Quello che ci ha lasciato Giovanni Bernardini

Prima del Governo fascista il giorno della festa del lavoro era giorno di lotta perché si predicava l’uguaglianza sociale. Ora invece non esiste più tale antagonismo e il 21 aprile, mentre gli edifici vengono imbandierati e illuminati, i cittadini si raccolgono per celebrare il lavoro compiuto nei 12 mesi precedenti e per sapere il lavoro che devono compiere nell’avvenire. Il lavoratore ha oggi un’importanza che in precedenza non aveva avuta ed è sempre protetto dall’attuale governo, il quale conferisce pensioni e premi che servono a ricompensare ogni specie di lavoro, dal più umile al più elevato.

L’anno seguente è a Lecce. Al “Palmieri” frequenta la terza ginnasiale, ma la musica è sempre la stessa. Già a inizio d’anno scolastico il tema proposto dal nuovo docente invita a raccontare una serata particole in città, la manifestazione per la ‘riconquista d Adua’, avvenuta il 6 ottobre. Era l’inizio della guerra all’Etiopia. Ma nelle parole di quel ragazzino di terza media si intravede l’inizio di un’avventura che avrà altri obiettivi. Ripensando alla terribile sconfitta del marzo 1896, scriveva:

 Non si trattava di un palmo di terra in più posseduta dall’Italia, no, ma di una città consacrata dal sangue dei nostri eroi, una città il cui solo nome rievoca una data sfortunata ma gloriosa nello stesso tempo…e l’Italia fascista ha suonato la Diana. Il popolo italiano marcerà e saprà abbattere qualsiasi ostacolo per la grandezza della patria. Così come vuole il Duce.

Questi che ho citato, sono un piccolo esempio di quanto contengono i temi in classe svolti da Giovanni negli anni 1935-40. Essi riguardano la conoscenza degli eventi politici più importanti, con alcuni riferimenti storici, ma soprattutto verificano che sia stata assimilata dagli alunni l’esatta interpretazione che essi devono avere. La nascita del fascismo, la discontinuità rispetto al debole  Stato liberale,  la guerra d’ Etiopia, la dichiarazione dell’impero, le trasformazioni del volto materiale e morale dell’Italia, le sanzioni, l’asse e la visita di Hitler nel 38, eccetera.

 In quei temi, insomma, c’è il fascismo visto con gli occhi di un ragazzino. Ma c’è, soprattutto, una testimonianza dell’egemonia culturale del fascismo. Quel lungo percorso formativo ( 5 anni di Ginnasio e 3 di Liceo) aveva però qualcosa di eccezionale: quella formazione non avveniva su materiale storico o culturale, com’è naturale per una scuola, ma procedeva in presa diretta con la politica stessa, senza filtri, senza mediazioni. Ne derivava che quei piccoli alunni si sentissero parte integrante del processo storico, che con tanto entusiasmo vivevano. Lo sbocco sarebbe stato uno solo: la guerra.

Conseguita la maturità con un anno di anticipo, nel 1940, Giovanni si iscrisse alla facoltà di lettere a Firenze. Fu una boccata d’aria pura uscire dalla camicia di forza delle idee imposte, potersi misurare con la prosa di Emilio Cecchi, con i versi di Cardarelli. Sotto l’occhio vigile di De Robertis.

Ma i tempi bui si preparavano e gli amori giovanili non bastavano a compensare un’angoscia crescente con l’aggravarsi dell’incertezza bellica.

Neanche l’università, tuttavia, sfuggì al severo giudizio maturato col tempo. In un articolo su “Salento domani” del 12 giugno 1973, riflettendo sulla figura di Tommaso Fiore, lamentava di averlo conosciuto solo nel dopoguerra e scriveva:

“Prima, del resto, chi ne avrebbe potuto parlare, durante i vent’anni della nostra diseducazione, ad un appartenente a quella generazione senza maestri come ero io che non avevo mai avuto la fortuna, neppure nell’avanzato ambiente fiorentino, di intravedere qualche barlume di verità politica sotto la fuliggine che il fascismo aveva depositato sulla realtà italiana? E anche oggi purtroppo mi attanaglia il dubbio che di quelli antichi colpevoli silenzi non sia cessata l’abitudine nei nostri ambienti borghesi e nella nostra scuola, e intendo in particolare ambienti e scuola di Puglia, dove molto spesso avviene di dover constatare che i nomi di Gaetano Salvemini e Tommaso Fiore, pugliesi, sono del tutto sconosciuti “.

