Nei sincronismi che accomunano i re e i regni di Macedonia, d’Egitto, di Siria e altre potenze come Sparta, Cappadocia, Cartagine, Polibio vede l’opera della tyche (IV, 1.9; 2.4-10: 4). Nella 139a Olimpiade (224-220 a.C.) le morti di Antigono III Dosone, di Tolemeo III Evergete, di Seleuco III Soter (un sincronismo che si era già verificato nella 124a Olimpiade [284-280 a.C.] con le morti di Tolemeo I, Lisimaco, Seleuco I, Tolemeo Cerauno) avevano portato al trono tre giovanissimi re: Filippo V in Macedonia, Tolemeo IV Filopatore in Egitto, Antioco III il Grande in Siria. Contemporaneamente i Cartaginesi conferivano al giovane Annibale il comando delle operazioni in Spagna. Polibio osserva che con questi cambi generazionali di potere il mondo si era rinnovato (IV, 2.4; 2.10).
Per ovvie ragioni connesse con il racconto degli eventi, l’attenzione di Polibio è rivolta in particolare ai tre giovani re ascesi al trono nella 139a Olimpiade. Ancora una volta siamo di fronte a una sorta di implicita comparazione tripartita che si sviluppa lungo le Storie e che potrebbe forse essere assunta come un ricorrente schema storiografico polibiano nel quale i lineamenti biografici e i giudizi sui diversi protagonisti si incarnano nel racconto degli eventi storici, e il giudizio sui protagonisti può fornire il giudizio sugli eventi.
Su Filippo V Polibio esprime giudizi articolati in funzione delle trasformazioni del re nel corso del regno. Filippo era il più dotato e apprezzato dei basileis: eccelleva per intelligenza, memoria, fascino, portamento regale, forza, coraggio, capacità militari; eppure, da re degenerò in crudele tiranno (IV, 77.3), egli che pure era stato all’inizio il beniamino dei Greci (VII, 11.8), e che a proposito di Sparta (219 a.C.) aveva anche saputo prendere la decisione più saggia e più mite scegliendo fra i pareri divergenti del suo consiglio (IV, 23.7-9–24.1-9). Fino all’episodio di Termo, Filippo e il suo esercito si erano comportati secondo le leggi di guerra (V, 9.1), ma con l’empia e brutale distruzione di Termo in Etolia (218 a.C), compiuta per vendicare il saccheggio di Dodona da parte degli Etoli l’anno prima, Filippo V, pur con l’attenuante della giovane età e dei cattivi consiglieri, aveva commesso le stesse empietà degli Etoli (V, 11.1), si era comportato da violento tiranno piuttosto che da re magnanimo animato dal desiderio di emulare I modelli di Filippo II e di Alessandro (V, 10.1-11): «infatti è opera di un tiranno fare del male e dominare con il terrore di sudditi mal disposti, odiandoli ed essendone odiato; mentre è da re guidare ed essere a capo di sudditi ben disposti, facendo del bene a tutti, essendo amato per l’evergetismo e la philanthropia» (V, 11.6). È evidente qui l’eco della distinzione fra buon re e tiranno risalente al pensiero politico greco del IV secolo a.C.[3].
Nell’occupazione di Messene (215 ca. a.C.) Filippo, dando ascolto ai consigli malvagi di Demetrio di Faro, commise le più gravi empietà e si comportò ancora una volta da crudele tiranno assetato di sangue umano (VII, 13.5-7). Quando si avvaleva di cattivi collaboratori e consiglieri Filippo era il più empio degli uomini, mentre era il più mite quando si avvaleva di buoni consiglieri (IX, 23.9). La nefasta influenza esercitata dai cattivi consiglieri sul giovane Filippo induce Polibio a considerare quanto importante sia la scelta degli amici, i philoi, per le sorti di un regno e quanto invece poco accorti siano i re in tale scelta (VII, 14.6). Ad Argo (209 a.C.) Filippo si lasciò andare ad abusi dispotici ugualmente odiosi perché, deposto il diadema e la porpora regali, indossava le vesti del privato presumendo di apparire così più vicino al popolo (X, 26.1-6). Con la conquista di Kios in Bitinia (202 a.C.) Filippo avrebbe confermato la sua fama di crudeltà e di empietà (XV, 22.3). A Pergamo (201 a.C.), il re macedone aveva compiuto ogni sorta di distruzioni sacrileghe (XVI, 1.1-6); ecc. In definitiva, secondo Polibio, «nessuno dei predecessori avrebbe avuto qualità maggiori per regnare e neppure i vizi di quel re» (X, 26.7). Fu la sconfitta di Cinoscefale (197 a.C.), e la mutata fortuna, a indurre Filippo a moderazione e prudenza (XVIII, 33.4-7; XXV, 3.9). Negli ultimi anni del regno, osserva Polibio ribadendo il ruolo attivo della tyche nel dirigere la storia, sembrò che la tyche volesse far pagare a Filippo il fio di «tutte le empietà e le ingiustizie che aveva commesso durante la vita» (XXIII, 10.2). La «drammatizzazione» polibiana degli ultimi anni di Filippo V contribuisce a dare al re macedone i tratti dell’eroe tragico, malgrado le note polemiche di Polibio proprio contro gli eccessi della storiografia tragica o melodrammatica[4].
