Di mestiere faccio il linguista 3. Contro il morbus anglicus serve insegnare l’italiano a scuola, non le multe!

Ho dato analiticamente conto di quel testo, riportando tra virgolette alcuni passaggi. Negli interventi nella stampa e in rete non sempre è stato adottato lo stesso metodo. Molto frequenti sono le approssimazioni e le dichiarazioni per preconcetto o partito preso (in vario senso). Servono invece valutazioni obiettive, poggiate su dati, inserite in una corretta prospettiva dei fenomeni linguistici in atto e fondate su una visione chiara del tipo di società che vogliamo. Più che mai in un caso come questo, le scelte linguistiche hanno forti ricadute sociali. Imboccare strade a prima vista facili può avere effetti nefasti, anche a breve termine.

Da decenni impetuose ondate di anglismi si riversano nell’uso di chi parla e scrive le più varie lingue del mondo. Si tratta di un fenomeno letteralmente planetario, non riguarda solo noi. In Italia le prese di posizione contro  l’invadenza delle lingue straniere non nascono oggi.  Nel Novecento, negli anni tra le due guerre, durante la campagna xenofoba linguistica del fascismo, l’ostracismo contro i vocaboli stranieri generava buffe soluzioni (mai accettate dai parlanti, in verità), come sostituire «cognac» con «acqua arzente» (locuzione suggerita da G. D’Annunzio) e «cocktail» con «bevanda arlecchina». Addirittura ci fu chi proponeva di tradurre in italiano nomi propri e cognomi, per cui «Louis Armstrong» (che per di più era nero, circostanza aggravante, agli occhi di alcuni) diventava «Luigi Braccioforte»  (come se oggi invece di «Jack Nicholson» dicessimo «Giacomo Figlio di Nicola») e amenità simili. Dopo la seconda guerra mondiale, vinta dagli angloamericani, il mito della loro lingua e della loro cultura  attraversò le opere letterarie di Beppe Fenoglio, di Cesare Pavese e, in diversi contesti, di Elio Vittorini e di tanti altri; ad un livello popolare si tradusse in film come «Un americano a Roma» di Alberto Sordi  e in canzoni come «Tu vuò fà l’americano» di Renato Carosone. Il fenomeno in crescita fu percepito dagli specialisti del linguaggio. Arrigo Castellani, storico della lingua italiana e filologo di vaglia, nel 1988 intitolò un suo articolo «Morbus anglicus»: l’inglese somigliava a una malattia che infettava e corrompeva il corpo della lingua italiana. Lanciata da una pubblicitaria, sottoscritta da molti linguisti, raccolse un consenso straordinario la petizione «Dillo in italiano», che invitava ad adoperare parole italiane per rendere i discorsi più chiari ed efficaci, fattore di trasparenza e di democrazia.  Si intitolò «La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi» un convegno del 2015 promosso dell’Accademia della Crusca  con la collaborazione della Società Dante Alighieri: il tema dei forestierismi e dei neologismi fu trattato in una dimensione internazionale, mettendo a confronto le esperienze di paesi diversi, con equilibrio e con rigore scientifico. Tanti altri esempi sarebbe lungo ricordare.

Torniamo al punto di partenza. Se questi sono i dati e le posizioni già ampiamente espresse, quale atteggiamento assumere di fronte alla pervasività dell’inglese (o meglio dell’anglo-americano), fenomeno di dimensione mondiale? Le lingue, come tutti gli organismi viventi, sono in evoluzione continua e si  arricchiscono attraverso il prestito di parole nuove. Tutte le lingue sono mescolate, non esistono lingue pure (come non esistono razze pure, il razzismo è scientificamente infondato, oltre che odioso). La commistione nasce da scambi e da movimenti di popoli di portata gigantesca e inarrestabile. L’italiano è ricco di francesismi, ispanismi. germanismi, arabismi; parole arrivano a noi  anche da lingue lontane come il giapponese e il cinese. E, nel frattempo, l’italiano si diffonde tantissimo all’estero, molto oltre le comunità di nostri emigranti che vivono in altri paesi europei e nelle due Americhe. Fenomeni epocali non si governano a colpi di legge o di imposizioni. Le leggi contro l’uso di parole straniere hanno fatto il loro tempo e, la storia insegna,  non sortiscono alcun effetto. La battaglia contro le parole straniere è vacua, il purismo autarchico non ha senso. Anzi, paradossalmente, «la proposta di sanzionare l’uso delle parole straniere per legge, con tanto di multa, come se si fosse passati col semaforo rosso, rischia di vanificare e marginalizzare il lavoro» di quanti si battono da anni con pubblicazioni scientifiche, con interventi sui media e nelle sedi più diverse, per difendere l’italiano «dagli eccessi della più grossolana esterofilia, purtroppo molto frequente» (ricorda Claudio Marazzini, appena nominato presidente onorario dell’Accademia della Crusca).

Le sanzioni rischiano di gettare nel ridicolo le posizioni di coloro che amano seriamente l’italiano e intendono intelligentemente valorizzarlo. Non ci sono armate linguistiche alle frontiere. Non si vive e non si opera bene in una società caratterizzata da divieti inapplicabili (nella lingua e in altri campi), che molto somigliano alle grida manzoniane. Di fronte ai problemi posti dalla complessa società moderna bisogna individuare altre strade, più adeguate, anche se impegnative.  Le lingue straniere non vanno respinte, vanno studiate e ben conosciute, il plurilinguismo è fondamentale per rispondere alle esigenze della società odierna e futura. E, nello stesso tempo, bisogna favorire la conoscenza piena dell’italiano e l’uso articolato, consapevole e variato, della nostra lingua. Per il buon uso della lingua, esempi autorevoli e buone pratiche quotidiane sono più efficaci di qualsiasi prescrizione o di qualsiasi sanzione. Se guardiamo alle dichiarazioni pubbliche di alcuni politici (e loro corifei stolidi), la scuola sembra interessare sempre meno. Risuonano voci infauste che invogliano a non studiare, sirene di un malinteso senso del fare, troppo spesso senza riflettere su quel che si fa. Invece va praticata la strada opposta. Istruiamo le persone (i giovani, ma anche gli adulti, minacciati da forme catastrofiche di analfabetismo di ritorno), favoriamo lo studio, miglioriamo la scuola, innalziamo il livello culturale delle masse. Istruzione, istruzione, istruzione (sollecita a gran voce Francesco Sabatini, anch’egli presidente onorario dell’Accademia della Crusca).

Ha ragione, è la via giusta (l’unica via) per dare valore alla nostra lingua, che amiamo moltissimo.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 7 maggio 2023]

                                                                                                                                             

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