Punti di vista sulla democrazia ateniese

Questo schema teorico di Platone e di Aristotele sulle origini della convivenza civile, è alla base delle riflessioni antiche e moderne sull’origine dello stato, da Machiavelli a Hobbes, Montesquieu, Rousseau, fino a N. Bobbio.

Inoltre, con l’introduzione e il progresso della conoscenza del greco nella cultura del Rinascimento, la città greca, la polis, Atene su tutte, come luogo privilegiato della aggregazione e delle attività umane (dalla politica alle attività economiche e commerciali, alla cultura, alle arti), è diventata il modello ideale delle città italiane nel Rinascimento.

A partire dall’Ottocento, la città greca è osservata non più come modello politico-culturale, quanto piuttosto come archetipo sociologico e antropologico. Propongo qualche esempio.

Fustel De Coulanges (1830-1889) riconobbe la città antica come il luogo nel quale si sarebbe dissolta la società patriarcale originaria con il progressivo consolidamento dello stato nelle sue varie forme costituzionali (monarchia, aristocrazia, democrazia, tirannide), con il progressivo affermarsi del diritto e dell’interesse comune rispetto all’interesse e al diritto familiare.

Gustave Glotz (1862-1935) distingueva due opposti modelli di città greche: le città aristocrariche e le città democratiche, fra loro distinte, oltre che per i vincoli familiari e religiosi che vi sono operanti, anche e soprattutto per il diverso ordinamento istituzionale e giuridico, per il diverso potere che vi era dominante, per il diverso rapporto fra istituzioni e cittadini.

Max Weber (1864-1920) definiva la città greca una comunità costituita in origine «per affratellamento», dominata dalle esigenze della difesa comune. Sulla base della organizzazione e delle strutture del potere, Weber distingueva fra città democratiche e città aristocratiche, mentre le diverse caratteristiche della economia portavano alla distinzione fra «città di produttori» e «città di consumatori».

Per Moses I. Finley (1912-1986) la città greca è un tipo di città caratterizzata dal rapporto fra economia e politica, come pure dalle sue esigenze di approvvigionamento e di consumo: anche per Finley, la città greca è una «città consumatrice».

Possiamo in sintesi dire che la città greca, nella sua forma definitivamente affermata e compiuta a partire dall’VIII secolo a.C., è una aggregazione sociale evoluta, nella quale la collettività diversamente responsabile e partecipe dei cittadini è retta da un complesso ordinamento costituzionale, è sottoposta alla autorità delle leggi e delle consuetudini civili e religiose, si riconosce e collabora nell’interesse comune.

Dal greco polis, deriva il termine «politico, politica». Nelle città greche, il termine «politico» indica gli interessi generali e comuni di tutti i cittadini all’interno della polis. Il termine «politico» comprendeva tutta la sfera del pubblico e del comune ed era in ferrea antitesi con il termine e con il concetto di «privato». Per i Greci non si poneva neppure il problema se la politica era da considerare una attività morale perché, almeno fino a Socrate (470-399 a.C.), politica e morale sono indissolubilmente connesse, e la politica è l’attività più elevata che ha la finalità di garantire le migliori condizioni di vita dei singoli e della collettività e di rendere migliori i cittadini (Platone, Gorgia, 515-519).

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I manuali di storia greca hanno la tendenza a fare emergere su tutte le città greche, Atene e Sparta, come polarità contrapposte.
Le due città rappresentano i modelli opposti della città greca. Sparta, chiusa e rigida nel suo radicato sistema monarchico-aristocratico di tipo militare, con un sistema sociale rigidamente bloccato; Atene, aperta e progressiva, ricca di inventiva con la sua democrazia, con la partecipazione responsabile e la libertà dei cittadini. Alla contrapposizione polare fra Atene e Sparta, fra società democratiche e società collettiviste, pensava il filosofo liberale Karl R. Popper (1902-1994) quando teorizzava i concetti di «società aperta» e di «società chiusa». Nella «società aperta», i singoli sono chiamati a prendere decisioni personali, sono stimolati a progredire socialmente, sono chiamati a partecipare attivamente alla vita pubblica. La «società chiusa», antitetica alla «società aperta», è una società statica, quella che Popper chiama «la società magica, tribale o collettivista» nella quale le istituzioni, i rapporti sociali sono rigidamente definiti e bloccati, le decisioni sono prese da una casta di politici professionisti burocrati (K. Popper, The Open Society and his Enemies, 1945 = La società aperta e i suoi nemici, 1973).