La condanna morale di Polibio su Filippo è totale, anche se la giovane età del re, il ruolo nefasto di cattivi consiglieri, lo strapotere di dignitari infidi e ambiziosi possono costituire qualche attenuante. Il potere e la fiducia accordata da Filippo a Eraclide di Taranto è giudicata da Polibio una delle cause principali della rovina del regno (XIII, 4.8). Apelle, per vantare il potere assoluto di cui si era appropriato nella gestione degli affari dello stato e per sminuire il prestigio del re macedone, presentava Filippo come «ancora giovane, per lo più sottoposto a lui e signore di nulla» (V, 26.4: μηδενὸς κύριος): una espressione, quest’ultima, che è l’esatto capovolgimento della definezione teorica data da Aristotele del basileus come l’unico «signore di tutto» (πάντων κύριος)[5]. Alla vanteria di Apelle Polibio fa corrispondere un impressionante elenco delle trame e dei sabotaggi orchestrati da costui in ogni circostanza, in combutta con Leonzio e Megalea, ai danni di Filippo V e delle sue imprese.
Per Polibio, il re Perseo, figlio e successore di Filippo V, con i suoi atti iniziali aveva suscitato l’entusiamo e le speranze dei Greci; mostrava dignità regale, prestanza fisica, gravità e compostezza; rifuggiva dalla dissolutezza del padre Filippo per quel che riguarda le donne e il bere (XXV, 3.1-8). Ma la guerra con Roma fu l’inizio di sciagure irreparabili per la casa reale macedone e determinò la dissoluzione del regno (XXII, 18.1; 18.8). La iniziale vittoria sui Romani a Callinico (171 a.C.) procurò a Perseo il favore ardente delle masse, come il tifo irrazionale della folla per l’atleta più debole in una gara in cui questo è opposto a un atleta ritenuto invincibile. Ma quelle stesse masse, osserva Polibio, si sarebbero certamente ricredute di fronte alla evidenza di un «potere monarchico in nessun modo soggetto a rendiconto», di fronte al ricordo «delle scontentezze suscitate fra i Greci dalla casa reale macedone» e di fronte ai «vantaggi del dominio romano» (XXVII, 9-10: 10.3). Anche qui, come farà per i giudizi sulla distruzione di Cartagine, Polibio sembra affidare ai «Greci», ossia all’opinione pubblica greca, il ruolo di arbitri e giudici di un processo storico nel quale è in causa il dominio di Roma, ma questa volta senza lasciare sospeso il giudizio.
