2. Ambiente e usanze
Per l’uscio di strada si entra nell’unica stanza che costituisce l’abitazione del bracciante o del contadino. A seconda della stagione si spande per essa un afròre di zucche, cocòmeri e poponi conservati sotto il letto o disposti in bella vista sull’assito che divide in due la stanza grande. Da agosto a novembre, e anche dopo, quando avviene la consegna all’opificio, gruppi di filze di tabacco pendono dal soffitto. Se la famiglia è numerosa, una scala posticcia di legno mena al palco, cioè ad un piano fatto di travi o di assi connessi tra loro. E’ la parte di casa riservata alle donne, specialmente a quelle giovani. Lì esse dormono e gestiscono la loro sfera privata. Quando invece lo spazio tra il palco ed il tetto è così basso da non poter essere utilizzato come soffitta, si ha il palco a tetto o palco morto, per riporvi provviste, arnesi, recipienti ed altro. Il pavimento è fatto di lastre di pietra leccese e viene imbiancato con polvere di tufo specialmente nei giorni di scirocco, quando l’aria è pregna di umidità. Accanto alla porta, sulla strada, un usciolino si apre e si chiude girando sui cardini. Esso nasconde, per mancanza di fogne, una cameretta sotterranea murata in cui vanno a finire gli escrementi.
Se il contadino possiede una bestia da soma oppure una bestia da sella col carro, ha bisogno almeno di due stanze. Di solito esse sono attigue o messe in linea. Parte della prima stanza funge da riparo per il carro agricolo, o per lo char-à-banc, per il trasporto delle masserizie e delle persone di famiglia impiegate nel lavoro dei campi. In tal caso la seconda stanza serve soprattutto per dormirci e per camino al fine di cuocere i cibi e per scaldarsi. La bestia deve attraversare i due ambienti per raggiungere la stalla, la quale può essere o un fabbricato a capanna oppure una stanza a terreno staccata dal corpo della casa a mezzo di un pozzo di luce dove si apre la cisterna. Questa, d’altra parte, è spesso scavata nella prima stanza con la bocca a livello del lastricato. Di solito nella seconda stanza sul piano di un’angoliera fissata nello spigolo tra due muri, sono disposte in cornice le immagini dei defunti, a protezione della casa, tra vasi di fiori sempre freschi. In onore di esse arde una lampada a olio. E’ un rito che discende per secoli dalla famiglia rurale romana. In sua vece a Roma la classe dei nobili ha costruito il lararium.
La struttura dell’abitazione del contadino svela un aspetto di vita primitivo e, come tutte le cose spontanee, vario e nuovo. Esso è fatto di una frequentazione, quasi ora per ora, con l’animale domestico, il cane, il cavallo, l’asino, il mulo, e qualche volta la pecora o la capra. La gallina stava come a casa sua e razzolava fra i presenti. Il contadino vi si è abituato facilmente in una società senza prospettive in cui proprio la mancanza e quindi l’abbandono di ogni disegno fa sentire l’uomo più vicino alla bestia.
In questa realtà alcuni scrittori meridionalisti come Carlo Levi, Rocco Scotellaro, Tommaso Fiore, per fare soltanto alcuni nomi, hanno rinvenuto l’oggetto delle loro sconsolate meditazioni, in cui si cela, per così dire, l’anima della nostra civiltà contadina.
3. Aspetti della legislazione fascista anticontadina
In quest’ambiente angusto e meschino, il fascismo ha via libera per promuovere l’accrescimento della popolazione, primo passo sulla via della dissennata politica di potenza e di imperialismo coloniale che si ha la dabbenaggine di intraprendere, quando in Europa ha già avuto inizio il processo di decolonizzazione.
La legislazione fascista, difatti, controlla l’emigrazione, favorisce i rimpatri, tassa gli scapoli, assicura l’esenzione fiscale ed altri privilegi alle famiglie numerose e vieta la propaganda sul controllo delle nascite. Il nostro contadino, tornato dai campi a sera nella sua umile abitazione dopo una lunga giornata di fatica, avvezzo per natura a volere la Venerem facilem parabilemque di Orazio, Satire, 1, 2, 119, sicura, immancabile e senza la commedia della seduzione che sperpera le energie nervose con la ricerca eccitante e disordinata del soddisfacimento sessule, viene così educato ad intendere l’attività sessuale monogamica soltanto come attività genitale, invece che in tutta la sua ampiezza di vitalità psichica. Dove c’è stato bisogno di nozioni metodiche, educative e volte a rendere meno rozza la vita del sesso, il fascismo ha impartito alla gente nozioni saltuarie e morbose.
Col discorso dell’Ascensione, il 26 maggio 1927, Mussolini ordina alle donne italiane di sfornargli per la seconda metà del secolo sessanta milioni di Italiani. Le donne d’Italia, invece, rispondono (altro aspetto non ancora studiato di una certa indifferenza nei riguardi della politica del regime), partorendo nel 1928 diecimila marmocchi in meno che nel 1927, e nel 1929 trentaquattromila in meno rispetto al 1928. Dopo una ripresa nel 1930, nel 1931 si hanno settantacinquemila nascite meno che nell’anno precedente. Non siamo in grado di attestare il comportamento delle donne di Galatina, in quanto presso l’ufficio anagrafico della nostra città sono stati distrutti i documenti concernenti la situazione delle famiglie relativi a quegli anni. Tuttavia dobbiamo dire che anche a Galatina, come del resto nell’Italia meridionale in genere, sull’onda retorica di un’Italia paesana fatta di baldi zappatori, di rosee contadinotte e di famiglie solide, in conseguenza della legislazione fascista su richiamata, l’appello di Mussolini viene raccolto da numerose persone. Dobbiamo aggiungere che ciò accade anche con il consenso della Chiesa, che avalla questa politica, spinta dall’ossessione sessuofobica che ha trasformato il messaggio cristiano di amore e di semplicità di vita, in terrore angoscioso del peccato. Nasce così anche a Galatina la tragica realtà della famiglia-ghetto.
I conviventi praticano un’alimentazione molto approssimativa e del tutto insufficiente. Le pratiche igieniche sono arcaiche ed assolutamente aliene da spirito di prevenzione. L’abbigliamento è umile e dimesso. Gli uomini nell’estate non usano calze né scarpe. La mortalità infantile è molto elevata, non mancano le nascite illegittime ed è assai sviluppata la litigiosità giudiziaria. Ipoteche, subaste per imposte non pagate sono all’ordine del giorno. Le donne si inurbano per servizi domestici. La frequenza scolastica dei fanciulli è assai ridotta ed i giovani arrivano al momento di essere reclute sempre più numerosi in condizione di analfabeti. Forme di intossicazione per abuso di bevande alcoliche sono assai diffuse. Ciò accade perché il povero ama più l’osteria della casa, in quanto la famiglia gli è motivo di pena e non di gioia, e sa che la fatica non gli consente mai di liberarsi dalla miseria.