Non era uno sfogo isolato o un atteggiamento di conformismo al clima sessantottesco. Nel racconto Chi rimane, c’è un passaggio che definisce con nettezza la svolta prodotta dalla guerra. Ricordando il travaglio, i dubbi e le mille incertezze vissute nei primi mesi del rientro a casa, usciva in un’osservazione carica di conseguenze:

“… quella luce di speranze e di fiducia rinate col mio ritorno s’intorbidiva, non sapevo come e perché; inoltre mi dava nausea ricordare ciò che mi avevano insegnato, che avevo studiato sui banchi di scuola e poi all’università -almeno come me lo avevano insegnato, come l’avevo studiato- e non era servito affatto, perché m’ero ritrovato nudo al pari dell’uccello di nido in mezzo alla tempesta, e c’era voluta una guerra per cominciare a farsi una cognizione più veritiera della vita .(pag. 39). 

E che cosa intendeva Giovanni con questa espressione? Più esattamente: quale relazione c’era tra l’esperienza di guerra e la nuova cognizione della vita? Nella introduzione a Provincia difficile, Michele Tondo osserva che Giovanni si muoveva in una dimensione etica e aveva fatto proprio quanto Elio Vittorini aveva scritto nel primo numero del “Politecnico”:

“Non più una cultura che consoli nelle sofferenze, ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini” (“ Il Politecnico”, a I n. 1, sett. 1945).

In effetti, sarà proprio questo l’approdo del travaglio intellettuale e morale di Enrico, il protagonista con il quale si identifica Giovanni, come confessò in un’intervista a Adolfo Maffei. Questo però non basta a spiegare il rapporto con la guerra, tantomeno spiega la scelta di schierarsi in difesa degli ultimi. Mentre Giovanni ribadisce più volte l’importanza decisiva dell’esperienza vissuta in guerra nell’orientamento di vita che gli si era aperto.  In realtà, nell’articolo di Vittorini c’era l’invito a una riflessione nuova sul senso stesso della guerra, là dove scriveva:

“Per un pezzo sarà difficile dire se qualcuno abbia vinto in questa guerra. Ma certo vi è tanto che ha perduto. I morti, se li contiamo, sono più di bambini che di soldati; le macerie sono di città che avevano 25 secoli di vita; di case e di biblioteche, di monumenti, di cattedrali, di tutte le forme per le quali è passato il progresso civile dell’uomo. Di chi è la sconfitta più grave in tutto questo che è accaduto? La sconfitta è anzitutto di questa ‘cosa’ che, attraverso i secoli ci aveva insegnato a considerare sacra l’esistenza dei bambini. Anche di ogni conquista civile dell’uomo, lo stesso del pane, lo stesso del lavoro. Questa ‘cosa’ non è altro che la cultura. Non vi è delitto commesso dal fascismo che questa cultura non avesse insegnato ad esecrare già da tempo. Non dobbiamo chiedere proprio a questa cultura come e perché il fascismo ha potuto commetterli?

Probabilmente Vittorini pensava a uno specifico evento, al bombardamento di Dresda del febbraio precedente. Ma quanto osservava, era sotto gli occhi di tutti. E forse dobbiamo dire, è sotto gli occhi di tutti. A questo mutamento di prospettiva nel giudicare la guerra bisogna guardare per comprendere la discontinuità rispetto al passato, e le ragioni che l’avevano generata. In un passaggio di Chi rimane aveva avvertito che non si trattava di considerare i fatti, ma “… le conseguenze che cercavamo di dedurne” (p. 66).

Giovanni non aveva partecipato alla guerra guerreggiata, non aveva attraversato il “grande mattatoio della storia”. La guerra lo aveva raggiunto quasi inconsapevolmente.

Nel 1943 è a Firenze, terzo anno a Lettere, ma segue anche un corso di addestramento bellico per universitari. Il corso finisce dopo il 25 luglio. Cominciò un periodo di totale confusione, resa più cupa dalla notizia dell’Armistizio e dalla fuga del Re. I tentativi di passare le linee verso Sud fallirono; mentre egli cercava di sottrarsi all’obbligo di arruolamento nei ranghi repubblichini. Così passò un intero anno: in un totale vuoto politico, civile, sociale. Sulla testa il rombo cupo dei bombardieri americani e in lontananza l’eco della battaglia sempre più vicina. L’incontro con la guerra avviene il 31 agosto 1943.

La guerra l’avevamo finora sofferta con la fame, la paura durante gli allarmi aerei, ma adesso ci piombava proprio addosso. Il 31 agosto Pescara subiva il primo bombardamento aereo. La morte veniva dal cielo all’ora di pranzo. I quadrimotori americani, le famose “fortezze volanti”, rombavano cupamente sopra di noi senza colpire i veri bersagli, ponti e stazione. Udivamo lo schianto delle bombe, che distruggevano abitazioni ed un albergo ristorante. La gente sedeva a tavola. Morti e feriti innumerevoli (pp. 41 42).