Atene rappresenta il modello della città greca nella quale si sono realizzate tutte le esperienze politiche e istituzionali analizzate da Aristotele: monarchia, aristocrazia, oligarchia, tirannide, democrazia, demagogia. Nei libri della Politica, Aristotele distingue tre forme corrette e legittime dei sistemi politici adottati dalle città greche: la basileia (il potere singolo del re), l’aristokratia (il potere ristretto degli aristoi, dei migliori), la politeia (il potere diffuso dei politai, dei cittadini). Queste tre forme di governo sono giudicate corrette e legittime perché ognuna di esse è esercitata in funzione degli interessi generali della collettività ed è sottoposta al dominio assoluto delle leggi.

Di ognuno di questi tre ordinamenti legittimi, Aristotele individua le rispettive devianze: la tirannide (il potere dispotico di uno solo) è deviazione dalla monarchia; l’oligarchia (il potere di pochi, detentori delle ricchezze) è deviazione dalla aristocrazia; la demokratia (il potere del popolo o, meglio, delle masse prive di risorse economiche) è deviazione dalla politeia. Queste tre deviazioni sono tali, secondo Aristotele, sia perché esse mirano rispettivamente all’interesse di uno solo (il tiranno), di pochi (gli oligarchi) o di molti (il popolo), senza che nessuna di esse miri all’interesse comune di tutti, sia perché in nessuna di esse si afferma la sovranità delle leggi (Politica III, 7-8).

Delle tre deviazioni, la democrazia è, per Aristotele, la più sopportabile. Egli distingue vari tipi di democrazia: una democrazia “ugualitaria” o “radicale”, nella quale poveri e ricchi partecipano al potere e alle cariche pubbliche su un piano di uguaglianza; una democrazia “timocratica”, nella quale le cariche sono distribuite fra i cittadini sulla base del censo; una democrazia “demagogica”, nella quale il potere non appartiene alle leggi ma all’arbitrio della massa popolare e dei demagoghi capaci di manovrarla. In questo tipo deteriore di democrazia, si governa non con le leggi di valore generale ma con i decreti particolari che i demagoghi riescono a fare approvare dalle assemblee compiacenti. Per Aristotele, la democrazia demagogica non è altro se non una tirannide (Politica IV, 2-4; V, 5).

Aristotele, senza aderirvi del tutto, riporta anche l’opinione di quanti ritengono che la migliore forma di governo sia quella che risulta dalla combinazione dei tre sistemi della monarchia, della oligarchia e della democrazia, «perciò lodano», dice Aristotele, «la costituzione degli Spartani, che ritengono sia insieme fondata da monarchia, oligarchia e democrazia: i re rappresentano la monarchia, il consiglio degli anziani (gerousia) rappresenta l’oligarchia, la democrazia è rappresentata dalla magistratura degli efori perché gli efori vengono dal popolo» (Politica II, 6.17; IV, 9.7-9).

La combinazione equilibrata delle caratteristiche fondamentali di più ordinamenti, vale a dire una costituzione mista, rappresenta spesso per i pensatori antichi la migliore soluzione costituzionale. La costituzione mista dello stato romano repubblicano, con l’equilibrata distribuzione dei poteri fra consoli, senato e comizi, sarà esaltata dallo storico Polibio (208-126 circa a.C.) nel libro VI delle sue Storie e sarà considerata la causa determinate del successo di Roma sugli stati ellenistici e della sua affermazione come grande potenza mediterranea.

