L’intelligenza artificiale non prenderà mai il sopravvento

di Antonio  Errico

Quando si ritrova davanti a certe notizie, l’uomo della strada si sente un po’ confuso, disorientato. Intimorito. A volte si dice anche che l’aveva pensato, intuito, sentito. Ma da uomo della strada non ci aveva fatto caso; si era detto che certamente si sbagliava. Poi gli arrivano certe notizie, che in qualche modo gli danno ragione. Ma questo non lo conforta. Anzi, al contrario. Quando l’uomo della strada ha letto sul “Messaggero” di qualche giorno fa l’editoriale di Francesco Grillo e le due pagine dedicate all’intelligenza artificiale, è rimasto un po’ confuso, disorientato. Intimorito. Se lo scienziato informatico e psicologo Geoffrey Hinton, che ha contribuito in modo assai significativo allo sviluppo dell’intelligenza artificiale, confessa le sue paure e dice di sentirsi come quell’altro scienziato che dopo aver inventato la bomba atomica ha passato la vita cercando di convincere il mondo a non usarla, l’uomo della strada è costretto a dirsi che aveva ragione lui ad essere perplesso. Se Hinton dice che è difficile impedire che l’IA possa essere impiegata per scopi cattivi, l’uomo della strada si sente autorizzato ad avere paura.

Nei confronti di questa dimensione, che pensa come una combinazione di scienza e fantascienza, realtà, surrealtà, finzione, prova meraviglia, inquietudine, sbalordimento, ancora disorientamento, ancora confusione. Poi, cerca di trovare, almeno per se stesso, una consolazione. Così si dice, per esempio, che l’intelligenza artificiale non prenderà mai il sopravvento perché non può avere immaginazione, il guizzo della fantasia. Poi sospetta che forse si sbaglia, che un giorno possa accadere anche questo: una macchina che immagina, che ha fantasia, che scrive romanzi, canzoni, poesie, che scolpisce il Mosè come lo scolpì Michelangelo, compone la Nona come la compose Beethoven. Sospetta che possa accadere anche questo. Non gli piace. Ha paura. Di innumerevoli romanzi perfetti, di opere d’ogni arte perfette, di un incipit più bello dei primi quattro versi della “Sera del dì di festa” composti da una macchina, l’uomo della strada ha paura. Siccome  non  sa assolutamente nulla di robotica e di programmazione di macchine, siccome  dell’intelligenza umana si fida esclusivamente perché conta sull’intervento  dell’istinto di sopravvivenza, considerando che lo stesso istinto non possa supportare l’intelligenza artificiale, allora ha paura.

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