Molti dei giudizi di Polibio su Filippo V e sugli intrighi della sua corte sono contenuti nel V libro, il libro che tratta appunto della seconda fase della guerra sociale in Grecia fra Achei e Filippo V contro gli Etoli (220-217 a.C.), della rivolta di Molone contro Antioco III (222-220 a.C.) e della quarta guerra siriaca fra Antioco III e Tolemeo IV (219-217 a.C.). Questo libro può essere dunque considerato il libro dei tre re. Qui, più che altrove nelle Storie, si può cogliere non solo quella implicita comparazione tripartita fra i tre re alla quale accennavo in precedenza, ma anche una sorta di summa dei giudizi di Polibio sui re e sul sistema di governo e di funzionamento dei regni ellenistici, nei quali Polibio individua costantemente un potere disarticolato e spesso pericolosamente in bilico fra il potere capriccioso, dispotico e perfino tirannico di basileis capaci di ogni nequizia o solo di ogni comportamento bizzarro e sconveniente, e lo strapotere arbitrario, infido e ostile dispiegato dai loro più alti funzionari. Tali contenuti del V libro sono come il presupposto ai contenuti del VI libro sul virtuoso funzionamento dello stato romano. Aggiungo che questa antitesi implicita fra sistema dei regni ellenistici e sistema dello stato romano ha la sua premessa remota nel sistema della Lega Achea delineato nel II libro. Si possono così riconoscere in Polibio due comparazioni e antitesi successive: la prima, esplicita, fra sistema democratico ideale della Lega Achea e regno di Macedonia che può essere assunto come paradigma del sistema dei regni ellenistici; la seconda, implicita, fra sistema caotico e perdente dei regni ellenistici e sistema bene ordinato e vincente dello stato romano. Le due comparazioni compongono insieme, ancora una volta, uno schema di comparazione ternaria fra Lega Achea, regni ellenistici, stato romano. Con questa prospettiva complessiva possiamo proseguire nella osservazione dei giudizi di Polibio sui principali re ellenistici.
Nei giudizi sui Tolemei d’Egitto, Polibio riflette non solo una tradizione diffusa ma si avvale anche delle esperienze familiari e personali con la corte e con la città di Alessandria[6]. Tali giudizi sono comunque coerenti sia con la valutazione generalmente negativa dello storico nei confronti delle monarchie ellenistiche come istituzione sia con l’attitudine di Polibio a distinguere le personalità dei singoli basileis.
Tolemeo IV Filopatore si era macchiato di delitti familiari e dinastici, esecitava il suo potere reale in maniera piuttosto festaiola, risultava inaccessibile ai membri della corte e della amministrazione, era negligente nel governo degli affari e dei possedimenti esterni strategici per l’Egitto: tanta negligenza, osserva Polibio, era dovuta al fatto che Tolemeo era preso da amori sconvenienti e da continue insane ubriachezze (V, 34.1-10). Ancora, egli era dominato da una etera, e dopo la vittoria di Rafia (giugno 217 a.C.) conduceva una vita dissoluta (XIV, 11.5; 12.3). Alla sua corte Sosibio, «personaggio astuto e di lungo corso» al servizio del re, aveva in realtà procurato notevoli danni al regno con i suoi crimini e le macchinazioni proseguiti anche dopo la morte del re (XV, 25.1-7). L’inazione di Tolemeo dopo la vittoria di Rafia su Antioco III, che lo induceva ad appagarsi della inattesa conquista della Celesiria senza trarre tutti i vantaggi dalla vittoria, è attribuita da Polibio alla «consueta neghittosità e mala disposizione» del re (V, 87.3).
I documenti ufficiali presentano tutt’altro Tolemeo. Nella stele trilingue di Pithom[7] contenente il decreto emanato il 15 novembre 217 a.C. dal sinodo dei sacerdoti egiziani riunito a Memfi per celebrare la vittoria di Rafia, l’audacia delle imprese militari di Tolemeo IV ben oltre i limiti della Celesiria, la vittoria su Antioco costretto a fuggire e a «gettare via il suo diadema e gli abbigliamenti reali» in segno di sconfitta e di regalità compromessa, l’enorme bottino conquistato, il recupero e il trasporto in Egitto di un gran numero di statue degli dei depredate dai Persiani sono dettagliatamente descritte (nella parte demotica meglio conservata) rispettando i temi di un tipico schema retorico-elogiativo che comprende anche gli ormai consueti interventi del basileus a favore degli dei e dei templi egiziani, e sono all’origine degli ulteriori onori divini e delle feste decretati in onore del re Tolemeo e degli antenati.