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Come è noto, Atene ha inventato la democrazia, fondata sui principi di uguaglianza di fronte alla legge e sulla partecipazione attiva dei cittadini alla vita pubblica. L’atto di nascita della democrazia occidentale è l’anno 510 a.C. In quell’anno Atene si era liberata con la forza, e con l’aiuto di Sparta, dalla tirannide esercitata per cinquant’anni (561-511 a.C.) dalla famiglia dei Pisistratidi. Nella lotta politica che seguì fra l’aristocratico Isagora, sostenuto da Sparta, e Clistene, sostenuto dal demos ateniese, prevalse quest’ultimo. Con le sue riforme, Clistene introdusse la democrazia ad Atene e nel mondo occidentale. Lo scopo delle riforme di Clistene fu quello di «rimescolare» la moltitudine dei cittadini (Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, 21.2). Ciò voleva dire rompere l’egemonia delle grandi famiglie aristocratiche radicate nel territorio e annullare il loro controllo sulle folte clientele che a esse facevano riferimento. Clistene scompaginò l’egemonia delle grandi famiglie aristocratiche sostituendo le antiche quattro tribù dominate da quelle famiglie con dieci nuove tribù disseminate in maniera composita sul territorio dell’Attica. Ogni tribù fu divisa in tre raggruppamenti (trittyai) di norma non contigui fra loro, di modo che ognuna rappresentasse un campione delle tre diverse realtà territoriali dell’Attica (la città, la costa, l’interno). Nelle trittyai furono distribuiti i villaggi con i rispettivi distretti territoriali (demoi, dove gli Ateniesi erano registrati come cittadini). Sulla base di questo nuovo assetto territoriale e di distribuzione dei cittadini, Clistene strutturò le due istituzioni fondamentali nelle quali era elaborata e decisa tutta la politica ateniese e nelle quali era a pieno esercitata la sovranità popolare: il consiglio (boulé) e l’assemblea dei cittadini (ekklesia).

Il consiglio era formato da cinquecento cittadini di età superiore ai trent’anni sorteggiati (o eletti) in ragione di cinquanta per ciascuna delle nuove dieci tribù. Il buleuta durava in carica un anno; ogni cittadino non poteva essere sorteggiato (o eletto) per più di due volte nella vita. Il consiglio trattava tutti gli affari di interesse pubblico. Svolgeva essenzialmente il ruolo di preparazione, di vaglio preliminare e di proposta degli argomenti da sottoporre alla discussione e alle decisioni della assemblea dei cittadini. Il consiglio aveva inoltre competenze religiose e finanziarie, controllava e valutava l’operato dei magistrati, ecc.

L’ekklesia era l’assemblea di tutti i cittadini ateniesi maggiorenni. L’assemblea si riuniva tre-quattro volte al mese e deliberava sovranamente su tutte le questioni di interesse pubblico. Ogni cittadino poteva presentare le sue proposte, che venivano discusse e votate. La regola semplice e sovrana che governava la democrazia ateniese era quella della isonomia, cioè parità di diritti e di doveri di tutti i cittadini di fronte alle leggi, e della isegoria, cioè il diritto, libero e uguale per tutti, di prendere la parola in assemblea, esprimere in libertà le proprie opinioni, fare le proprie proposte assumendosene la responsabilità nel caso in cui queste fossero giudicate illecite. Dal diritto alla isegoria erano esclusi quei cittadini che fossero giudicati indegni da una apposita commissione di valutazione (per esempio: quelli che avevano disertato in battaglia, avevano abbandonato i genitori, avevano dissipato il patrimonio familiare o l’eredità, si erano prostituiti, erano debitori dello stato, avevano subito gravi condanne, ecc.).

Non sempre le assemblee erano affollate. La commedia Gli Acarnesi (425 a.C.) di Aristofane descrive l’abitudine invalsa presso gli Ateniesi di disertare le assemblee preferendo oziare nell’agorà. Per incentivare la partecipazione di cittadini alle assemblee, alla fine del V secolo a.C. fu introdotta una retribuzione corrispondente alla paga di una giornata di lavoro, così come una retribuzione analoga compensava i membri del consiglio e le giurie popolari dei tribunali.

Il sistema democratico ateniese si può pertanto in qualche modo definire un sistema “bicamerale” misto di democrazia rappresentativa (il consiglio) e di democrazia diretta (l’assemblea). In questo sistema, a ogni cittadino spettava indifferentemente di rivestire la condizione attiva di chi governa, di chi esercita una carica o la condizione passiva di chi è governato, secondo l’enunciazione generale di Aristotele: «cittadino è chi partecipa insieme del governare e dell’essere governato …, chi ha capacità e chi sceglie deliberatamente di essere governato e di governare nella prospettiva di una vita conforme a virtù» (Politica III, 12.12).

