- 2. Le «Storie» di Polibio
Le Storie di Polibio vogliono essere una grande storia globale che ha lo scopo di spiegare come e con quale costituzione politica Roma in 53 anni, da Annibale a Pidna (fra il 220 e il 168 a.C.), sia riuscita a imporre il suo dominio sul mondo, «un fatto che non si trova ad essere mai accaduto prima» (I, 1.5; III, 1.4; VI, 2.2-3; XXXIX, 8.7). È in questo periodo che la storia del mondo, dice Polibio, finisce di essere una storia di eventi isolati e diventa una storia organica i cui eventi si intrecciano su tutti gli scacchieri del mondo e tendono «verso un unico fine» (I, 3.3-4). Questa disposizione delle vicende del mondo «a senso unico» richiede che esse siano esposte «in una unica visione d’insieme», in una storia generale o universale mai intrapresa da nessuno dei contemporanei (I, 4.1-4. Cf. V, 33.1-7). Traspare da Polibio «l’orgogliosa consapevolezza … per aver trovato nell’emergere di Roma e nel suo dominio il nuovo motivo unificante della storia mondiale»[3]. A Polibio è anche riconosciuto il merito di «aver saputo razionalizzare, con l’impiego delle categorie interpretative greche della storia, il processo espansionistico romano» osservandolo e valutandolo sotto il profilo strettamente politico e militare[4].
Le storie particolari, osserva Polibio, non favoriscono l’accertamento e la comprensione del quadro generale, mentre solo chi è in grado di osservare l’intreccio e l’accostamento[5] di tutti i fatti fra loro, di cogliere le similitudini e le differenze può ricavare dalla storia l’utile e il dilettevole[6] (I, 4.6-11). La conoscenza della storia è la preparazione più autentica all’azione politica (I, 1.2) e offre agli uomini politici esempi efficaci per indirizzare correttamente la loro azione (VII, 11.2). Fra i diversi generi storiografici, la «storia pragmatica» interessa l’uomo politico; questa è scelta da Polibio per il rinnovarsi continuo dei fatti e la necessità di spiegarli, per la sua utilità, per il progresso delle tecniche che consentono di trattare con metodo sorvegliato gli argomenti da affrontare (IX, 1-2). La storia pragmatica ha i suoi fondamenti metodici nella ricerca e verifica delle fonti scritte, nella conoscenza diretta della geografia, nella esperienza delle attività politiche (XII, 25e.1): quella di Polibio vuole essere infatti una «trattazione argomentata»[7] (II, 37.3; IV, 40.1). In definitiva, la storia pragmatica è per Polibio essenzialmente la storia politico-militare[8]. Rispetto al genere encomiastico (che prevede una esposizione sommaria dei fatti e consente qualche esagerazione), il genere storiografico (che implica sia l’elogio che il biasimo) richiede un racconto veritiero sorretto da prove e da ragionamenti conseguenti (X, 21.8).
Il progetto originario di terminare le Storie con l’anno 168 a.C. al XXX libro è poi modificato con l’aggiunta dei libri XXXI-XL che estendono il racconto fino alla distruzione di Cartagine e di Corinto nel 146 a.C. Nel III libro, in un nuovo proemio, Polibio indica le ragioni di questa aggiunta. Egli spiega che, con Pidna, si poteva osservare nei fatti che il dominio di Roma fosse compiutamente realizzato, che fosse ormai diffusa la rassegnazione generale che «nient’altro restava da fare se non obbedire a Roma» (III, 4.2-3), che fosse anche diffusa la convinzione dei vantaggi del potere romano – percepito in qualche modo come un potere riordinatore – rispetto al potere monarchico della Macedonia e dei re ellenistici «in nessun modo soggetto a rendiconto» (XXVII, 10.2-3). Ma a queste constatazioni di fatto, osserva Polibio, bisogna aggiungere quale sia stato il comportamento successivo dei dominatori, in che modo sia stato esercitato il dominio, come questo sia stato accolto e giudicato dagli altri (III, 4.4-6); questi elementi, quasi pedagogicamente, devono servire ai contemporanei per formarsi il giudizio se il dominio romano sia da preferire o da fuggire, ai posteri se esso fosse da lodare ed emulare oppure da condannare (III, 4.7). Polibio legittima il suo racconto degli eventi post Pidna per esserne stato egli stesso osservatore diretto e artefice (III, 4.13). È ovvia la domanda, ma non è scontata la risposta, se Polibio ponga qui le premesse per un suo ripensamento sul dominio romano, trasformatosi da dominio riordinatore con Pidna in dominio distruttore con Cartagine, Corinto, Numanzia. Certamente egli poneva qui «il quesito del futuro di questa egemonia, intuendone il destino nei modi dell’esercizio del potere» e nella capacità di Roma di formare il consenso al proprio dominio»[9].