I re Seleucidi di Siria non godono di migliore trattamento in Polibio. Con la spedizione nelle satrapie orientali Antioco III diede sicurezza al regno, sbalordì i sudditi per l’audacia e la disposizione a sobbarcarsi alle fatiche, si mostrò degno di regnare non solo sull’Asia ma anche sull’Europa (XI, 34.14-16). Ma col tempo il re si mostrò di gran lunga inferiore alle aspettative (XV, 37). Antioco, accomunato a Filippo V, non evita la qualifica di tiranno che Polibio gli affibbia in conseguenza del patto, giudicato vergognoso, stretto fra i due re alla morte di Tolemeo IV (204 a.C.) per spartirsi i dominî egiziani dell’orfano fanciullo Tolemeo V: un atto giudicato rivelatore di empietà, crudeltà e illimitata cupidigia dei due re. Ma, osserva Polibio, la tyche svolse il ruolo che le competeva procurando a entrambi punizioni esemplari con le sconfitte che i Romani inflissero loro (a Cinoscefale e a Magnesia) e con la sottomissione alla quale essi furono obbligati (XV, 20.1-8).
Antioco III non sfuggì agli intrighi di corte del suo primo ministro Ermia. Ancora il V libro è prodigo delle informazioni al riguardo. Invidioso e crudele, Ermia dispiegava i suoi intrighi mentre era in atto la rivolta di Molone; ostacolava per gelosia i più valenti consiglieri e collaboratori del re; consigliava Antioco in modo da esporlo ai rischi di una guerra generalizzata che avrebbe stornato l’attenzione del re dalle colpe del suo ministro; esibiva al re lettere false da lui stesso confezionate per indurre Antioco a credere che in Asia Minore Acheo era sobillato da Tolemeo IV e che Epigene era colluso con Molone (V, 41-42; 49-50). Come Apelle con Filippo V, Ermia teneva in pugno il giovane re Antioco (V, 45.7). Ad Apamea, di fronte a una ribellione dell’esercito per non avere ricevuto il soldo e di fronte al ricatto messo in atto da Ermia che si offriva di pagare egli stesso il soldo a condizione che fosse escluso dal comando il valente e stimato Epigene, Polibio osserva che il re Antioco dovette cedere al ricatto in quanto, «tutto preso e preoccupato dalle azioni di governo, dallo stare in guardia e dalle misure necessarie a motivo della malvagità di Ermia, non era padrone di se stesso» (V, 50.1-14: 5). A Seleucia Ermia commise ogni genere di crudeltà, e a fatica Antioco ristabilì l’ordine in città (V, 54.10-11). La eliminazione di Ermia, a séguito di un complotto guidato dal celebre medico di corte Apollofane con il consenso dello stesso Antioco, fu accolta con generale sollievo (V, 56.1-15).
Alla «personalità barocca»[8] di Antioco IV Polibio non concede alcuna attenuante: lo storico storpiava l’epiteto regale Epiphanes in Epimanes che faceva del re un «folle»; descriveva i comportamenti debosciati e bizzarri del re che sbalordivano le persone di buon senso, incerte se giudicarlo un sempliciotto o un pazzo (XXVI, 1a–1.1-14). Agli imponenti giochi di Dafne (estate 166 a.C.), organizzati da Antioco a emulazione dei giochi di L. Emilio Paolo in Macedonia dopo Pidna, il re tenne comportamenti così meschini e indecorosi da non potere essere distinto da un modesto servitore; gli invitati si allontanarono dal simposio ammirati dalla eccezionalità della organizzazione della festa ma increduli nel constatare che nella natura del re ci fossero insieme tanta virtù e tanta bassezza (XXX, 25-26). In precedenza Polibio aveva riconosciuto la magnanimità di Antioco nei confronti dei Greci (comunque non paragonabile con quella dei Tolemei a vantaggio degli Achei: XXIX, 24.12-14).
Si potrebbe continuare in questa esemplificazione dei giudizi di condanna morale e comportamentale espressi da Polibio su altri re ellenistici minori. Concludo su questo punto aggiungendo solo che, fra tutti i re ellenistici, Polibio riserva il massimo disprezzo per Prusia II di Bitinia: lo giudicava indegno delle insegne regali, empio, ignobilmente servile nei confronti di Roma, un mezzo uomo, vigliacco, effeminato, dissoluto, privo di qualunque istruzione, barbaro come un Sardanapalo (XXX, 18; XXXII, 15.7-14; XXXVI, 15).
Di tutt’altro tenore sono i giudizi che Polibio esprime sugli Attalidi di Pergamo, ma ciò non dipende dal maggiore o minore tono encomiastico che Polibio riversa nei necrologi che sintetizzano i tratti principali del carattere, delle qualità e delle azioni di uomini illustri defunti.
