Pietro Marti (1863-1933). Giornali e polemiche nel Salento fascista

In un articolo intitolato antifrasticamente La mia ignoranza il Modoni si faceva beffe di uno dei massimi esponenti nazionali del futurismo, del pittore Gerardo Dottori, famoso per i suoi quadri di carattere paesaggistico urbano, e irrideva l’arte futurista in generale. La risposta alla provocazione non tardò a farsi sentire da parte dei futuristi, collaboratori anch’essi della “Voce”, i quali gli riversarono addosso pesantissime offese personali. La maggioranza stava con gli antifuturisti, che risposero agli attacchi con poesie in lingua e in dialetto, prendendosi gioco del movimento di Marinetti con caricature e sberleffi. Una di queste è del poeta dialettale Raul Pigla, pseudonimo di Raffaele Pagliarulo, il quale scrisse:

Dante – lu piccinnu – t’ha deacàta

‘na caniscia de scienzia, ca nu cridi

all’arte futurista, entulisciata

de Marinetti e soci. Tocca bidi

cu lu sensu le linie e li zzengàli

ca stanu semmenati ‘ntra dre tile,

tie ‘nvece le uardasti cu li nchiali

decendu: Quiste suntu ratatile.

Lu stessu ccappai ieu, d’autra manèra,

edendu sutta iancu e subra nule

dissi: Nevicata! e sai cce bera?

– Na sciurnata de miessi cu lu sule. –

E perciò persuadimuni, cullega,

pe nui lu Futurismu cussì scuru

è roba de cecati, ca la spiega

te la dae sulamente lu…futuru.

La polemica andò avanti per ben otto numeri del giornale, nel corso della quale i contendenti se ne dissero di tutti i colori, e cessò con un intervento d’autorità di Pietro Marti. Il quale, dopo aver difeso le ragioni dei passatisti e dell’arte ottocentesca in tutte le sue declinazioni, in cui egli si riconosceva, invitò tutti ad essere rispettosi di chi la pensava diversamente.

Tra i futuristi più esagitati incominciava a distinguersi un giovanissimo Vittorio Bodini, che era nipote di Pietro Marti.

La seconda fase della polemica si sviluppò l’anno successivo. Fu sempre Vincenzo Modoni a provocarla. In un articolo chiese provocatoriamente ai futuristi di spiegargli un testo del poeta Elèmo D’Avila, apparso su “Vecchio e Nuovo”, la rivista di Ernesto Alvino, che da qualche tempo aveva assunto carattere di militanza futurista. Si trattava di sole-acciaio-domani-paroleinlibertà. La reazione non si fece attendere e furono nuovamente contumelie da ambo le parti, che in verità si confrontavano non già sulla base di opere creative o dottrinali ma facendo il tifo chi per il futurismo e chi per il passatismo. Ancora una volta dovette intervenire il direttore Pietro Marti, ma senza molto successo. Il Bodini disse che lui amava la polemica letteraria e che avrebbe voluto un paio di avversari al giorno per “sbudellarli”. La polemica continuò stancamente con altri interventi e passò in secondo piano quando ne scoppiò un’altra di ben diversa portata e natura.

Questa ultima polemica preoccupò non poco il Marti per l’accusa che gli fu rivolta, di fomentare polemiche e di non saper interpretare la pubblica informazione secondo lo spirito del tempo. A gettargli tra i piedi la bomba fu il direttore de “Il Corriere del Salento”, l’organo ufficiale della Federazione Fascista di Terra d’Otranto. La polemica nacque da un motivo culturale sulle celebrazioni dei 2l00 anni della morte del poeta latino Quinto Ennio (169 a.C. – 1931). La “Voce” aveva ripreso un articolo di Oronzo Valentini (da non confondere con il direttore della Gazzetta del Mezzogiorno) sull’argomento, apparso sul “Corriere”, contestandogli alcune affermazioni. Il “Corriere” la mise subito sul piano politico ed intimò alla “Voce” di finirla con le polemiche perché ritenute dallo spirito fascista negative e dannose per il popolo. E quando Pietro Marti gli rispose che il suo fascismo non poteva essere sospettato e fece riferimento ai suoi trascorsi e soprattutto alla precedente rivista da lui fondata e diretta “Fede”, il “Corriere” gli rispose che proprio in quella rivista c’erano le prove del suo falso fascismo, indicando anno e numero in cui era apparso un articolo che sembrava prendere le distanze dal fascismo dopo il delitto Matteotti del 10 giugno del 1924. Quel giorno il segretario del Partito socialista Giacomo Matteotti fu rapito e ucciso. E quando si scoprì il cadavere ci fu nel Paese un’ondata di sdegno e di incertezze, si aprì una vera crisi, che sembrava potesse travolgere perfino Mussolini e il fascismo. Molti fascisti rimasero incerti e sgomenti; altri, soprattutto vecchi antifascisti, cominciarono a rialzare la testa. Tra gli incerti, a distanza di anni, fu accusato di esserci anche il Marti. Che subì una sorta di fatwa con un articolo intitolato Scripta manent! Un uomo distrutto. Una sentenza di questo tenore: “Pietro Marti non può più discutere: gli neghiamo il diritto alla polemica. Egli ha solo il diritto di smentirci. Lo faccia! Lo additiamo intanto al disprezzo di tutti i fascisti. E ci chiediamo se sia consentito a un tanto uomo di dirigere, dopo un decennio di governo di Mussolini, un giornale che si strombazza fascista”.

Marti rispose con una lenzuolata, in cui elencava tutti i suoi titoli di benemerenza fascista, i suoi illustri collaboratori, la sua amicizia personale con Achille Starace, segretario nazionale del Partito fascista, e che proprio lui, con “Fede”, aveva contribuito a risollevare il fascismo quando in tanti nel 1924 si defilavano. Non valse neppure l’intervento di Ernesto Alvino, che, su “Vecchio e Nuovo” chiarì di essere stato lui l’autore dell’articolo incriminato. Fu necessario l’intervento del federale del Partito fascista Antonio Della Rocca, che intimò ai duellanti di chiudere la polemica.

Tutto questo accadeva alla fine del 1932. Marti morì qualche mese dopo, il 18 aprile 1933.

Pur essendo un vecchio e robusto polemista, Marti dovette soffrire non poco per quanto gli era accaduto pochi mesi prima. Nell’articolo che il figlio Alberto scrisse per la sua morte riportò una riflessione autobiografica del padre, scritta nella prefazione di un libro di Memorie, che per la sopraggiunta morte non avrebbe portato a compimento. È illuminante per capire chi fu veramente Pietro Marti e il suo rapporto col fascismo, che tanto lui sembrava sostenere e propagandare: “Oggi, la società, per consentirmi un qualsiasi grado nel gran ballo della officiosità convenzionale mi ha imposto una maschera d’istrioneria, una casacca di adattamento; ma io soffoco, sudo, e, quando mi trovo solo di fronte al mio sogno infranto, ho bisogno di liberarmene, per respirare l’aria purissima dei miei inganni giovanili”.

[Intervento letto in occasione dell’Incontro di studi “Pietro Marti. Un intellettuale inquieto tra Otto e Novecento”, Casarano, Liceo Docet, 21 aprile 2023]

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