Questi nuclei familiari hanno fornito alla borghesia agraria fascista il sottoproletariato rurale. Da questo processo di assoldamento è nato il populismo fascista di sostanza politicamente e culturalmente reazionaria.
Intanto il fascismo tenta in queste condizioni la sbracciantizzazione con una politica dei campi i cui capisaldi sono la battaglia del grano e l’opera di bonifica integrale.
Chi però esamini bene quei due momenti di politica agraria, si accorge che essi tornano soltanto a vantaggio dei proprietari terrieri. La battaglia del grano, infatti, incoraggia e premia la coltura base del latifondo e fissa un preciso indirizzo protezionistico in campo agricolo.
La bonifica integrale, invece, pur in complesso opera da considerarsi positiva, attribuisce allo Stato il finanziamento di opere che devono essere eseguite dai privati e finisce quindi col diventare un vero e proprio regalo a questi ultimi.
Dal 30 settembre al 3 ottobre 1925 si svolge il Congresso per lo sviluppo economico del Mezzogiorno che si risolve in una presa di posizione contro il pericolo degli espropri a carico dei proprietari di terre. Viene quindi creato il 4 marzo 1926 un Comitato permanente per l’emigrazioni interne, col compito di arrestare amministrativamente i fenomeni di urbanesimo e l’esodo dalle campagne. Il fine è quello di tenere bassi i salari. Difatti la borghesia agraria, ormai incorporata nel fascismo, ha capito che la concorrenza delle industrie urbane promuove l’aumento dei salari, e corre ai ripari. Al contadino ed al bracciante viene quindi imposta la permanenza nelle zone malariche da bonificare. E’ questo lo sbocco di tutta una politica di persecuzione anticontadina, passata attraverso alcune fasi precise.
In un primo tempo abbiamo la soppressione con la violenza delle organizzzazioni rurali e dei contratti collettivi di lavoro che i contadini hanno conquistato tra il 1918 ed il 1922. Tra le conquiste più importanti ha particolare rilievo l’abolizione della terzeria. I proprietari, in virtù di questo sistema, senza spese prendono i due terzi del prodotto, lasciando un terzo al contadino. Sementi, concimi chimici ed altri prodotti necessari all’agricoltura sono a carico del mezzadro che ha l’obbligo di praticare le colture ordinate dal proprietario o dal suo intendente. I figli del contadino non possono sposarsi senza il permesso del proprietario. Si tratta di una sopravvivenza feudale volta a prevenire il sovrappopolamento dei fondi e delle case coloniche. Dobbiamo osservare, per amore di verità, che alcuni aspetti di queste norme non hanno trovato attuazione, per quanto è a nostra conoscenza, né a Galatina né nel Salento in genere. Casi non rari, invece, si potrebbero rinvenire in provincia di Foggia e specialmente nella zona del Gargano.
Poi ci sono le appendici: il contadino deve fornire ogni anno un certo numero di giornate senza salario sul fondo del proprietario, deve versare una somma annua per l’affitto della casa colonica, deve pagare una speciale tassa se vuole allevare il maiale, deve infine portare gratuitamente al proprietario un determinato numero di galline ogni anno e di uova ogni settimana. Questa convenzione è stata praticata fino a pochi decenni fa nella zona del Capo di Leuca e specialmente nell’agro di Tricase. La misura del patto, di solito, è stata indicata dall’intendente. Al momento convenuto è subentrato il proprietario, che ha operato un taglio sulla prestazione obbligante del contadino, vincolandolo così al sentimento della gratitudine nel momento in cui gli è stato imposto un sopruso.
Segue poi il decreto dell’11 gennaio 1923, n. 252 con cui si annulla quello del 2 settembre 1919 noto sotto il nome di decreto Visocchi, mediante il quale è stato riconosciuto ai contadini poveri organizzati in cooperative il diritto di occupare le terre incolte o male coltivate, appartenenti ai grandi proprietari, per un determinato numero di anni, variabile secondo le colture. Questa concessione ha avuto da parte del governo il fine di incrementare la produzione agricola del paese. In seguito all’annullamento del decreto Visocchi, vengono dichiarate illegali le occupazioni di terre già effettuate e legalizzate dalle Commissioni provinciali. I contadini poveri ed ex combattenti vengono espulsi da quelle terre. Il loro danno è enorme, ma in compenso è notevole il profitto dei grandi proprietari. I contadini, difatti, hanno occupato terre incolte ed invase dalle erbacce, le hanno lavorate in pura perdita e ne vengono espulsi proprio quando le terre incominciano a produrre ed i proprietari ricevono, in cambio, campi grassi e fertili. E’ una mazzata che mette in agitazione il mondo contadino di tutta l’Italia. Naturalmente non mancano le sue ripercussioni anche a Galatina.
4. Il sovversivo
In questo clima, difatti, nasce sull’onda di una interessata propaganda che falsifica i dati del processo reale, l’azione del cosiddetto sovversivo.
Nella storia della questione meridionale bisogna registrare due significati diversi di questo termine. V’è il sovversivo generato dall’odio del contadino, inteso questi anche come piccolo e medio proprietario, contro il cosiddetto signore. Questo stato d’animo nasce soprattutto dall’avversione tradizionale della campagna per la città. E’ inutile dire che tale avversione è la conseguenza dello stato di incuria e di abbandono in cui tutti i governi hanno lasciato per secoli nell’Italia meridionale la campagna ed il ceto rurale. Il contadino però è anche avverso alla burocrazia in cui s’incarna lo Stato. Egli tuttavia non odia lo Stato che ancora non ha compreso nel suo fieri storico, ma il funzionario che per il nostro contadino è stato il signore. Siamo in presenza del primo barlume di una coscienza di classe. Esso deriva da una ancora imperfetta conoscenza della personalità storica propria e di quella dell’avversario.
Poi vi è il sovversivo originato dalla borghesia rurale.