È sicuramente degna di nota la dettagliata descrizione fornita da Polibio circa la magnifica accoglienza pubblica (apantesis) riservata da Atene ad Attalo I nella primavera del 200 a.C. (XVI, 25-26)[9]. Ma è nell’elogio funebre di Attalo che Polibio esprime tutto il suo convinto consenso nei confronti del re pergameno, morto nel 197 a.C. dopo essere stato colto da malore mentre era impegnato a Tebe a fianco dei Romani e degli Achei contro Filippo V di Macedonia.
Polibio scrive che Attalo, disponendo solo della ricchezza per fondare il suo regno, seppe farne uso con accortezza e audacia al solo scopo di acquisire la regalità, essendo questo il modo più alto e più nobile di uso della ricchezza. Attalo realizzò il suo disegno non solo per mezzo di benefici e favori agli amici ma anche attraverso le imprese di guerra che gli consentirono di assumere legittimamente il titolo di basileus. Egli visse la sua vita e il lungo regno nella massima saggezza e nobiltà nei confronti della moglie e dei figli; mantenne la lealtà nei confronti di alleati e amici; morì mentre era impegnato nell’impresa più nobile lottando per la libertà dei Greci; regolò le questioni di potere tra i quattro figli in modo tale che la regalità fu trasmessa fino ai figli dei figli senza contrasti (XVIII, 41). Attalo assume in Polibio tutte le caratteristiche del re ellenistico ideale.
L’elogio di Attalo I ha il suo corollario nell’elogio della regina Apollonide, moglie di Attalo. Polibio la esalta per avere mantenuto la sua «eccellenza» di regina, per la «discreta e civile dignità e nobiltà», per la felice maternità dei quattro figli, per la magnificenza scenografica con la quale i figli la accompagnarono nel corteo reale svoltosi durante la visita della regina nella natìa Cizico (XXII, 20). L’elogio polibiano riecheggia i temi della propaganda dinastica attalide che fonda sulle virtù di Apollonide sposa, madre e regina, il nuovo tema della concordia familiare (homonoia) che diventa la cifra distintiva degli Attalidi[10]. In straordinaria sintonia con l’elogio polibiano, il decreto di Hierapolis in Frigia, emanato in morte di Apollonide, elogia le esemplari virtù femminili di Apollonide: la regina è lodata per avere usato devozione verso gli dei e venerazione verso i genitori, per avere convissuto con magnificenza accanto al marito Attalo, per avere educato i figli alla concordia, per avere reso partecipe del suo affetto anche la nuora Stratonice moglie di Eumene II[11]. La concordia degli Attalidi è consapevolmente opposta alle turbolenze familiari e dinastiche che non di rado squassavano le altre dinastie ellenistiche. Perfino nella ostile Macedonia la concordia fra Eumene II e il fratello Attalo era indicata da Filippo V ai recalcitranti figli Perseo e Demetrio come esempio e modello cui uniformarsi e come la principale causa della fortuna del regno di Pergamo (XXIII, 11.6-7).
L’ambigua condotta tenuta da Eumene II con le trattative segrete con Perseo (con le quali lo storico tende ad attribuire a Eumene la volontà di mediatore del conflitto nell’interesse di Roma ma anche riconosce i sospetti e i gravissimi rischi ai quali il re si esponeva di fronte a Roma) è spiegata da Polibio con la grande avidità di danaro del re pergameno. Polibio si duole della umiliazione inflitta dai Romani ad Eumene II, già sbarcato a Brindisi, con il divieto di proseguire per Roma (inverno 167 a.C.); dell’invito rivolto dal legato G. Sulpicio Gallo in Asia (163 a.C.) a presentare ogni sorta di accuse e maldicenze contro Eumene. Ma, osserva Polibio, più i Romani trattavano duramente Eumene, tanto più i Greci gli erano solidali (XXXI, 6). Polibio stesso si mostra solidale con Eumene per il trattamento inflittogli dai Romani dopo Pidna, proprio perché egli stesso si era «trovato nelle stesse circostanze e più di altri colpito da quegli eventi» (XXIX, 5.3).
