Una civiltà ha bisogno di molti libri profondi

di Antonio Errico

Si dice che i lettori siano sempre di meno. Si dice anche che i pochi che leggono lo facciano in modo distratto. Ma, in fondo, poi, tanto, leggere non fa vivere né meglio né peggio. Leggere non ci fa più felici e nemmeno più sapienti. Leggere ci fa soltanto vedere noi stessi in un modo diverso, gli altri, i fatti, le cose, le storie, il mondo in un modo diverso. Chi legge ha una diversa idea del vero e del falso, un altro modo di confrontarsi con la realtà e l’immaginazione, con la vita e con la morte, con la concretezza e l’astrazione. Questo non significa che la visione del mondo di colui che legge sia migliore, più giusta, più bella di quella che ha colui che non legge. Significa, semplicemente, diversa. C’è anche chi dice che il tempo dedicato a leggere, e soprattutto quello dedicato a scrivere, sia un tempo disperso, bruciato, negato agli altri, a coloro che ci appartengono, ai quali apparteniamo, che hanno un valore che non regge nessun paragone con miliardi e miliardi di parole che si possono leggere, miliardi e miliardi di parole che si possono scrivere. Non ci può essere nessun paragone.

I libri non sono altro che compagni di strada. Uno può volerli accanto nel corso del viaggio; un altro può preferire compagni diversi da loro; un altro ancora preferisce andare da solo. Perché gli basta l’esistenza che ha, la sua storia, la sua memoria; gli bastano le creature e i luoghi che ha conosciuto, i suoi sentimenti, le passioni, le sensazioni, le percezioni, le emozioni, le cognizioni che ha. Forse chi legge ha qualche possibilità in più di fare il viaggio a passo un po’ più svelto. Lo diceva uno che leggeva con una voracità da fare spavento. Si chiamava Giacomo Leopardi. In una pagina dello “ Zibaldone” scriveva d’essersi accorto che la lettura dei libri non aveva prodotto in lui né effetti o sentimenti che non avesse già. Però li aveva accelerati, fatti sviluppare. Per cui, trovando la strada come aperta, poteva correre più speditamente.

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