In seguito allo spezzettamento della proprietà, si è venuta formando una schiera famelica di aspiranti a piccoli impieghi municipali: scrivani, impiegati di concetto, commessi d’amministrazione, uscieri di pretura. Sono tutti individui che hanno rifiutato il lavoro della terra. E’ nato da questo strato il sovversivo locale, arrogante, presuntuoso, perturbatore dell’ordine delle campagne. In ogni Comune dell’Italia meridionale ed in modo particolare del nostro Salento, egli è presente con connotati molto precisi nella memoria di tutti come il tipo umano del fazioso. In genere costui si è incaricato di organizzare al suo servizio i giornalieri. E’ la figura del mazziere, utilizzata prima da Giolitti e poi divenuto fiancheggiatore della borghesia agraria durante il primo fascismo. La malavita professionale e quella fluttuante delle città sono state alimentate dalle propaggini di questi strati. La loro matrice politica è la destra più reazionaria.
Noi però rinveniamo un terzo tipo di sovversivo.
A Galatina in particolare rammentiamo di averne sentito parlare sul finire degli anni Venti ed all’inizio del decennio successivo. “E’ stato un sovversivo!”. “E’ una famiglia di sovversivi!”.
E si è inteso additare così una persona od un nucleo famigliare atto a seminare disordine ed a turbare la quiete pubblica. Il nido del sovversivismo galatinese è stato sempre considerato il rione della Porta Luce. In realtà ivi ha sempre abitato un’umanità plebea e popolare: braccianti, contadini, giornalieri, mezzadri primitivi, modesti salariati ed avventizi dell’edilizia.
Da questi strati sono germinate le prime leghe dei contadini e dei muratori, che ormai costituiscono parte della storia della nostra città. Il sovversivo in mezzo a questa gente è quindi il popolano che, nel momento in cui prende coscienza di appartenere ad una classe inferiore esprime la perentoria volontà di uscirne non abbandonando la propria classe di origine, ma attraverso un processo oggettivo che gli fa prendere atto anche dei limiti di classe dell’avversario. Sovversivo quindi esprime un valore storico.
Per tutti costoro, quando la lotta di classe è impedita dalla legislazione fascista, ha inizio un periodo biblico di arretratezza fatta di disoccupazione, pauperismo, di sete, di zanzare e di cavallette che infestano le case e le campagne.
Ed ecco a Galatina, lungo tutti gli anni Trenta sul sagrato della Chiesa Madre, i nostri contadini dalla primavera fino all’autunno avanzato, scalzi ed in mutande ad uso di sottocalzoni dai legacci pendenti, col gilè sbottonato sulla camicia tutte toppe e dalla pistagna aperta. Essi stanno lì in attesa ansiosa di un ingaggio per un trasporto di merce, per una commissione, per un lavoro provvisorio in campagna, per un occasionale carico o scarico di merce presso il Consorsio locale o presso lo stabilimento o il domicilio di qualche privato. Chi resta escluso, chi non è chiamato, aggiunge amarezza ad amarezza e si sfoga arrotolando con un lesto movimento delle dita un’altra sigaretta o pigiando il tabacco nel caminetto della pipa a cannuccia. E’ tutta povera gente che vive una vita grama, mangia il pane d’orzo, talora stacciato con la pasta di patate. Molti lo insaporiscono con pezzi di zucchina, ma sono sempre più numerose le mense su cui appare il pane verde, cioè il pane ammuffito che ai bambini fa venire i denti d’oro.
Dobbiamo anche dire che in questo periodo non sono mancate tra i contadini di Galatina famiglie che non è retorica definire eroiche. Maschi e femmine, dai più grandi ai più piccini, hanno, nella stessa giornata, lavorato da giornalieri sul fondo altrui, e dirocciato ai Piani il fondarello proprio od in affitto, trasformandolo in giardino. Dopo, nelle ore notturne, quest’umile gente ha ancora, per accrescere il guadagno, spurgato il pozzo nero del privato. E intanto il più piccino ha girato fino all’ebetismo la ruota del cordaio fino a sera inoltrata alla fioca luce della lampada pubblica, e le più piccine della famiglia hanno distrutto nei campi le cavolaie, le diurne farfalle bianche dannose alle piante.
Soltanto così, del resto, le figliole del nostro contadino hanno potuto ripassare e riporre “ampie lenzuola dentro il comune canteral d’abete” (G. Pascoli, Primi poemetti, La bollitura, II).
Appare quindi verosimile che il nostro ceto contadino ad un certo punto voglia rompere con la sua condizione di miseria. Ciò accade durante la guerra del 1940-1943. Si tratta di una ribellione di tipo nuovo, di un comportamento istintivamente sentito come conforme alla pubblica utilità, anche se illegale.
La gente muore di fame, non v’è famiglia senza restrizioni. Ed ecco allora i nostri contadini introdurre furtivamente in città merci sottoposte a divieto di vendita od a dazio. Non è mercato nero, che pur non è mancato sotto l’aspetto di un vero e proprio commercio clandestino ad opera di profittatori della mediazione parassitaria. Il contadino, invece, ha introdotto in città la merce nella sua qualità di produttore. In tal modo egli ha riparato con intelligenza ed umanità agli errori della politica di approvigionamento commessi dal fascismo durante la guerra. Questi errori hanno provocato con le tessere annonarie da una parte la penuria dei rifornimenti ufficiali, del pane e di altre derrate essenziali, e dall’altra la diminuzione della produzione agricola, specialmente del grano, divenuta una coltura poco remunerativa. In altri termini il contadino è tornato ad essere sovversivo. Noi lo ricordiamo infilarsi lesto con la bicicletta in un portone, sciogliere dal manubrio o dal portabagagli un pacco, scaricare la sua merce e via, benedetto dalla gente, per un’altra fornitura clandestina.
E’ stata questa una prima forma di partecipazione attiva della campagna alla vita della città. Parte di qui un fatto veramente nuovo nella storia d’Italia, che si sviluppa durante la Resistenza e la Liberazione: la guerra di volontari per la libertà, ma senza coscrizione obbligatoria.
La prima fase di essa si compie proprio con un atto di ribellione delle campagne. I contadini, difatti, preferiscono distruggere il raccolto, piuttosto che consegnarlo ai Tedeschi che occupano Roma. Un arco ideale lega il contadino produttore galatinese ribelle alla legge fascista sul razionamento, al contadino romano ribelle al Tedesco invasore.