La democrazia è il sistema politico che, pur con qualche breve interruzione di tipo oligarchico o tirannico, dura ad Atene quanto la città stessa. Il V secolo è il secolo d’oro della democrazia ateniese, ma è anche il secolo di eventi cruciali nella storia greca. È il secolo di due guerre epocali: il secolo si apre con le disperate guerre difensive dei Greci contro l’immane impero persiano aggressore (490 e 480-479 a.C.), e si chiude con la terribile guerra trentennale del Peloponneso fra Atene e Sparta (431-404 a.C.). Nelle guerre persiane si celebrò l’epopea vittoriosa dei Greci e della democrazia ateniese, che avevano combattuto per la libertà di tutti i Greci contro i «barbari». Nella guerra fra Atene e Sparta si finì con il riconoscere le caratteristiche amare e patologiche di una lotta interna fra Greci per l’egemonia, come pure i segni premonitori della involuzione della democrazia ateniese e della crisi delle città greche.

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La classificazione aristotelica della democrazia come deviazione dalla corretta politeia, può suscitare qualche perplessità in chi, come noi occidentali, è abituato da tempo a considerare la democrazia e il sistema repubblicano come il sistema di gran lunga preferibile per governare gli stati, cioè fin da quando la democrazia e il sistema repubblicano, alla fine del ’700, nel secolo dei lumi, sono riemersi dal passato della storia greca come forme di governo scelte dalla rivoluzione americana e dalla rivoluzione francese rigettando il sistema dell’assolutismo monarchico sei-settecentesco.

In effetti, nel pensiero politico greco, la democrazia ateniese è soggetta a valutazioni contrastanti. Erodoto (485-425 circa a.C.), il «padre della storia», come lo definiva Cicerone (Leggi I, 1.4-5), giudica l’introduzione della democrazia ad Atene come l’origine della grandezza della città, della sua capacità di vincere sui Persiani. In Tucidide (460-395 circa a.C.), autore dell’opera storica che narra la lunga guerra del Peloponneso fra Atene e Sparta, i giudizi sulla democrazia ateniese sono strettamente legati non tanto al sistema politico in se stesso, quanto piuttosto alla autorevolezza e alla capacità dei protagonisti della politica ateniese di guidarlo e applicarlo.

Citerò (con mia traduzione) alcuni passi significativi delle Storie di Tucidide per mostrare l’evoluzione del concetto e della prassi della democrazia ateniese nel corso della guerra del Peloponneso, non senza avere prima osservato, da un lato, che già nella democrazia ateniese sono ben presenti e attive quelle forti tensioni fra conservatori, progressisti e demagoghi che le democrazie moderne ben conoscono, dall’altro, che già la democrazia ateniese ha drammaticamente sperimentato il rapporto non solo politico ma anche etico fra democrazia e imperialismo.

Tucidide manifesta una incondizionata ammirazione per Pericle, protagonista della scena politica e della democrazia ateniese per oltre tent’anni, fra il 460 e il 429 a.C., data della sua morte. Pericle apparteneva a una delle famiglie più in vista di Atene. Il padre Santippo era stato l’artefice di due memorabili vittorie sui Persiani; la madre Agariste era una Alcmeonide, nipote di Clistene, il fondatore della demo- crazia ateniese. Perciò, in Pericle si fondevano l’epica gloriosa delle guerre persiane e la tradizione civile delle origini della democrazia. È ben nota la grande fortuna e fioritura di Atene nell’età di Pericle. In circa trent’anni, la democrazia periclea sospinse la città alla realizzazione del più alto livello mai raggiunto di prestigio e di potenza politica, economica, militare. Le arti, la letteratura, ogni espressione del libero pensiero e del sapere trovarono nel clima della democrazia periclea ispirazione e vigoroso impulso, raggiunsero livelli altissimi di originalità creativa realizzando in ogni campo opere grandiose e durature. Atene fu allora «ammaestramento dell’Ellade» (Tucidide II, 41.1), la città nuova dell’uomo e del cittadino.

