minore della narrativa horror dell’Ottocento», scrive Paolo nella sua nota di commento, «che anticipa il più famoso vampiro della storia della letteratura mondiale, ovvero Dracula di Bram Stoker. La frase “Il sangue è vita”, è molto nota ed è tratta dal Deteuronomio (12:23)».
A John Polidori dunque va attribuito il merito di aver per primo trasformato nel protagonista di un romanzo un personaggio comune alla cultura folcloristica dell’antichità (dalla Mesopotamia al mondo ebraico, dalla Grecia a Roma, ecc.): il “vampiro”! Egli scatenò nella letteratura anglosassone la “moda” dei vampiri, con romanzi come il lunghissimo Varney the vampire (pubblicato a puntate dal 1845 al 1847, tradotto in italiano solo nel 2010) di James Malcom Rymer, una specie di “telenovela” del terrore ante litteram (i fascicoli erano chiamati “penny dreadful” perché bastava un penny, un centesimo, per leggere un racconto spaventoso, “dreadful” appunto), ma anche Carmilla (1872) del dublinese Sheridan Le Fanu (814-1873), fino ad arrivare al più famoso di tutti, Dracula (1897) dell’altro dublinese Bram Stoker. Ma torniamo all’origine della storia con una breve digressione su un evento naturale accaduto dall’altra parte del mondo che ha avuto un influsso determinante sulla storia della letteratura inglese in primis: l’eruzione del vulcano Tambora dal 10 aprile al 23 agosto 1815, classificata VEI di livello 7 (su 8) cioè “supercolossale” con una colonna eruttiva alta 20 km (quindi fino alla stratosfera) di 100 km cubi di materiale in 12 ore. Il vulcano (allora alto oltre 4000 metri e dopo l’eruzione solo 2.850), sito sull’isola di Sumbawa nell’arcipelago della Sonda (Indonesia), esplodendo provocò uno tsunami con onde fino a 4 metri ed esplosioni udite a duemila km di distanza, oltre 200mila vittime dirette e chissà quante a causa delle grandi carestie provocate dalla copertura di polveri vulcaniche nella stratosfera che impediva il passaggio dei raggi del sole. Nel 1816 infatti ci fu quello che viene chiamato “l’anno senza estate” (o “l’anno della povertà”, in inglese “eighteen hundred and froze to death”), un’estate senza sole durante la quale la temperatura non superò i 10 gradi a luglio ed agosto, ci furono nevicate (neve rossa) e gelate a giugno, e piogge ininterrotte in autunno.
In quel 1816 Byron con Polidori soggiornarono nella villa Diodati a Coligny sul lago di Ginevra dove vennero raggiunti da una coppia di fuggitivi, il grande poeta romantico ventiquattrenne Percy Byshee Shelley (già sposato con Harriet Westbrook da cui aveva avuto 2 figli) e la diciannovenne Mary Godwin (figlia del filosofo William Godwin e della protofemminista Mary Wollstonecraft) insieme alla sorellastra di lei (e amante incinta di Byron) Claire Clermont. Doveva essere una piacevole estate sul lago tra amici poeti ed invece il gruppo fu costretto dalle piogge a restare chiuso nella villa e per passare il tempo, come ricorda la stessa Mary Godwin (che, sposando il poeta alla morte per suicidio della moglie Harriet nel 1816, prenderà il cognome del marito, Shelley), si misero a leggere storie gotiche, come La Fantasmagoriana, finché Byron non propose di cimentarsi loro stessi in un racconto gotico: Mary partorì Frankenstein, Polidori Il Vampiro ed i due poeti stralci usati per i loro poemi.
Come già detto, un personaggio che non fu a Ginevra con Byron fu la scrittrice Caroline Lamb, moglie (dal 1805) di un nobile che sarebbe diventato un importante personaggio politico in Inghilterra, più volte primo ministro e consigliere personale della giovane regina Vittoria: Lord Melbourne. Da sposata la Lamb fu amante di Byron dal 1812 al 1813 ed autrice anch’essa di un romanzo gotico (semiautobiografico), Glenarvon (1816), che ha per protagonista un personaggio byroniano. E questo ci porta all’altro racconto, ovvero Il viaggiatore. Questo testo si lega strettamente a quello precedente per contiguità di atmosfera (un po’ noir) e, in parte, di ambientazione. La scelta della residenza non fu casuale perché la Clermont voleva stare vicina a Lord Byron con il quale intratteneva una fosca relazione, dalla quale era nato anche un figlio; relazione, che le causava il disprezzo della sua famiglia, soprattutto di Mary, che non vedeva di buon occhio Byron, e l’odio di Polidori, consumato da un inconfessabile sentimento nei confronti del suo tirannico padrone. George Gordon Byron (1788-1824) autore del Childe Harold’s Pilgrimage e del Don Giovanni, esponente della cosiddetta “seconda generazione romantica”, è uno dei nomi più importanti della letteratura inglese dell’Ottocento. Fu proprio Byron, per scacciare la noia causata da quell’isolamento forzato, che ebbe l’idea di organizzare, nel salotto della sua villa, una pubblica lettura delle novelle dell’orrore più suggestive che si trovassero nella sua biblioteca. Poi Byron propose poi ai suoi amici di passare dalla teoria alla pratica e quindi di inventare essi stessi delle storie, macabre, fantastiche, insomma strane, da raccontarsi vicendevolmente. È Mary Shelley nella Introduzione della sua opera Frankenstein, a raccontare dettagliatamente come andarono le cose. Percy Shelley partorì la novella The Assassins; Byron iniziò un racconto che non riuscì a finire e che, col titolo A Fragment, verrà pubblicato nel 1819 nel suo poema Mazzeppa; anche Polidori iniziò una storia su una donna dalla testa di teschio che non convinceva per primo nemmeno il suo stesso autore (però Polidori metterà poi mano al racconto incompleto di Byron, trasformandolo nel suo romanzo Il Vampiro, come abbiamo già visto); Mary Shelley, infine, diede vita a Frankenstein; or The Modern Prometheus, il suo capolavoro, ed uno dei migliori prodotti della letteratura gotica e fantastica mondiale. Scrive Paolo nel suo commento:
«Nel mio testo, a Villa Diodati, si manifestano, nella notte, il Vampiro di Polidori, quello di Lady Caroline Lamb, il vampiro dimezzato di Lord Byron, Frankenstein della Shelley, ed anche il Fantasma dell’Opera di Gaston Leroux (1868-1927), il quale, in questa circostanza, è completamente decontestualizzato. Il protagonista del testo è un misterioso viaggiatore, che ricorda vagamente l’Ebreo errante, condannato, da chissà quale maledizione, a camminare per i secoli dei secoli; e così, attraversando tutte le ere storiche, incontra varie streghe (Diana, Canidia, Segana, ecc.) per le strade e nei cieli d’America, soffre le torture dei lager nazisti durante la seconda guerra mondiale, si infila anche nella trama dei manzoniani Promessi Sposi quale fantomatico Renzo, che abbraccia infine una sua Lucia e con lei vorrebbe fermarsi per sempre, ma sa che questo è impossibile perché, anche dopo che la sua amata non ci sarà più, lui, invece, ci sarà e dovrà continuare a viaggiare in eterno».