Nell’agro di Galatina negli anni Trenta non ci sono terre boscose e perciò bisognose di dissodamenti e di essere messe a cultura, e tuttavia l’equilibrio tra popolazione e risorse, tra famiglia contadina e terra, tra seminativi e pascolo è piuttosto fragile, soprattutto in virtù della precaria attrezzatura tecnica. Ne consegue un condizionamento politico e di potere del ceto dominante, il padronato agrario, che diventa sempre più aggressivo. Basta una grandinata, il ripetersi di annate cattive, l’esaurirsi o lo sterilizzarsi della terra che non viene ingrassata a dovere, i meccanismi della mediazione speculatrice, ed il raccolto diventa scarso, insufficiente per il mantenimento della famiglia del piccolo contadino. La crescita demografica, inoltre, postulata dalla legislazione fascista, cui abbiamo fatto cenno, promuove nell’agro galatinese in parte l’abbandono delle culture e la ripresa del nomadismo pastorale. In quegli anni nella Pretura di Galatina i processi hanno avuto come oggetto soltanto l’abigeato.
E’ il momento in cui l’economia contadina di Galatina è dominata dal problema dell’autoconsumo. Si registra così nel ceto rurale un regime alimentare che si prefigge di essere autarchico, ed è caratterizzato dal consumo di pane, vino e cereali, senza possibilità di scambiare e vendere eccedenze. E’ in questo contesto che assume valore simbolico il rituale del dono del pane.
5. Il pane dell’abbondanza
Fino a quando la società galatinese ha conservato il carattere della ruralità, è stato uso corrente fare il pane casereccio nel forno rionale, una costruzione a volta con un’apertura (la bocca) verso l’esterno. Il pane casereccio ha comportato l’impiego di tutti le componenti del frumento e non della sola farina. A Galatina hanno una tradizione il forno de la Nunna Cìa presso l’arco della Porta Luce, il forno de lu Cuncertu alla via Ottavio Scalfo, e quello de lu Turinu rretu lu Parma presso la stazione.
La fornaia ha fatto anche da bracina, per usare un termine toscano, cioè ha venduto per pochi soldi al vicinato la brace e la cenere per l’imbiancatura dei panni col ranno, il cosiddetto bucato, che si è fatto versando l’acqua bollente sulla cenere. Per la famiglia contadina di Galatina il giorno del pane è stato un momento tolto alla monotonia ed all’oppressione del quotidiano. Esso ha fatto saltare il continuum della storia in quanto tempo comunitario. Nei locali del forno, in un’economia povera di scambi, si è celebrato l’incontro di molte famiglie contadine, che si sono date reciproco aiuto nell’impastatura e nella confezione del pane. Appena il pane è sfornato, ancora odoroso e fumante, un ragazzo, per commissione del capo famiglia o della moglie di questi, ne distribuisce a prova uno o due pezzi tra i parenti e nelle famiglie del vicinato, in proporzione di quanto a suo tempo gli attuali donatori hanno ricevuto. E’ come il compimento di un rito, un modo di rispettare il diritto di ciascuna famiglia e le leggi stabilite dal mos maiorum, ed è anche un momento in cui si afferma la solidarietà comunitaria della classe subalterna. Nella società arcaica rurale, in forza del principio della ripartizione comunitaria, questo fenomeno culturale, dall’importante funzione simbolica socializzante, acquista il significato antropologico di equa distribuzione del pane casereccio fra i parenti e le famiglie del vicinato, così come presso le società primitive si distribuiva equamente il prodotto della raccolta fra tutti i membri della comunità, come garanzia contro il rischio di carestie collettive derivanti o da scarsa raccolta di cibo o da altre circostanze avverse.
Il significato socializzante del pane si configura perciò come una difesa culturale di fronte al rischio della miseria, sicché mantenere e rafforzare i legami sociali è diventato in questo caso compito di primaria importanza. Da ciò deriva che al consumo del pane si connette una sua funzione rituale. Si ricordi il divieto di buttare via persino una briciola, l’obbligo di mangiare anche il pane col verde della muffa, quand’è stato vicino a corrompersi. Ed è ancora quasi empietà lasciare sul desco il pane capovolto.
Ricordiamo poi l’opposizione tra il mestruo e la manipolazione del cibo, per cui nella cultura contadina la donna, durante la mestruazione, è tabuizzata, cioè è sottoposta all’interdetto magico-religioso di compiere alcune azioni, ed in particolare di manipolare il cibo, poiché, cucinando in quello stato, poteva anche avverlenare il marito. Il pane viene quindi confezionato in uno stato di assoluta “purezza”, che nobilità ancor più dal punto di vista simbolico il gesto del dono.
Per il rito della cena, durante la settimana di Pasqua, viene distribuito il pane azzimo, cioè impastato senza lievito. Il contadino di Galatina lo tiene in serbo e lo utilizza soltanto in occasione di violenti temporali, allorché ne getta un pezzo nella bufera recitando la preghiera corale:
Azzate San Giuvanni e nun durmire
ca visciu ttre nuveie caminare:
una de acqua, una de vientu,
una de tristu maletiempu.
Nella sfera cristiana è stata traslata una forma pagana di vita religiosa, allorché gli dei sono stati sottoposti all’ordine del cosmo, ed i rituali hanno stabilito un legame di reciprocità fra la divinità e gli uomini. E così la tempesta si placa perché l’uomo ha spartito con gli dei o col santo il pane che protegge e scampa da ogni pericolo, e da questo reciproco rispetto è derivata anche l’aspettativa dell’abbondanza, più che dal lavoro e dallo sforzo individuale e collettivo.
Durante il fascismo a Galatina, essendo accentuato il contrasto tra ceto contadino e classe dominante, il dono del pane assume il significato profondo della coesione del ceto subalterno contro due classi sociali: quella dei signori e quella dei mercanti. I primi sono gli appartenenti al ceto agrario, ed hanno costruito la loro egemonia attraverso la scuola, la religione, la pubblica amministrazione ecc.. I signori possono anche essere di origine contadina, purché abbiano perduto la loro originaria forma di moralità e sappiano adeguarsi allo stile di vita della classe egemone. I secondi, i mercanti, noi li ricordiamo durante il fascismo, il giovedì, durante una tappa dei loro traffici. Hanno esposto la mercanzia davanti alla Chiesa dell’Immacolata. Hanno avuto volta a volta i modi del signore e quelli del villico, ma ai contadini hanno dato sempre l’impressione di essere venuti a rastrellare sistematicamente le risorse locali. Si fa riferimento al commerciante di cereali e di legumi, di carni e di altri prodotti dell’allevamento. Il commerciante locale di derrate alimentari e di altre merci non prodotte in loco, il bottegaio, è già una figura diversa, benché simile, ma più domestica, più su misura locale, più controllabile e prevedibile. Certamente quella del bottegaio è stata una categoria più vicina ai signori ed ai mercanti che al contadino, il quale non ha mai compreso né ammesso che il denaro, comunque anticipato ed investito, possa riprodursi su se stesso con l’usura. La stessa compravendita è sempre apparsa al contadino un’imposizione simile a quella dei prelievi baronali, signorili, fiscali e decimali.