La sua figura di aristocratico colto e raffinato, e tuttavia protagonista per eccellenza della democrazia ateniese, suscitava lo stupore indignato dell’autore di un libello anti-democratico, che non si spiegava come Pericle potesse essere un campione della democrazia in una città retta da un governo democratico: «Io ammetto la democrazia per il popolo; ma chi, non essendo di origine popolare, scelga di stare in una città retta da una democrazia piuttosto che in una città retta da una oligarchia…» (Vecchio Oligarca, Costituzione degli Ateniesi, II.20). Ma la vocazione democratica di Pericle era autentica; essa era frutto, oltre che delle tradizioni familiari, anche delle sue aperture verso esperienze culturali e di pensiero innovative come la sofistica. La casa di Pericle e della compagna Aspasia fu il centro propulsore della vita intellettuale e artistica ateniese.

Nelle Storie, Tucidide fa pronunciare a Pericle un discorso che può essere considerato il manifesto ideologico ed etico più alto della democrazia, o, per meglio dire, della democrazia periclea. Siamo nell’inverno del 430 a.C. e ad Atene si commemorano gli Ateniesi caduti nel primo anno della guerra del Peloponneso. Secondo una consuetudine antica, i caduti sono commemorati con una grande cerimonia pubblica, nel corso della quale un personaggio eminente è scelto dalla città per pronunciare l’orazione funebre, il logos epitaphios. Quell’anno fu scelto Pericle. Nell’epitaffio riportato da Tucidide (II, 34-46), la commemorazione dei caduti diventa l’elogio della città e della democrazia, che può anche essere letto come un autoelogio di Pericle e della sua generazione:

«Comincerò in primo luogo dagli antenati … Il paese che essi hanno abitato da sempre, grazie al loro valore, lo hanno trasmesso libero alla successione di quelli che si sono finora susseguiti. Degni di lode costoro, ancor più lo sono i nostri padri, perché essi, avendo acquisito … l’impero che noi possediamo, non senza fatica lo hanno lasciato accresciuto a noi di oggi. Quello che c’è in più …, lo abbiamo accresciuto noi che ora siamo ancora nel pieno dell’età matura e abbiamo fatto in modo che la città sia in tutto autosufficiente sia in guerra che in pace. Io tralascerò le imprese belliche …; ma a partire da quale condotta siamo arrivati a tanto e con quale costituzione e attraverso quali forme di vita si è realizzata la nostra grandezza, dopo avere messo in luce queste cose …, passerò all’elogio di costoro …

«Noi disponiamo di una forma di governo che non guarda con invidia le costituzioni dei vicini, dato che, lungi dall’imitare altri, siamo noi stessi modello per chiunque. Quanto al nome, essa è chiamata demokratia per il fatto che è amministrata non nell’interesse di pochi ma nell’interesse dei più.

«Di fronte alle leggi … vige l’uguaglianza per tutti. Secondo la considerazione di cui ciascuno gode, perché si distingue in qualche campo, non tanto per il suo partito quanto per il suo merito uno è prescelto nelle cariche pubbliche. Né, d’altra parte, la condizione di povertà, se qualcuno è in grado di fare qualcosa di utile per la città, costituisce un impedimento a causa della oscurità della condizione sociale. Noi ci comportiamo con libertà per ciò che attiene alla vita pubblica. Il nostro comportamento di cittadini è improntato alla libertà sia nella vita pubblica sia nella condotta quotidiana …

«Noi che serenamente trattiamo i nostri affari privati, trattiamo gli affari pubblici col sommo timore di non comportarci illegalmente.
Siamo obbedienti a quanti si succedono al governo e alle leggi, soprattutto a quelle che sono poste a tutela di chi subisce ingiustizie e a quelle che, per quanto non siano scritte, per comune consenso portano vergogna a chi non le rispetta.

«Inoltre, noi abbiamo procurato al nostro spirito in gran numero ogni sollievo dalle fatiche, essendo adusi a celebrare agoni e festività che si susseguono nell’anno, a disporre di arredi privati confortevoli, il cui godimento quotidiano allontana la sofferenza. Per la grandezza della nostra città, qui giungono da tutta la terra ogni genere di prodotti …

«Noi amiamo il bello ma con misura, amiamo la sapienza ma senza mollezza. Usiamo la ricchezza più per l’opportunità che offre all’azione che per vanto di parola. Non porta vergogna ad alcuno l’ammettere di essere in povertà, ma è più vergognoso non adoperarsi per sfuggirla.

