Ai dirigenti scolastici e ai professori spetta l’attuazione del Piano Scuola. Non entro nell’impostazione del decreto ministeriale, ma almeno una cosa voglio dire. La risposta alle «esigenze didattiche e formative delle studentesse e degli studenti rispetto alle sfide poste dai cambiamenti culturali, sociali, economici, scientifici e tecnologici del mondo contemporaneo» consisterebbe in «“ambienti di apprendimento innovativi” connessi a una visione pedagogica che mette al centro l’attività didattica e le studentesse e gli studenti, secondo principi di flessibilità, di molteplicità di funzioni, di collaborazione, di inclusione, di apertura e di utilizzo della tecnologia». Neanche una parola sui contenuti: il modello iperpedagogico da anni arrembante nella scuola e nell’università pretende di spiegare ai professori come insegnare, trascurando la sostanza delle discipline e l’impegno che l’apprendimento richiede.
Così vanno le cose nel mondo della scuola, chiamato ad osservare disposizioni e indicazioni del tipo che abbiamo visto. Ma, perché le cose funzionino, è necessario (in qualsiasi circostanza, non solo nel caso di cui parliamo) che gli obiettivi siano precisi e chiaramente espressi, in una lingua limpida e accessibile. Mi chiedo cosa possano esattamente comprendere (e quindi come dovrebbero operativamente agire) dirigenti e professori chiamati a raggiungere obiettivi espressi in una lingua come quella di cui ho presentato qualche campione. Frasi pompose e lessico fintamente tecnico atti a mascherare la fumosità degli intenti.
Tanto più che nell’intero testo dilagano anglismi spesso incomprensibili, usati in continuazione. Ecco qualche esempio. Il programma dovrà avvenire in quattro passaggi: «Background», il primo, «Framework», che unisce il secondo e il terzo e, da ultimo, «Roadmap». La trasformazione degli ambienti di apprendimento è etichettata come «Next generation classrooms»; le “azioni” sono definite «Next Generation Class», «Next Generation Labs»; è prevista la rendicontazione di «milestone» e «target»; sono evocati i principi del «Do No Significant Harm», si parla di «check list», di compiti di «driver» dell’innovazione, «mentoring», «Digital board», «peer learning», «problem solving», «multiliteracies», «debate», «gamification», «making», «blockchain», «Task force Scuole», «outcome».
Di nuovo. Alzi la mano chi ha capito cosa significano le parole e le frasi che (quasi scegliendo a caso) ho estratto dal testo del Piano Scuola. Mi chiedo cosa succederà nelle scuole di tutt’Italia quando dirigenti e professori discuteranno di attuare quanto il Ministero richiede. Non si tratta, preciso subito, di ingaggiare battaglie contro la lingua inglese. Né tanto meno di infliggere multe a chi usa parole inglesi scrivendo nel modo che abbiamo visto, magari una sanzione amministrativa consistente «nel pagamento di una somma da 5.000 euro a 100.000 euro», come vorrebbe una proposta di legge recentemente presentata a Montecitorio (parleremo di questa proposta un po’ grossolana in un’altra puntata della rubrica). Si tratta invece di opporsi a una burocrazia che usa una lingua incomprensibile e pretende con questo (o meglio, nonostante questo) di progettare un futuro migliore per la scuola e per l’intero paese.
In questa sede non faccio dichiarazioni di simpatia politica (anche se forse i miei orientamenti traspaiono dalle cose che scrivo). Non certo per identificazione politica richiamo le dichiarazioni dell’ex Presidente del Consiglio Mario Draghi (uno che l’inglese lo parla fluentemente e quindi non teme di non capire parole e frasi di quella lingua) contro l’abuso degli anglismi nella lingua italiana. In una conferenza stampa, dopo aver letto un comunicato ufficiale, si chiese: «Chissà perché dobbiamo usare tutte queste parole inglesi: “smart working”, “baby sitting”?». E citava espressioni («smart working», «baby sitting») senz’altro più note alla maggioranza degli italiani, di «mentoring», «Digital board», «peer learning», «problem solving», «multiliteracies», «debate» e altre squisitezze che abbiamo elencato prima.
«Ci si può chiedere se questa serie quantitativamente notevole di prestiti integrali in un testo che propone il rinnovamento della scuola italiana sia utile» domanda (implicitamente rispondendo che non è utile) il Comunicato n. 22 del Gruppo Incipit. Il Gruppo Incipit opera nell’Accademia della Crusca con lo scopo di monitorare i neologismi e i forestierismi incipienti, nella fase in cui si affacciano alla lingua italiana e prima che prendano piede, suggerendo alternative agli operatori della comunicazione e ai politici, con le relative ricadute sulla lingua d’uso comune. In questo caso, in verità, l’alternativa parola per parola è impossibile, il Piano Scuola è incomprensibile. Al più, forse, il Ministero potrebbe far circolare una versione del Piano “tradotta” per gli utenti comuni o un semplice manualetto di istruzioni. Nella speranza che le toppe funzionino.
Politici e funzionari ministeriali (pagati tutti lautamente) facciano infine il loro mestiere. Chi deve agisca rapidamente, per il bene della scuola e dell’Italia.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 30 aprile 2023]