6. Forme di alimentazione povera
Durante il fascismo la divisione del lavoro nel ceto rurale di Galatina passa per una diversificazione sessuale di ruoli produttivi. Le donne possono seguire i lavori agro-pastorali e gli uomini lavorare come artigiani ed ambulanti, occupandosi soltanto in certi periodi dei lavori agricoli; oppure può accadere che gli uomini lavorino la terra, e le donne, specialmente le ragazze, vengano impiegate nell’industria domestica, ad esempio la filatura, il ricamo, la tessitura, o addirittura vengano mandate a servizio; quando sul finire degli anni Venti hanno inizio le concessioni dello Stato, attraverso il monopolio dei tabacchi, per la coltivazione del tabacco medesimo, la maggior parte delle donne giovani di Galatina, ma anche in età adulta, vengono assunte a lavorare nelle fabbriche. Insomma l’azienda famigliare contadina galatinese mostra una capacità di adattamento che le permette di essere contemporaneamente presente in due diversi modi di produzione, quello contadino e quello semi-industriale. Il contadino ha percepito il lavoro extra-agricolo come integrazione del lavoro agricolo, che ha sempre considerato nucleo e fondamento della sua economia famigliare, ma in realtà non si è accorto che, trasformato da contadino in operaio, è stato espropriato e qualche volta ridotto alla fame, e certamente ne è rimasto scardinato il suo equilibrio e la sua identità.
Chi studia i modelli di consumo alimentare a Galatina durante il fascismo, vi rinviene una traccia di piatta povertà, rivelata dall’età e dal sesso degli animali macellati. In generale, è in ombra il consumo di carne, in quanto il territorio non è stato trasformato in terra da carne, ma neanche ha prodotto tanto da diventare terra da pane.
Il bue è impiegato prevalentemente nel lavoro agricolo, e per questo viene macellato in età adulta. La carne di pecora è considerata come carne da villano, sottintendendo con questa definizione l’esistenza della carne di vitello come carne da cittadino. E’ molto bassa la percentuale di capri e ovini macellati giovani. Anche la loro carne è destinata a pochi ceti o gruppi privilegiati della città. La macellazione di capi maschi oltre il terzo-quarto anno di età indica una produzione indirizzata verso la lana, largamente impiegata nella confezione di maglie pesanti e grossolane usate dai contadini per proteggersi dal clima umido e piovoso dell’ inverno salentino.
Particolarmente significativa è la trasformazione del pane, più in relazione alla percentuale di mèscoli che al grado di abburattamento della farina, alla salatura, alla lievitazione ed alla forma, elementi tutti che incidono sulla sua qualità. Noi ricordiamo che lungo tutti gli anni Trenta dal pane della famiglia contadina galatinese non è ancora scomparso l’orzo e talora la polpa delle patate. Fino alla seconda guerra mondiale l’orzo prodotto nel territorio di Galatina viene quasi tutto panificato. La famiglia contadina mangia ciò che l’ambiente produce e l’organizzazione economica locale offre; in particolare cibi vili, caratterizzati da un basso potere nutritivo.
E’ definito da contadini il consumo di fagioli, cipolla cruda, aglio, brodo di ceci, rape, cavoli, ecc. Si noti che i cibi del villano, soprannominato mangiarape, sono tutti vegetali, in contrapposizione ad un’alimentazione padronale fatta di capponi, castrati e salsicce arrosto. Inoltre si possono rinvenire nell’alimentazione povera alcuni tratti distintivi: monotonia della dieta, l’odore acuto e sgradevole e grossolanità della masticazione. Si pensi alla difficoltà di rompere, schiacciare e macinare con i denti il pane di mistura raffermo o la carne di pecora.
Nella famiglia contadina l’alimentazione quotidiana è diversa da quella festiva per qualità, quantità ed anche presentazione dei cibi. La festa è il ritorno di un avvenimento che, nel suo ripetersi, fa ritrovare una nuova vitalità, reinserisce il contadino nel tempo ciclico, rompendo il continuum del quotidiano, e la dimensione sacrale del potere che sta al di sopra e al di là degli individui. Il contadino si impegna allora, nella festa, in un’ideologia dell’aldilà, in cui illusoriamente compie il riscatto della propria condizione subalterna.
7. Giuvannìno de Santuvìtu
Lu Toriceddhu, lu Pèu, lu Pappallòllu, lu Giuvannìnu de Santuvìtu: sono i primi nomi di persone realmente vissute che ci vengono alla mente. Presi singolarmente o tutti insieme, essi simboleggiano il nucleo originario di una civiltà diversa da quella cittadina, temprata dal contatto diretto con la campagna e dall’esperienza della miseria. Il nome di questa gente subisce una abbreviatura popolare ed una deformazione. In generale, la persona non viene designata col cognome che corrisponde al casato o alla famiglia, e quello dei reietti o degli esclusi o resta sommerso nell’anonimato o viene cancellato dal soprannome.
Toricèddhu è forma ridotta e popolare di Salvatore. In esso l’elemento morfologico del suffisso ello si è dialettizzato. Pèu sta invece per Pantaleo che nel dialetto di Galatina di solito è designato da Leo, la parte terminale del nome. Pèu, quindi, deriva dalla consonante iniziale del nome Pantaleo (P) a cui si devono aggiungere le vocali finali del nome dialettizzato: eu = Pèu. Questi due nomi dicono una cultura elementare fatta di storia sacra e di catechismo e l’adesione a valori religiosi patriarcali e arcaici. Si pensi, in particolare, al culto sanguigno, tuttora vivo, per S. Pantaleo medico e martire, patrono di Martignano, venerato soprattutto per la sua conoscenza empirica della medicina, fonte di miracoli.