Un racconto molto interessante è L’istrione, con un titolo preso a prestito da una bellissima canzone di Charles Aznavour, cantante francese che ebbe un discreto successo anche in Italia fra gli Anni Sessanta e Ottanta. È, questo, un testo “meta letterario”, cioè di letteratura sulla letteratura. Infatti, “Istrione, ecc.” fa riferimento ad un’opera dell’autore inglese William Prynne, Istrio-mastix o il flagello degli attori, del 1633. Quest’opera, che rimanda al mondo del teatro e della recitazione risentiva del clima di forte opposizione che si era scatenato, in Inghilterra, agli inizi del Seicento, nei confronti del teatro, osteggiato soprattutto dai puritani che lo ritenevano un’arte fortemente immorale e portatrice di corruzione e vizio per i giovani. Il teatro era considerato l’osceno regno di Satana da Prynne, in questo suo violento libello, poiché, nell’arte teatrale, tutto era finzione e gli spettatori venivano ingannati. Inoltre, secondo Prynne e i suoi, dato che le rappresentazioni si tenevano di domenica, esse sottraevano i fedeli alle funzioni religiose, suscitando in loro anche peccaminosi desideri erotici, sia eterosessuali che omosessuali. Inutile dire che tanta ostilità non fece che aumentare il successo strepitoso del teatro stesso. «Prynne, nel mio testo», scrive Paolo, «che è ambientato nel secondo Novecento, diventa l’attore di grande successo che è stato compagno di studi dell’autore, il quale, non possedendo invece alcun talento, prova grande invidia per lui. Allora, cerca di convincere se stesso che il successo di Prynne ha qualcosa di strano, è procurato da una macchina, invenzione di questo fantomatico dottor Bottom, una macchina che anche lui, attore fallito, si vuole procurare per avere la gloria. Villiers de l’Isle-Adam (1838-1889) autore di numerose opere, fra cui appunto “La macchina del Dottor Bottom”, tratto da Racconti crudeli, nel mio testo diventa il mediocre giornalista che aveva riportato questa notizia su un giornale di terz’ordine; notizia alla quale l’autore aveva subito prestato attenzione perché essa poteva essere risolutiva della sua situazione di precarietà e di insuccesso».
Come vediamo, Vincenti è affascinato dal gotico ed oltre a Polidori, coinvolge altri autori di genere fantastico o fantascientifico come appunto Villiers de L’Isle Adam, autore non solo dei Racconti crudeli ma anche di Eva Futura (dove inventa il termine “androide”); e poi coinvolge l’autore inglese G.K. Chesterton (1874-1936) col suo famoso personaggio di Padre Brown, e il Golem di Praga nel romanzo di Meyrink, in Doppie visioni Di Athanasius Pernath. «Questo testo è liberamente ispirato a Il Golem di Gustave Meyrink», scrive Paolo nel commento, «uno dei libri più belli che abbia letto in vita mia. Mi è piaciuto ricreare fra le pagine le atmosfere della magica Praga del tempo che fu, con le sue chiese e le sue strade, e con i vicoli del ghetto ebraico fra i quali si aggira l’Ebreo errante, leggendaria figura al centro di tante opere letterarie dal Medioevo ad oggi, che mi ha sempre suggestionato».
Si allarga a scrivere lui stesso un racconto gotico (Uno strano rigattiere) che ha come protagonista un “lupo mannaro”, con evidente riferimento alle Metamorfosi di Ovidio.
Se non manca un angolo tutto salentino con riferimenti al vino (Dolce Bacco), alla pizzica, al Salento (Sallentum), Vincenti, autore col tarlo della scrittura, s’interroga spesso (in La scrittura del Tarlo) sul ruolo dello scrittore: “Lo scrittore ha pazienza certosina mentre combina insieme parole”.
E che cosa ha “combinato” Paolo Vincenti? Un bizzarro e simpatico “pastiche” in versi e prosa, un “collage” di letteratura e letterature, straniere, strane e nostrane.