«Le stesse persone da noi si curano a un tempo dei loro affari privati e degli affari pubblici, e gli altri che si dedicano ad altre attività conoscono non da meno le questioni pubbliche. Siamo i soli a considerare chi non partecipi alla vita pubblica non uno che ama la tranquillità ma uno inutile. Noi stessi o prendiamo decisioni o ponderiamo opportunamente le questioni, convinti che non le discussioni siano dannose alle azioni, ma il non essersi procurate le conoscenze con la discussione prima di partire con l’azione verso ciò che si deve fare. Infatti, anche questo abbiamo di particolare, di sapere osare quant’altri mai e di saper valutare preventivamente ciò che andiamo a intraprendere …

«Insomma, io dico che la nostra città tutta è ammaestramento dell’Ellade … Avendo conseguito questa potenza con grandi prove e non senza testimoni, noi saremo ammirati dai contemporanei e dai posteri, senza avere alcun bisogno di un Omero che ci lodi …

«Noi abbiamo costretto ogni mare e ogni terra a diventare accessibili alla nostra audacia, ovunque elevando imperituri ricordi tanto dei castighi inflitti quanto dei benefici elargiti. Per una tale città, dunque, questi uomini sono morti combattendo valorosamente … e nel brevissimo attimo del destino si sono congedati al culmine della gloria non certo della paura.

«Osservando la potenza della nostra città … riflettete che l’hanno tenuta uomini capaci di osare, consapevoli del loro dovere e guidati nelle imprese dal senso dell’onore … Offrendo … le loro vite per la comunità hanno ottenuto per se stessi gloria immortale e la sepoltura più insigne … La terra intera infatti è la tomba degli uomini illustri.»

Dall’epitaffio pronunciato da Pericle, Aristotele (Retorica I, 1365.a) cita un passo di grande forza oratoria, che non figura in Tucidide: Pericle avrebbe detto che la città che perde in guerra la sua gioventù è come l’anno che è privato della sua primavera.
L’epitaffio riproduce l’ideologia periclea della democrazia incentrata sui principi di libertà e uguaglianza, di attiva partecipazione dei cittadini alla vita pubblica e alla difesa della città, di integrazione degli interessi dei singoli negli interessi comuni, ma con la rigorosa distinzione fra interessi privati e interessi pubblici. La guerra sarà la prova più dura per la democrazia e per i cittadini ateniesi. Dopo la guerra, nulla più sarà come prima. Anzi, per Tucidide, dopo la morte di Pericle nulla più sarà come prima, né la città né la democrazia. Pericle muore nel 429 a.C. e Tucidide (II, 65) ne traccia un sentito elogio:

«Per tutto il tempo in cui fu a capo della città, in tempo di pace, la resse con moderazione e la custodì in sicurezza, e sotto di lui divenne grandissima …

«Egli, potente per prestigio e per capacità di giudizio, manifestamente incorruttibile dal danaro, reggeva il popolo nella libertà, e non si faceva trascinare da quello ma anzi era lui a guidarlo. E siccome aveva raggiunto il potere non per mezzo di illeciti, non parlava per compiacere il popolo ma, per il prestigio di cui godeva, lo contraddiceva fino alla collera…

«Dunque, nella parola era una democrazia, di fatto era un potere esercitato dal primo cittadino.»

Nel generale clima di consenso e di elogio della democrazia nell’età di Pericle, si registra una voce di dissenso sprezzante contro la democrazia ateniese. L’anonimo «Vecchio Oligarca», autore del libello antidemocratico noto con il titolo La costituzione degli Ateniesi, criticava la democrazia ateniese come il regime dei peggiori a vantaggio solo dei peggiori, rivendicando agli aristocratici-oligarchici le competenze e il diritto a gestire al meglio le istituzioni cittadine. Il «Vecchio Oligarca» identificava la democrazia come il regime del malgoverno (kakonomia) e l’aristocrazia come il regime del buon governo (eunomia), «giacché nei migliori (aristoi) è minima l’intemperanza e l’ingiustizia e massima è la cura verso il bene, mentre nel popolo c’è ignoranza, disordine e abiezione al massimo grado» (I, 4-5). Inoltre, l’anonimo autore oligarchico accusava gli Ateniesi di vessazioni e di sfruttamento nei confronti degli alleati, di corruzione e di imbarbarimento dei costumi. Per gli oligarchici, la democrazia è un sistema non riformabile, ma un sistema da abbattere. Secondo Aristotele, gli oligarchici si impegnavano con un giuramento a essere sempre ostili alla democrazia e a mettere in atto tutto il male possibile ai suoi danni (Politica V, 9.10-11).