Pappallòllu richiama per la struttura composta il pappo e il dindi di Purg. XI, 104 (ma là i termini sono disgiunti e qua, invece, sono legati). Il nomignolo evoca qualcosa per sua natura destinata a durare poco. La parola, difatti, è costituita da due termini del linguaggio infantile: pappa fa riferimento al cibo od all’atto del mangiare del bambino. Già in Plauto è attestato un pappo-pappare, per cui pappa potrebbe essere un deverbale di pappare, sul tipo di autentica e verifica, rispettivamente deverbali di autenticare e verificare. Llòllu ha un etimo incerto, ma il vocabolario italiano Migliorini-Cappuccini rimanda per il suo significato alla parola lòppa, che in Toscana vuol dire la pula, cioè il cascame abbandonato dai chicchi dei cereali, del riso e delle leguminose, dopo che sono stati battuti. Lòppa è ricordato anche dal Migliorini nella sua Storia della lingua italiana come attestato in scritti di Leonardo da Vinci in riferimento al colore di concrezioni pietrose trovate nelle vene di persone vecchie, e destinate quindi ad essere espulse. La parola cioè significa cosa che va eliminata, di cui ci si deve disfare. In breve lòlla verrebbe a significare roba senza consistenza e senza valore, e dunque un uomo melenso, lento nel muoversi e nell’intendere, che assume un atteggiamento tra l’indolente e l’ingenuo.
Abbiamo conosciuto tutti a Galatina il tipo umano del melenso. Il signorino borghese ne ha fatto subito un Calandrino ed è stato pronto a trasformarsi in Bruno e Buffalmacco per ridere alle sue spalle, anche se dobbiamo ammettere che lo abbia fatto senza malvagità e soltanto per reagire alla noia provinciale dell’ambiente.
Del resto già in Dante è rappresentato, se non il melenso, un tipo che molto gli si approssima, o per converso dietro di questi dobbiamo immaginare il signorino della classe dei magnati o del popolo grasso, promotore dello scherzo. Il poeta descrive coloro che sospettano, per occhiate ammirative e sorrisetti ironici ed ammiccanti, di portare qualche cosa in capo, senza sapere quale (…) come color, che vanno / con cosa in capo non da lor saputa, / se non che ‘ cenni altrui sospecciar fanno, / per che la mano ad accertar s’aiuta, / e cerca e truova e quell’officio adempie / che non si può fornir per la veduta; … (Purg., XII, vv. 127-132).
Valida che sia l’una o l’altra delle interpretazioni, è certo che nelle struttura del nome analizzato v’è un rapporto tra lingua e pensiero.
Naturalmente quanto precede non esclude un’etimologia vivamente nata dal popolo. Vediamo un bambino col pane in mano (pappa), che chiede alla mamma la croce d’olio (llòllu).
Passiamo all’analisi dell’altro nome: Giovanninu de Santuvìtu. Santuvìtu è una contrada piantata ad oliveto nei pressi di Galatina, a pochi chilometri dalla città in direzione di Galatone, e certamente deriva la sua denominazione da una nicchia, una specie di cappelletta oggi scomparsa, dove in epoca molto remota si è conservata l’immagine del santo omonimo, San Vito. Pochi contadini hanno abitato con le loro famiglie fino ai primi decenni del secolo XX, per tutto l’anno, in casolari sparsi tra gli alberi della campagna. Sono stati tutti uomini validi e robusti, e forse gli unici del loro ceto, liberi dal contagio del tracoma e della malaria nei primi anni del secolo. Il loro compito è stato quello di guardiani del bosco di olivi, ed hanno esercitato il mestiere di spaccar la legna da far carbone o da bruciare. Lo spaccalegna è stato ai suoi tempi un operaio specializzato, poiché maneggiare l’ascia o la mannaia richiede notevole perizia. Lo spaccalegna talora si è servito anche della scure per riquadrare sul ceppo il pezzi di legno. Fino al secondo dopoguerra un paio di volte l’anno il guardiano del bosco d’ulivi e spaccalegna, ha trascorso tutt’intera la giornata in città a squadrar pezzi di legno per la stufa del padrone, nella legnaia del palazzo signorile, fendendoli a colpi di mannaia ed emettendo un suono strozzato di voce per alleggerire il peso della fatica. Eppure quello è stato per lui un giorno d’eccezione. Tornando al suo bosco verso sera, ha sempre anticipato colla mente l’occasione della prossima rimpinzata su un modesto desco accanto alla stalla ed alla presenza del cane da guardia nel palazza del padrone. Gli spaccalegna sono stati pochi a Galatina. Per individuarli non è bastato il nome di battesimo. La creatività popolare utilitaristicamente vi ha aggiunto un toponimo come complemento di provenienza. E’ nata così l’espressione “Giuvanninu de Santuvitu”, il nome di un umile contadino-spaccalegna che per lungo tempo ha abitato quella contrada, e che noi abbiamo personalmente conosciuto.
8. Il cantu di Santu Lazzaru e l’acchiatura
E’ possibile seguire attraverso l’analisi di canti rituali il ciclo della vita contadina, così come si svolgeva a Galatina ancora nella prima metà del secolo XX, dalla feste natalizie fino al sostizio d’estate (22 giugno), allorché la notte di San Giovanni si accende un falò ad indicare l’interruzione di ogni rito in attesa che i seminati germinino e diano frutti di buon raccolto. Si noti nel seguente canto amebèo l’inscindibile unità di parole e melodia:
Su rrivate le feste de Natale,
unu dè caddri e l’addra dè caddrine.
Beddra, de tie cce m’aggiu spettare?
Dammi na parìia de palumbi!
Su piccicchieddri e nun ànnu l’ale,
lassali n’addru pocu a pasculare!
L’equinozio di primavera (21 marzo) segna l’inizio della nuova stagione dell’anno. Arrivano a volo gli uccelli e sono loro a recare la primavera. Perciò i contadini di Galatina nel passato hanno avuto la consuetudine di cuocere biscotti a forma di uccello nel forno comunitario della casa plurifamigliare. Questo ciclo stagionale è caratterizzato a Galatina dal canto di Santu Lazzaru, un coro rituale agricolo certamente molto antico.
Il rito si svolge così. Un’allegra brigata di giovani, andando di masseria in masseria, nella società agricola preborghese di Galatina, o di casa in casa quando si è sviluppata l’urbanizzazione, chiede al padrone di poter cantare Santu Lazzaru e, avutone il permesso, esegue improvvisando il canto. In esso si narra come i canterini abbiano cercato e trovato la casa del padrone. Segue poi la lode e l’esaltazione di questi e della padrona e dei figli, ed infine il canto termina con la richiesta di doni.
Santu Lazzaru, mau-mau
dammi l’ove ca me ne vau.
Simu doi e sciamu suli,
o do’ ricotte o do’ pasuli.