Quel ricordo non lo abbandonerà più. Tornerà nelle campagne vicino al lager di Heuberg, tornerà pensando ai bombardamenti in Vietnam. Quando ordinerà i testi della sua prima raccolta di poesie, I segni del diluvio, dopo alcuni versi intitolati Napalm, inserirà questi:

Volavano a quota 2000

Obiettivo il ponte,

31 agosto, ore 13.

Volavano nel cielo puro,

 a guardarli da terra scaglie luccicanti,

appena un oscillare e i raggi solari

rimbalzano da una fusoliera all’altra,

 gioco di specchietti impugnati da ragazzi

o manciata di stagnole

 ben ordinate a fil di vento.

 Ma da quel cuneo

che scivola e non scalfisce l’azzurro

 precipitano a un tratto grappoli neri,

esplode l’inferno da alte colonne

 di fumo boati crolli

 ferite squarci aperti nel corpo tenero

della città, mentre le case

dove gli uomini siedono a mensa,

spezzati nell’atto da alzare un bicchiere,

ingoiare un boccone, pronunciare una parola,

folgorati dalle vampate

o proiettati in un controluce senza confini.

(Bombardamento, in Segni del diluvio, pp. 72-73)

“Ecco, la guerra, l’orrida strage, questo spaventoso urto di popoli, e noi atomi minimi dispersi nell’immane ciclone”.( Il tempo della memoria, p.56 ).

Non il concetto di guerra, ma la guerra vissuta si configurava come la soglia degli eventi che obbligava a ripensarne il senso. E non solo rispetto all’interesse generale, ma anche in relazione al proprio passato.

I valori e gli ideali che avevano guidato e nutrito la formazione dei giovani perdevano la granitica certezza: patria, duce, onore, fedeltà, vincere, coraggio, amici/nemici.  La realtà, come sempre avviene, si incaricava di fare una spietata critica dell’ideologia, mettendo ciascuno davanti allo specchio della propria coscienza per giudicare in primis se stesso. Tuttavia, alla coscienza, intesa non come astratta entità ma come consapevolezza di un soggetto dei propri pensieri e dei propri atti, non si giunge per un’immediata illuminazione, ma attraverso un percorso lungo e non facile, perché comporta, non poche volte, di dover riconoscere errori e responsabilità. Ma soprattutto attraverso un percorso che  non ha un esito necessario né unico.

Al viaggio che doveva portarlo in Germania, chiuso in un carro bestiame, Giovanni dedicò un breve racconto, Quadernetto tedesco, nel 1954 (Prove narrative, p. 29-35). Lì sottolineava proprio la difficoltà di mettere a fuoco ciò che gli stava accadendo, di raggiungere la consapevolezza piena della realtà:

Tuttavia, io compievo un viaggio forzato senza ancora avere esatta coscienza della mia condizione, con quel tanto di spirito avventuroso che a quel tempo non mi mancava mai e con la ingenua idea di muovermi in una Germania favolosa, assai poco rispondente alla realtà dei fatti. Del resto, fintanto si è in viaggio, pur in situazioni drammatiche, chi riesce ad avere il quadro lucido e irrefutabile del proprio stato? Si sa che quel rapido tramutare di paesaggi, quell’indefinito allargarsi e chiudersi d’orizzonti, quella rovina vertiginosa di immagini scompigliano la percezione quotidiana delle cose, rimescolano ogni misura e danno luogo ad una prospettiva anomala in cui, aggiuntivi stordimento e stanchezza, è difficile collocare se stessi.

I giorni seguenti gli avrebbero dato modo di vedere più lucidamente, facendogli comprendere di non essere più il disincantato osservatore di uomini e paesaggi, ma parte della tragedia della guerra; un uomo non più padrone di se stesso, delle proprie azioni e, forse, della propria vita. Fino a quel momento egli aveva vissuto nella convinzione che la letteratura, l’arte fossero la vita, perché sole in grado di coglierne l’essenza e il senso. Ora si squadernava davanti ai suoi occhi una realtà insospettata, il baratro di una vita inessenziale, l’incubo di volti inumani.

Ma proprio lì dove tutto era assurdo, lì dove la realtà si presentava come negazione dell’umano, Giovanni vede una luce di speranza, una presenza di umanità. E non solo in chi condivide la sua stessa sorte, quanto soprattutto in chi gli dovrebbe essere ostile. A Heuberg una mattina sulla strada per il campo di lavoro, crolla a terra per l’inedia e la stanchezza cronica. Un compagno lo aiuta e lo incita a sollevarsi. Da una casa vicina una donna li chiama e li aiuta, dando loro latte caldo e pane bianco. È tedesca e ha un figlio che combatte in Italia. Giovanni l’abbraccia come se abbracciasse sua madre.