Comincia con il pamphlet antidemocratico del «Vecchio Oligarca» quel filone antidemocratico nel pensiero greco che avrà in Platone l’avversario più intransigente della democrazia ateniese. In questo filone antidemocratico, il termine cardine del lessico politico ed etico della democrazia ateniese, isegoria, la libertà di parola in assemblea, è deformato nel termine parrhesia, che, dal significato originario di parlare francamente, senza timore né inibizioni, sempre più assume il significato negativo della eccessiva loquacità, della sfrenatezza e irresponsabilità del parlare in assemblea.

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I principi di isonomia e di isegoria che sostanziano la democrazia ateniese al suo interno, sono ignoti al vocabolario politico ateniese quando la città si proietta all’esterno, quando si propone come città che esercita il suo dominio su altri, quando la città esercita il suo imperialismo, e lo esercita nei modi più brutali soprattutto durante la guerra del Peloponneso. I dibattiti sempre aperti sul apporto fra democrazia interna, capace di offrire il massimo delle garanzie ai propri cittadini, e imperialismo, con i soprusi che la democrazia può compiere quando si proietta militarmente all’esterno limitando o addirittura conculcando i diritti altrui, ha nella democrazia ateniese e nel suo imperialismo un archetipo e un punto di partenza.

L’imperialismo ateniese ha le sue origini nella costituzione della Lega Delio-Attica (477 a.C.), cioè quel sistema di alleanze fra città greche promosso da Atene e costituito con la finalità di far fronte comune a eventuali nuove minacce che dovessero venire dall’impero persiano. Di questo sistema di alleanze, progressivamente Atene assunse il ruolo non più di città partner o di città guida ma di città egemone. La potenza di Atene all’esterno fu definita allora una arché: dominio, impero. La involuzione di Atene da città democratica a città imperiale si manifestò in tutta la sua brutalità nel corso della guerra del Peloponneso. È ancora Tucidide che analizza e fonda le basi del giudizio sulla brutalità della democrazia demagogica e imperiale. Nel 428 a.C., la democrazia ateniese era passata dalla guida illuminata di Pericle alla demagogia cieca di Cleone. Riportando il discorso del demagogo Cleone in assemblea, Tucidide fa dire a Cleone che «la democrazia è incapace di esercitare il dominio sugli altri», e che l’arché, il dominio sugli altri deve essere esercitato come una tirannide (III, 37). Di questa ideologia rimase vittima più tardi una piccola isola sperduta nell’Egeo, l’isoletta di Melos, che cercava di mantenere una posizione neutrale nella guerra fra Atene e Sparta. Nel 416 a.C., l’isola fu assediata dagli Ateniesi. Nel celebre dialogo che si svolge fra i Melii e gli Ateniesi prima dello scontro definitivo, Tucidide (V, 84-113), con inquietante freddezza, ha contrapposto le vane ragioni del diritto e della tradizione invocate dai Melii e le ragioni spietate della logica di potenza imperiale fatte valere dagli Ateniesi.

I Melii sono consapevoli di non avere scampo fra due scelte: la guerra con gli Ateniesi oppure la schiavitù, perciò sanno già dall’inizio che il dibattito con gli Ateniesi non potrà svolgersi all’insegna della serenità. Gli Ateniesi dichiarano che non intendono dilungarsi in belle parole. Essi sostengono che, al di là del fatto che il diritto a dominare viene loro dalla storica vittoria sui Persiani, le ragioni del diritto possono essere fatte valere quando due contendenti hanno uguale e reciproca capacità di dissuasione, «altrimenti chi è in posizione di superiorità fa ciò che è in suo potere e i deboli devono adattarsi» (V, 89).

I Melii tentano di convincere gli Ateniesi prospettando l’utilità che potrebbe derivare loro in futuro dal rispettare chi si trovi al momento in pericolo, visto che gli Ateniesi hanno messo da parte il diritto e preferiscono impostare la loro condotta sul principio dell’utile (V, 90).