Nel necrologio Polibio presenta Eumene come fisicamente debole ma dotato di «vigore dell’animo»; non fu secondo a nessuno dei re del suo tempo, anzi superiore nelle imprese più grandi e più nobili; fu artefice della grandezza del suo regno mettendolo in grado di competere con le più potenti monarchie del tempo, «non per fortuna» ma in virtù della sua «sagacia, laboriosità e capacità di azione»; fu grandissimo evergete di città e privati, seppe fare accettare ai fratelli il suo ruolo di re rendendoli partecipi della salvaguardia del regno (XXXII, 8).
Non basta il tono elogiativo dei necrologi, e neppure la simpatia derivante dal comune destino del re Eumene II e dell’Acheo Polibio vittime dei risentimenti di Roma a séguito di Pidna, a giustificare la eccezionalità dei giudizi positivi di Polibio nei confronti degli Attalidi rispetto agli altri re ellenistici (l’elogio del re numidico Massinissa è un caso a parte: XXXVI, 16). È probabile che i giudizi sugli Attalidi siano stati influenzati dal fatto che questi furono gli unici re ellenistici a stare dalla parte di Roma nelle guerre contro i regni di Macedonia e di Siria, nello scacchiere greco-asiatico, nel fatidico periodo di quei 53 anni che determinarono il dominio universale di Roma (nella guerra contro Antioco III gli Achei erano stati alleati di Eumene II). Ricordando il divieto del Senato alla prosecuzione del viaggio di Eumene da Brindisi a Roma, Polibio osserva non senza amarezza che i Romani imposero il loro divieto a quell’Eumene «che aveva prestato loro i più grandi servigi e cooperato al massimo nelle questioni contro Antioco e nella guerra contro Perseo» (XXIX, 6.4). Polibio era dunque capace di esprimere una discreta ma chiara critica alla durezza dei comportamenti di Roma anche nei confronti degli alleati che più di tutti avevano contribuito al suo successo. Dopo Pidna, Eumene, Rodi e gli Achei dovettero rassegnarsi al brusco mutamento pretestuosamente imposto da Roma nei rapporti con ciascuno di loro e al ruolo che Roma intendeva esercitare, anche nei loro confronti, come potenza egemone se non già imperiale.
5. Polibio e la costituzione mista Romana
Con il V libro Polibio, secondo il piano dell’opera già stabilito (I, 64.2; III, 2.6; 118.11-12; V, 111.9-10; VI, 1.1; 1.4-5), interrompe la narrazione degli avvenimenti della 140a Olimpiade (220-216 a.C.) per trattare della costituzione mista romana: quando i giudizi politici sulla Lega Achea (e sulla Lega Etolica), sui basileis e sulle corti ellenistiche erano già stati dati. Proprio questo sembra a Polibio il momento più opportuno per analizzare e valutare la costituzione romana (VI, 2.1-4). Pertanto, in base a quanto ho fin qui esposto, mi sembra che i contenuti del VI libro impongano implicitamente e retrospettivamente il confronto fra l’ordinamento romano descritto nel VI libro e i giudizi precedentemente espressi dallo stesso Polibio sui re ellenistici nel V libro e sulla Lega Achea nel II libro. La sequenza comparativa riguarda prima il sistema della Lega Achea in rapporto al sistema della Macedonia e dei regni ellenistici, poi il sistema dei regni ellenistici in rapporto al sistema dello stato romano.
Nel VI libro Polibio esalta l’ordinamento politico e militare dello stato romano servendosi degli strumenti di analisi proprî del pensiero politico greco e adottando il principio della trasformazione o del ritorno ciclico delle costituzioni. Più che ai principî, Polibio dà risalto ai meccanismi del funzionamento pratico delle istituzioni e alla organizzazione generale dello stato romano come sistema per così dire virtuoso e vincente, riservando al sistema militare romano una descrizione dettagliata.
Per Polibio la costituzione mista, progressivamente sempre più perfezionata e di per sé preferibile, era caratterizzata a Roma dalla ripartizione responsabile, dal bilanciamento e dal controllo incrociato dei poteri fra i consoli, il senato e i comizi popolari: un sistema che, osservato nelle sue singole componenti, appariva a Polibio fornito dei migliori elementi della monarchia (i consoli), della aristocrazia (il senato) e della democrazia (i comizi) (VI, 11.11-12). In tale sistema, inoltre, Polibio attribuiva alla religione popolare il ruolo di contenimento della volubilità e della passionalità irrazionale delle masse, cioè il ruolo di mantenimento dell’ordine sociale e della moralità pubblica (VI, 56.6-12).
