Da bambina, a scuola dalle suore, Flannery, chiusa in una stanza, intraprendeva violente lotte con il suo angelo custode che, a detta delle suore, non la lasciava mai: “facendo una faccia feroce (e cattiva), vorticavo torno torno coi pugni serrati scazzottando l’angelo”. L’attitudine alla lotta inizierà a scorrere nel sangue di Flannery in questo immaginario scontro con l’angelo custode e continuerà a manifestarsi in ogni momento del rapporto faticoso, estenuante, avvilente con la malattia. Ma Flannery ha qualcosa, in sé, che alle volte sembra vincere persino una maledizione che divora la pelle, la carne, le ossa: l’ironia. Se si leggono le sue lettere, si nota che la scrittrice si muove leggera tra le difficoltà della propria esistenza, ironizzando sul proprio fisico debilitato, sulla propria faccia gonfia di cortisone, sulle stampelle che divengono curiose “gambe d’alluminio” sulle quali saltella. E non lo fa con amaro cinismo, ma con dolce sarcasmo. La vita di Flannery O’Connor sembra che non abbia nulla di straordinario. Studi universitari, pochi viaggi, prima della malattia. Il suo universo sembra fermarsi al Sud. È una scrittrice del Sud e il Sud diventa la sola possibile ambientazione della sua narrativa: “La saggezza del sangue”, “Il cielo è dei violenti”, “Un brav’uomo è difficile da trovare”, “Gli storpi entreranno per primi”, “La schiena di Parker” (per citare solo alcuni dei titoli più famosi) vedono come protagonisti personaggi del Sud. Tutto ricorda quella terra, il modo in cui parlano e si muovono e pensano e agiscono e vivono e muoiono. Ma dal realismo esasperato nel quale vengono catapultati i personaggi oconnoriani (balordi, truffatori, pluriomicidi, predicatori, straccioni agli angoli delle strade) emerge qualcosa che trascende la realtà, che la frantuma e la distrugge e la corrode come il lupus corrode le sue ossa: questo qualcosa è la grazia. La grazia di un Cristo che infesta la sua terra, che è conficcato nella testa dei suoi personaggi come un chiodo, anche se loro non lo sanno, anche se lo rifiutano e lo rinnegano e lo disprezzano – proprio come fa Hazel Motes, protagonista del romanzo “La saggezza del sangue”, personaggio “cristofobico” contraddittorio, potente, disarmante – e, alla fine, ne sono investiti. Questi “strampalati cercatori di assoluto” si trovano spesso a un bivio: in un mondo dominato dal Male, devono scegliere se accogliere o meno la grazia che, però, si manifesta nei modi più imprevedibili e violenti. Accogliere la grazia significa compiere il proprio destino e, alle volte, è molto più probabile che essa si manifesti nel buio piuttosto che nella luce: Norton, il figlio di Sheppard si lancia nello spazio per raggiungere la madre defunta (“il bambino pendeva, nella giungla d’ombre, dalla trave dalla quale si era lanciato per il suo volo nello spazio”), Hazel Motes si acceca con la calce viva perché è solo nel gesto estremo che accetta la verità della fede, il Balordo trova la grazia in tre colpi di rivoltella piantati nel petto della Nonna, Parker in un orrendo Cristo tatuato sulla sua schiena. “La grazia non è una faccenda di coretti angelici o di levità azzurrine: è l’evento di fronte a cui, come in un lampo, un protagonista del racconto comprende il suo destino, il suo vero destino. Il che non coincide, naturalmente, con un lieto fine”. Allora sembra crudele la narrativa di questa scrittrice, sembra che la grazia non sia da perseguire, ma da fuggire. Sembra che strappi via ogni speranza. Ma non è detto che colui che scrive storie debba necessariamente dare speranza. A volte deve metterci nudi di fronte a noi stessi. E noi, lì, nudi, rattrappiti, infreddoliti, ci guardiamo e ci riconosciamo. E, nel più meraviglioso dei casi, ci accettiamo. Così. Nudi, rattrappiti, infreddoliti. Allora è questo il miracolo di O’Connor: permetterci di accettarci. È questa la salvezza.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 26 marzo 2023]