Alla affermazione degli Ateniesi che il loro dominio è un vantaggio per tutti, i Melii replicano: «E in quale modo mai potrebbe risultare utile a noi essere schiavi e a voi dominare?» (V, 91-92).

Ateniesi: «Il fatto è che per voi sarebbe utile sottostare invece di subire cose ben più terribili, e noi ci guadagneremmo a non distruggervi» (V, 93).

Melii: «Sicché non accettereste che noi, standocene in pace, siamo vostri amici anziché nemici, alleati di nessuno dei due?» (V, 94).

Ateniesi: «No, perché ci danneggia non tanto la vostra ostilità quanto la vostra amicizia che, agli occhi dei nostri sudditi è simbolo di debolezza, mentre il vostro odio è simbolo di potenza … I nostri sudditi ritengono che agli uni e agli altri non manchino ragioni di diritto, ma che alcuni rimangono liberi in virtù della loro potenza e che noi non li attacchiamo per timore; di conseguenza, anche al di là del fatto di esercitare il dominio su un numero ancora maggiore di soggetti, con il sottomettervi voi ci procurereste sicurezza, se non altro perché voi, che siete degli isolani e più deboli di altri, non avreste prevalso sui dominatori del mare» (V, 95-97.)

Melii: «Noi stessi, sappiatelo bene, riteniamo che sia difficile lottare contro la vostra potenza e contro la sorte, se non si è alla pari; e tuttavia ugualmente confidiamo di non essere svantaggiati nella sorte da parte della divinità, perché ci opponiamo da pii a gente non giusta» (V, 104).

Ateniesi: «Ma neppure noi pensiamo che ci faccia difetto la benevolenza divina; perché nulla noi giudichiamo o facciamo al di fuori di quella che è l’umana opinione delle cose che attengono al divino, o di ciò che gli uomini desiderano per se stessi. Noi riteniamo infatti che la divinità, per comune opinione, e l’essere umano, con ogni evidenza, dominano dovunque abbiano forza, per necessità di natura. Non siamo stati noi a istituire questa legge né i primi a fare uso di questa legge vigente; ma avendola noi ricevuta come già esistente e lasciandola come legge che varrà per sempre, ce ne serviamo, ben sapendo che anche voi, ed eventualmente altri, pervenuti alla nostra stessa potenza, farete altrettanto» (V, 105).

È il discorso della tracotanza e della forza. Il discorso è perfino pacato, ma in un’aria sospesa e sempre più carica di tensione mano a mano che le battute del dialogo incalzano in un crescendo sempre più intenso e drammatico e gli Ateniesi non cedono dalla loro granitica certezza della necessità naturale e divina del dominio. Melos è distrutta, gli abitanti massacrati, i superstiti venduti come schiavi. Tucidide ha saputo consegnare alla storia l’episodio di Melos con tutta la sua carica tragica e con il valore duraturo di simbolo della spietata logica di potenza. Nell’episodio di Melos, Tucidide ha rappresentato e fondato il modello di una politica imperialistica amorale e dominata dalla sola alternativa possibile fra l’essere dominatori o l’essere dominati. Quello di Tucidide è un atto d’accusa contro l’incapacità degli Ateniesi di impedire alla democrazia le derive incontrollate della demagogia, e quindi l’incapacità di dare alla loro potenza moderazione e regole morali diverse da quelle della spietata logica di potenza. Sembra quasi che Tucidide avverta in ciò e voglia denunciare, ma con suo distacco, il destino autodissolutivo della città, della democrazia, dell’impero.

La sconfitta che di lì a pochi anni Atene subirà nella guerra del Peloponneso, il processo e la condanna a morte di Socrate, suoneranno come una conferma delle analisi di Tucidide, che ha osservato acutamente e vissuto drammaticamente l’involuzione della democrazia ateniese dagli splendori di Pericle alle miserie della demagogia e alle spietate violenze dell’imperialismo.

[Tratto da: B. Virgilio, Punti di vista sulla democrazia ateniese, in G. Caramuscio, M. Spedicato, V. Zacchino (edd.), Umanesimo della terra. Studi in memoria di Donato Moro, Lecce 2013, pp. 381-392]

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