Se l’offerta è generosa i canterini ringraziano con un’altra canzone augurando un ricco raccolto; ma se il padrone si è dimostrato avaro, gli vengono indirizzate comiche insolenze con voti di disgrazia e di malanno. Proprio questo è il momento più importante del rito di Santu Lazzaru. L’insolenza ed il mancato rispetto dei termini della convenienza mettono sottosopra il senso dell’ordine, invertono la gerarchia sociale, e ne rovesciano il rapporto.
Le ragioni che vincolano a Galatina il rito di Santu Lazzaru vanno individuate nella parabola del Vangelo di Luca (16, 21) che parla del mendico lacero e piagato “bramoso di sfamarsi delle briciole che cadevano dalla sua [del ricco Epulone] tavola; ma venivano anche i cani a leccargli le piaghe”. In contrada Bianchini esiste ancora una cappella, un tempo mèta, nelle feste paesane e contadine, di incontri e scherzi tra allegre brigate di popolo. Appare dipinta nella nicchia l’immagine di Santu Lazzaru, simbolo di povertà e di mendicità, il cui ruolo è simboleggiato, come nel personaggio evangelico citato, dalla richiesta di doni da parte della brigata canterina.
Un altro momento di cultura subalterna che si registra a Galatina, è quello dell’acchiatura, simbolo dell’alone magico attraverso il quale intere generazioni del popolo galatinese sono entrate nella vita. Si è potuta vedere fino a non molto tempo fa (la ruspa, simbolo del mal della pietra nel nostro secolo, l’ha distrutta) in contrada Cappuccini, un’icona sacra dipinta in atteggiamento di chi si proietta con gli occhi sul terreno antistante. La tradizione popolare ha interpretato quell’atteggiamento come un simbolo magico attestante che lì dinanzi giace profonda nel terreno l’acchiatura, cioè un tesoro nascosto la cui esistenza viene generalmente rivelata in sogno o in circostanze eccezionali al predestinato dalla fortuna. A Galatina vive ancora chi ricorda qualcuno intento, con fare guardingo ed in ore solitarie, a scavare la terra lì dinanzi.
L’acchiatura incarna un’esperienza fondamentale della classe subalterna galatinese, e cioè il valore demoniaco della ricchezza, la soggezione del popolo alle potenze demoniache, le sole in grado di conferire, attraverso l’opulenza, il potere. Assai difficilmente, però, il povero riesce ad impadronirsene. E’ proprio questa difficoltà che rende evidenti i motivi di gerarchia sociale presenti nel simbolo dell’acchiatura. A memoria d’uomo, di generazione in generazione, nessuno ha rinvenuto il tesoro magico, se si eccettua il racconto tramandato da una leggenda che lega a quel rinvenimento la ricchezza, nel tempo dei tempi, della famiglia Mezio, oggi estinta. Molti vorrebbero beneficiare dell’acchiatura, ma si sa che, chi diventa ricco, non vuol dividere con nessuno la sua fortuna; il tesoro, quindi, sembra negarsi a chi lo cerca, quasi a punire il rifiuto di una giusta distribuzione della ricchezza. Nello stesso tempo l’acchiatura resta come circostanza e fenomeno potenzialmente trasformatore della sorte del povero e, in quanto tale, stimola ciascuno a rendersi degno, in virtù di personali prerogative, d’essere predestinato al ritrovamento. Il mancato ritrovamento del tesoro legittima in ultimo l’emarginazione dal potere e riconferma lo status quo.
9. Lettura del proverbio antipretesco
A Galatina, tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX, la parrocchia è stata una circoscrizione ecclesiastica urbana incorporata nella Chiesa Matrice, ed ha avuto sotto di sé diverse priorìe, dopo essere stata elevata sin dal 1664 a Collegiata.
Durante i riti in onore dei S.S. patroni Pietro e Paolo, una processione di mendicanti e di ammalati repellenti fa ampia mostra di orrori corporali sul sagrato della Chiesa Madre. Si è in presenza di un culto inestetico, fondato su un realismo cupo e sommamente patetico, finalizzato al proselitismo, in cui ha preso il sopravvento l’orrido e il morboso. La malattia è un tema carico di suggestione culturale, di significati morali, simbolo del male fisico (il disfacimento del corpo) e del male sociale (l’emarginazione dalla comunità). Il clero per l’occasione incoraggia la vendita di figurine, amuleti, ventagli su cui è riprodotta l’immagine del serpente-drago e del vescovo che lo schiaccia o lo ammansisce. Il serpente è il simbolo della lussuria e rappresenta, nel quadro del simbolismo cristiano, il peccato e cioè il demonio, ma è anche attributo di divinità sotterranee, connesse al mondo dei morti. La simbologia del drago ha invece carattere acquatico e richiama il filone precristiano dei miti relativi agli insediamenti umani in ambienti naturali ancora selvaggi. Questo materiale antropologico ci consente di ricostruire le rappresentazioni collettive a Galatina e nel Salento, e ci fa comprendere qual era il modello evangelico a cui si conformava la classe subalterna in gran parte formata da contadini. Ai Santi Pietro e Paolo si attribuiscono miracoli ad imitazione della vita di Gesù. La raffigurazione iconica del vescovo ne celebra la santità e la ricchezza dei paramenti, in cui i contadini galatinesi devono riconoscere il vertice della gerarchia del potere nella vita comunitaria e nell’ambito della loro esperienza umana. La vita sociale e civile a Galatina in quegli anni è dominata da gruppi all’interno dei quali spiccano membri del clero ricco della città, come i canonici Domenico Zamboi, Giovanni Vallone, Rosario Siciliani ed Antonio Tondi. L’analfabetismo pone i contadini galatinesi in una condizione di dipendenza totale in materia religiosa dalla parrocchia, che così può avviare un processo educativo fondato sulla lettura delle Sacre Scritture e sull’apprendimento mnemonico di qualche salmo, antifona o preghiera. Il tramite tra Libro e pubblico è costituito dalle catechiste, donne di estrazione sociale urbana, che per decenni hanno insegnato la dottrina ai ragazzi, pur possedendo, e non tutte, appena la licenza elementare. Inoltre, gli affreschi ed i bassorilievi sui muri e sui capitelli della Chiesa Madre, di S. Caterina e delle altre chiese rionali sono state le lettere, cioè i mezzi di lettura che hanno prodigato imprecise lezioni ai Galatinesi analfabeti (pictura est laicorum literatura), per i quali le ore delle funzioni religiose, annunciate dalle campane, hanno segnato la significativa coincidenza tra ritmi naturali e ritmi liturgici. E dopo il tempo, anche lo spazio è stato concepito come esperienza sensibile e mai come concetto astratto, tanto che i confini di una proprietà sono stati designati con riferimento a cose naturali come piante, coltivi, boschi, ecc (la Cornula, la Chiusa, la Ghianda).