Questo episodio va collegato a un altro che gli era accaduto a Pescara. Era il 6 gennaio del ’44 per strada viene rastrellato, messo su un camion insieme ad altri uomini. Vengono portati a ridosso del fronte di battaglia. Devono picconare il terreno, innevato, per renderlo atto a collocarvi i cannoni. Giovanni non riesce neanche a scalfire il duro terreno. Il soldato tedesco di guardia lo osserva, gli chiede che mestiere facesse, mette da parte il fucile e prede il piccone per fare quel lavoro.

Per capire cosa erano questi gesti, quale forza sprigionassero, è necessaria una pagina di Primo Levi. Quella in cui racconta di Lorenzo, un italiano che si era arruolato per combattere con i nazisti. Scrive Levi:

Per quanto di senso può avere il voler precisare le cause, per cui proprio la mia vita, fra migliaia di altre equivalenti, ha potuto reggere alla prova, io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi; e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo così piano e facile di essere buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno di ancora puro e intero, di non corrotto e non selvaggio, estraneo all’odio e alla paura. E, qualcosa di assai mal definibile, una remota possibilità di bene, per cui tuttavia metteva conto di conservarsi. I personaggi di queste pagine non sono uomini, la loro umanità è sepolta o essi stessi l’hanno sepolta sotto l’offesa subita o inflitta altrui. Le SS malvagie stolide, i Capos, i politici, i criminali, i prominenti grandi e piccoli, fino agli Häftlinge (prigionieri) indifferenziati e schiavi, sono paradossalmente accomunati da una unitaria desolazione interna.

Ma Lorenzo era un uomo; la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo.

Anche Giovanni, come tantissimi altri, in quei campi di negazione e in mezzo a figure abitate dalla desolazione incontra il senso stesso della vita.

Ed è questo messaggio che affida a uno dei suoi racconti più significativi.

Tre pali a Heuberg uscì su “Il campo” n. 12 del 1957. L’episodio cui si riferisce Giovanni lo ha raccontato in Il tempo della memoria (p.60), un ricordo stringato, asciutto con un breve commento. Trattava il fallito tentativo di fuga di tre prigionieri, per questo fucilati da un plotone di esecuzione composto da loro compagni di prigionia. Giovanni ne fece un racconto in chiave emblematica, teso cioè a mostrare il significato di quel fatto atroce e lo affida alla pagina di un presunto diario del cappellano militare. Un racconto nel racconto, insomma. In questa pagina i fuggitivi diventano due. Il terzo è un componente del plotone di esecuzione, il quale, scoperta l’identità degli uomini a cui deve sparare, si rifiuta di farlo e subisce la loro stessa sorte: legato a un palo e ucciso.

 Fuori le stelle si erano ormai spente tutte e il cielo appariva come vuoto. Ma dietro il bosco nero e buio, veniva su rapidamente uno spruzzo arancione che a mano a mano occupava maggiore spazio che si faceva più luminoso tanto che giunti sul luogo dell’esecuzione persone e cose si distinguevano perfettamente.

Il plotone stava già per schierarsi su ordine del comandante del Lager, esso era composto di militari estratti a sorte nello stesso reparto al quale appartenevano i condannati. Questi ignoravano tale circostanza.

Ma nel momento in cui venivano legati e bendati un soldato di nome Francesco Nerli è uscito dalla fila gridando che lui non voleva, non poteva uccidere due amici, due fratelli; era la più spaventosa crudeltà chi si potesse inventare; se gli altri avevano il coraggio di sparare erano delle belve, dei vigliacchi, dei disgraziati. Mentre lo afferravano…… (pp. 95-96)j

Giovanni aveva sperimentato sulla sua pelle che un potere fondato sulla violenza e sulla guerra, si regge sulla menzogna. La menzogna come forza demagogica, come arma di impostura. I suoi primi libri, quelli dov’è più evidente ciò che vuole dire, volle che andassero nelle scuole e si preoccupò che ci fossero le note a spiegare ciò che, forse, altri non avrebbe spiegato. Lo fece perché sapeva che le scuole sono le sole trincee dove si combatte per la libertà. In un passaggio di Gente in piazza, del 1955, osservava.

Certe idee sono simili ad acque di diversa origine che il suolo assorbe e scorrono sotterrane e non si sa per quanto cammino finché, lucide e fresche, arricchite di sostanze minerali, rampollano da una sorgente. La realtà circostante, l’esperienza, un nostro pensiero, un’osservazione, incontrandosi con esperienze, parole e osservazioni altrui, si accumulano in noi e tanto ci rimangono dentro che un giorno ne esprimiamo irrefutabile una verità. La quale vuole che, possedendola, la si partecipi ( in Altri giorni, altri racconti, p. 25).

Poggiava su questa verità il senso politico della sua scrittura.

[Relazione letta in occasione del centenario della nascita di Giovanni Bernardini, Monteroni di Lecce, 13 aprile 2023.]

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