Grazie a questo ordinamento Roma aveva esteso il suo dominio sul mondo (I, 1.5; VI, 2.2-3). Come ogni costituzione che raggiunga il vertice dell’eccellenza e della potenza, anche la costituzione romana sarà soggetta alla legge della anakyklosis. Senza nominarla esplicitamente, ad essa evidentemente Polibio pensa quando delinea i passaggi e le cause della crisi di un ordinamento politico (politeia) che abbia raggiunto una supremazia e un potere incontrastati: la lunga prosperità e il lusso eccessivo, l’ambizione e la competizione fra i cittadini per le cariche pubbliche e i posti di potere, la ricerca di gloria e di ricchezze dei singoli corromperanno lo stato; sarà il popolo ad assumersi l’iniziativa del mutamento e, in preda all’ira e alle passioni, a pretendere che il potere sia solo e tutto suo; «quando ciò avvenga, quell’ordinamento assumerà il più nobile dei nomi: libertà e democrazia, mentre è la peggiore delle cose: oclocrazia» (VI, 57.5-9: 9).
Quanto all’esercito romano, la sua organizzazione era fondata sulla leva obbligatoria dei cittadini selezionati dalle tribù e sui contingenti forniti dalle città alleate in Italia; l’addestramento comune in campi militari organizzati con grande ordine ed efficienza («dove l’articolazione del tracciato delle strade e di ogni altra sistemazione rende l’impianto simile a una città»: VI, 31.10); la disciplina ferrea garantiva un servizio ordinato e la sicurezza nel campo (VI, 35-38); la prospettiva di ricompense e di premi alimentava le prove di valore in battaglia (VI, 39.1-11). Le vittorie dei Romani sugli eserciti dei re ellenistici sono attribuite da Polibio alla duttilità dello schieramento, dell’impiego e alla manovrabilità dei vari reparti dell’esercito romano sul teatro della battaglia rispetto alla scarsa manovrabilità della falange macedone al di fuori dei terreni pianeggianti e privi di ostacoli dove comunque questa risulta insuperabile negli scontri frontali (XVIII, 28-32).
Ordinamento dello stato, esercito e organizzazione militare, ordine sociale erano per Polibio i decisivi punti di forza e di superiorità che avevano determinato il successo di Roma e la realizzazione del suo dominio sul mondo. Considerando l’importanza che Polibio annette all’ordinamento politico di uno stato per il suo successo o insuccesso, è inevitabile che l’ordinamento romano vincente risulti di fatto contrapposto all’ordinamento perdente dei regni ellenistici avversari di Roma. Da questo confronto risulta complessivamente e si comprende il giudizio di Polibio sul fallimento dei regni ellenistici di fronte a Roma. Le bassezze morali dei singoli basileis, gli intrighi nelle corti ellenistiche, lo strapotere e gli arbitrii di singoli alti funzionari capaci di ogni sabotaggio e complotto ai danni del basileus e dello stato, il ricorso, foriero di ricatti, alle ricchezze di alti funzionari per far fronte alle esigenze finanziarie del re e dello stato, insomma il caos e l’arbitrio di un «potere monarchico in nessun modo soggetto a rendiconto» non avrebbero mai potuto verificarsi a Roma. Qui la divisione bilanciata del potere fra senato, consoli e comizi, il loro funzionamento coordinato e interdipendente, i controlli reciproci garantiscono che ogni aspetto dello stato sia regolato in modo certo e funzionale agli interessi generali e comuni.
Quando poi si osserva la dettagliata esposizione di Polibio sull’esercito e sull’ordinamento militare romano, sulla superiorità della legione romana rispetto alla falange macedone, è inevitabile anche qui il confronto con quei passi in cui Polibio mette in evidenza alcuni limiti degli eserciti dei re ellenistici: la inaffidabilità di truppe mercenarie, le ribellioni, le difficoltà finanziarie dei re a sostenere le spese dell’esercito, ecc. In definitiva, la dimostrazione della forza vincente dello stato romano è sì affidata da Polibio alla descrizione dell’ordinamento costituzionale e della organizzazione militare nel VI libro, ma tale dimostrazione emerge con ancora maggiore efficacia (e sembra quasi preparata) dal confronto implicito con le gravi debolezze strutturali dei regni ellenistici individuate da Polibio nell’esercizio disorganizzato e arbitrario del potere e messe in evidenza soprattutto nel V libro ma anche altrove.