10. Aspetti e tendenze ereticali e carnevalizzanti
Mai come negli anni a cavallo tra i due secoli a Galatina, durante la festa dei S.S. Pietro e Paolo, ha avuto rilievo la compresenza e la mistione di due culture: quella liturgica ed ecclesiastica con il suo complesso cerimoniale, e quella popolare costituita dal tarantolismo, un culto magico-religioso legato al territorio in quanto zona di emarginazione, prolungatosi nei secoli per la subalternità socio-economica dei contadini e dei pastori del Salento.
Il processo di cristianizzazione non ha assorbito il tarantolismo perché non ne ha interpretato l’istanza di liberazione popolare. I miti ed i rituali di esso sono sopravvissuti come forma di difesa della propria identità culturale da parte del ceto contadino contro il modello culturale dominante, e S. Paolo è apparso come un operatore magico al quale, alla stessa stregua di un serparo, è stata attribuita l’immunità dalla tarantola. E’ accaduto, quindi, che i contadini, non trovando rifugio alla loro insicurezza nella cultura rurale, si sono rivolti al clero possessore di ricchezze e di potere, in grado di ristabilire l’equilibrio tra bene e male. Se invece questo equilibrio viene sovvertito e il male prevale sotto forma di povertà, di malattia od altro, come il malocchio, il fascino e la iettatura, allora il potere del clero diventa nefasto e nasce così la contestazione volta a rovesciare i valori ufficiali. Il proverbio dialettale mette proprio in evidenza il momento della liberazione del contadino ed il suo ribellismo cristiano.
Santu Paulu miu, se nun mme iuti,
paternosci de mie nu tti spettare!
***
Monaci, prèvati e pàssari
cazzalòru la capu e làssali!
Vi si legge un atteggiamento antigerarchico e dissacrante, venato di scetticismo verso le persone, che diventa scetticismo verso l’ufficio e riprovazione della Chiesa e del suo pretismo.
Il contadino galatinese nel suo dialetto da una parte rileva la presenza del prete in famiglia per l’utile che ad essa ne deriva, e di qui il proverbio
Iàta ddhra casa
ca tene na chirica ràsa!
Valgono a commento di questo proverbio le affermazioni di G. Salvemini: “[…] Prima del 1860 e negli anni immediatamente successivi, la grande ambizione delle famiglie, che avevano un po’ di terra al sole e che aspiravano ad elevarsi socialmente, era di avere un figlio prete. Nella famiglia, che otteneva questa grazia del Signore, l’avito fondicello ritrovava ben presto qualche fratellino. Le rendite crescevano geometricamente. E se la seconda generazione riusciva a produrre un altro prete, la famiglia entrava addirittura tra le case notabili del paese. La terza generazione arrivava finalmente al canonico, con cui cominciava quasi la nobiltà […]”. A Galatina si ricordano ancora molti esempi di questo clero, da don Andriani all’arciprete canonico Antonio Tondi, da don Siciliani a don Carmine Vallone a don Giovanni Sponziello e don Michele Tondi. Al loro tempo essi sono stati tutti un elemento fondamentale e costitutivo dell’apparato egemonico della nostra città.
Dall’altra parte nel proverbio antipretesco il contadino contesta il diritto del clero alla ricchezza ed al privilegio e se ne condanna la cupidigia.
Tre su lli suttìli,
monaci, prèvati
e ci nu tene fili.
Mangia sant’Antonio e mangia fra’ Fidele!
Il proverbio antipretesco a Galatina diventa particolarmente interessante a proposito della figura del prete a mezzo tra joculator, filosofo cinico, sia pure incolto, e concubino. All’inizio del secolo XX nel clero di Galatina una nuova figura di prete ostenta senza vergogna bisogni naturali ed elementari, da cui nascono proverbi nei quali il clero è accostato alla corporalità. In tal modo è rappresentata la materialità della vita fisiologica anche nei suoi aspetti bassi (bere, mangiare, copulare).
Pe prèvati, monaci e cani,
tièni sempre la mazza alle mani!
***
Diu tte guarda de l’acqua e lu vientu
e de li monaci fore lu cumentu!
***
Meiu vinu maledittu cca acqua santa!
C’è quanto basta per individuare la figura del prete iettatore, in possesso di un potere nefasto, cioè interdetto dalla religione, a buon diritto aggredito dal contadino. Di costui, difatti, la monogamìa e la sessuofobia, imposte dalla Chiesa, hanno represso gli istinti sessuali, col risultato che proprio nel mondo contadino si sono verificati i reati sessuali più numerosi e si è maggiormente diffuso il bestialismo, la pederastia e l’incesto. Al contadino, inoltre, sotto la minaccia di commettere peccato mortale, è stato proibito, in coincidenza di particolari liturgie annuali, di mangiare carne, uova e formaggio.
Questi proverbi, d’altra parte, non vanno spiegati come parodie prodotte negli ambienti in cui viene elaborata la cultura ufficiale. Vi si oppone la dialettica materialistica della liberazione così ben teorizzata da Michail Michailovic Bachtin. Il prete è oggetto di scherzo e di irriverenza, e il contadino, in forma provocatoria e denigratoria, contesta la validità della cultura tradizionale e la classe che la rappresenta. Inoltre il proverbio antipretesco assume il significato di un gioco di totale libertà che ha il potere (intrinseco al dialetto) di affrancare la parola del contadino dal vincolo della devozione e della paura di Dio e dei suoi ministri, rendendo ogni cosa accessibile alla “gaia vitalità”, che ci riconduce alle origini cultuali, legate al tripudio caotico-orgiastico della “grande festa” dopo il raccolto, del genere letterario serio-comico. In questo senso il proverbio antipretesco galatinese si afferma come prodotto di un atteggiamento mentale penetrato dal basso e tale da suscitare contraddizioni nella stessa cultura ufficiale ed alta, fino a rovesciarne i valori ed abbassare le figure esemplari che quella ha prodotto.
[Memorie di Galatina. Mezzosecolo di storia meridionalistica e d’Italia, Mario Congedo Editore, Galatina 1998, pp. 97-112]