Dal complesso delle osservazioni fin qui svolte, mi sembra che sia emerso con tutta evidenza che gli orizzonti e i sistemi politici di riferimento di Polibio siano la «vera democrazia» della Lega Achea, il «potere monarchico non soggetto a rendiconto» dei regni ellenistici, la «costituzione mista» dello stato romano. Se al sistema perdente dei regni ellenistici (V libro) Polibio fa seguire e contrappone il sistema vincente dello stato romano (VI libro), il sistema della Lega Achea (II libro) rimane come a parte, sospeso in un clima nostalgico e patriottico rivelatore non tanto di una scelta ideologica o di una proposta politica per il presente quanto piuttosto, come ho già osservato, rivelatore del più intimo e orgoglioso senso di appartenenza dello storico e del politico. Polibio non è un teorico politico ma un pragmatico analista dell’esistente. Per Polibio la Lega Achea e la Grecia rappresentano un mondo a parte (che pure deve fare i conti con le modalità del dominio romano) e suscitano i suoi slanci patriottici e sentimentali; i re e i regni ellenistici sono il passato perdente e ridimensionato sotto i colpi di Roma; il presente vincente e il futuro sono Roma e il suo dominio sul mondo da sottoporre comunque al giudizio dei contemporanei e dei posteri.
Mi piace
concludere con una osservazione di Emilio Gabba: «La spiegazione polibiana
della superiorità romana, e quindi della conquista dell’egemonia, è puramente
tecnica: demografica, militare, istituzionale. Non culturale. La cultura stava
dall’altra parte, da quella dei perdenti e dei vinti»[12].
[Il testo qui riadattato per «Iuncturae» è tratto dal saggio pubblicato nel numero di «Athenaeum» 95 (2007), pp. 49-73, in onore di Emilio Gabba, e nel mio volume Studi sull’Asia Minore e sulla regalità ellenistica, Pisa-Roma 2014, pp. 171-194.]
[1] F. W. Walbank, Polybius’ Perception of the One and the Many, cit., pp. 205-210 = Polybius, Rome and the Hellenistic World, cit., pp. 216-220.
[2] E. Gabba, Roma nel mondo ellenistico, cit., p. 40.
[3] F. W. Walbank, A Historical Commentary on Polybius I, cit., p. 549 ad l. Sul pensiero politico filomonarchico del IV secolo a.C. cf. Id., Monarchies and Monarchic Ideas, «Cambridge Ancient History2» VII.1 (1984), pp. 62-100: 75-81; B. Virgilio, Lancia, diadema e porpora. Il re e la regalità ellenistica2, Pisa 2003, pp. 25-30.
[4] F. W. Walbank, Philippos tragodoumenos. A Polybian Experiment, «Journal of Hellenic Studies» 58 (1938), pp. 55-68 = Selected Papers, cit., pp. 210-223.
[5] Aristotele, Politica III, 14.15, 1285.b.
[6] F. W. Walbank, Egypt in Polybius, in J. Ruffle – G. A. Gaballa – K. A. Kitchen (Edd.), Glimpses of Ancient Egypt. Studies in Honour of H.W. Fairman, Warminster 1979, pp. 180-189 = Polybius, Rome and the Hellenistic World, cit., pp. 53-69.
[7] H. Gauthier – H. Sottas, Un décret trilingue en l’honneur de Ptolémée IV, Le Caire 1925.
[8] P. Pédech, La méthode historique de Polybe, Paris 1964, p. 150.
[9] B. Virgilio, Gli Attalidi di Pergamo, Pisa 1993, pp. 41-42.
[10] B. Virgilio, Gli Attalidi di Pergamo, cit., pp. 44-52; Id., Lancia, diadema e porpora2, cit., pp. 104-106, 241-246.
[11] B. Virgilio, Lancia, diadema e porpora2, cit., n° 11 pp. 241-243.
[12] E. Gabba, Roma nel mondo ellenistico, cit., p. 42.