Tenendo fede ai principi espressi nel nuovo proemio, Polibio, ricorrendo alla figura retorica del “chiasmo”, esporrà quattro contrastanti giudizi (due di giustificazione e due di condanna) attribuiti ai Greci contemporanei sul comportamento di Roma nei confronti di Cartagine. Nel primo giudizio si approvava la prudenza e la lungimiranza politica di Roma nel rendere sicuro il proprio dominio distruggendo un nemico irriducibile continuamente in competizione con Roma per l’egemonia; nel secondo si biasimava la deriva inarrestabile della nuova politica di potenza che aveva avuto il suo prologo con lo sradicamento del regno di Macedonia a Pidna e la sua conclusione con la distruzione di Cartagine; nel terzo si condannava l’atteggiamento romano come fraudolento ed empio, proprio dei maneggi di un despota e indegno di un popolo civile come quello romano che si vantava di combattere lealmente i nemici; nel quarto, il più lungo e articolato, si individuavano le ragioni di diritto che scagionavano Roma dalle accuse di empietà, di violazione dei trattati e di inosservanza del diritto internazionale (XXXVI, 9.1-17)[10].
È vano scrutare da lungi e da presso le Storie per scoprire quale fosse il giudizio condiviso dallo storico sulla distruzione di Cartagine. Polibio «non mise mai in discussione i principî fondamentali dell’espansionismo romano»[11], ma neppure le sue analisi del dominio romano implicano che egli lo approvasse incondizionatamente. Elencando i quattro opposti giudizi sul comportamento di Roma nella distruzione di Cartagine, senza compiere apparentemente una scelta esplicita, Polibio sembra voler lasciare ai lettori contemporanei e ai posteri la libertà di scegliere e di formarsi un proprio giudizio autonomo, politico e morale, secondo gli intenti espressamente dichiarati nel nuovo proemio del III libro. Attribuendo ai Greci quei giudizi, Polibio sembra volere indicare la Grecia «come arbitro più o meno imparziale della maggiore o minore giustezza storica e morale dell’esito finale del conflitto»[12]. Tuttavia, la disposizione “chiastica” dei quattro giudizi, unita ad altre evidenti considerazioni, può fornire la chiave per intravvedere la scelta implicita di Polibio e la direzione verso la quale forse egli intendeva orientare il lettore.
Considerando che nel “chiasmo” i due giudizi giustificativi del comportamento di Roma sono collocati nella prima e nell’ultima posizione, cioè, secondo le regole della retorica, in posizione privilegiata e preminente con funzione di cornice che racchiude i due giudizi interni di condanna ritenuti perciò meno rilevanti, considerando la maggiore ampiezza e articolazione argomentativa dell’ultimo giudizio giustificazionista, nonché la ben nota amicizia e familiarità, il rapporto intellettuale e politico con Scipione Emiliano, e infine la presenza di Polibio a Cartagine accanto allo stesso Scipione, si è indotti a ritenere che lo storico non potesse esimersi dall’approvare o per lo meno dall’accettare realisticamente il comportamento di Roma, sia pure con riserva e suo malgrado[13] e senza per questo rinunciare ai suoi valori ideali di Greco e di Acheo. Il pianto di Scipione sulle rovine fumanti di Cartagine, le sue malinconiche riflessioni sulla fortuna mutevole degli imperi e il presagio di un analogo futuro destino per Roma – raccolti e registrati in tutto o in parte da Polibio in un passo particolarmente problematico per tradizione e attribuzione (XXXVIII, 21-22) –, al di là della costruzione topica, sembrano esprimere non il pentimento ma l’amara accettazione della ineluttabilità tragica degli strumenti cruenti del temporaneo dominio e, al tempo stesso, fare gran mostra della magnanimità di Scipione nel compiangere i vinti all’apice del suo trionfo e nella implicita e forse vana aspirazione (di Scipione e di Polibio) ad una maggiore moderazione e controllo di Roma nell’esercizio del dominio (se così fosse, si potrebbe forse vedere qui un aspetto o una estensione della «temperanza» di Scipione a lungo elogiata da Polibio: XXXI, 25.2; 25.8; 28.10; 28.12). Lo scontro finale con Cartagine obbligò comunque a prendere atto della «dimensione nuova della realtà. Il cambiamento fu repentino. Il testo e l’argomentazione di Polibio danno il senso dell’accelerazione della storia»[14].
- 3. Polibio e la Lega Achea
«Nonostante il suo coinvolgimento con Scipione e con Roma, nondimeno Polibio rimase prima di tutto un Acheo»[15]. Questa affermazione di Frank W. Walbank è la opportuna premessa ai giudizi di Polibio sulla Lega Achea che manifestano il suo più intimo e orgoglioso senso di appartenenza ma anche la sua partigianeria.
Il richiamo al suo impegno a raccontare non vicende particolari, ma tutte le vicende che avvenivano contemporaneamente in tutto il mondo conosciuto, induce Polibio a considerare brevemente, «prima della trattazione vera e propria, i luoghi e i popoli più famosi e più noti dell’ecumene» (II, 37.4-5). In questo contesto egli tratta degli Achei e della Macedonia in forma dichiaratamente antitetica, perché mentre la dinastia di Macedonia è stata completemente estirpata dopo Pidna (II, 37.8; XXXVI, 9.7), gli Achei hanno invece avuto «uno straordinario accrescimento e capacità di concertazione comune nelle circostanze dei nostri tempi» (II, 37.8): tale favorevole condizione non era mai stata prima realizzata perché ognuno vi si era impegnato «non per la libertà comune ma per compiacere il proprio potere personale» (II, 37.9). Ma ora, prosegue Polibio, si è verificato un avanzamento e un processo di realizzazione tale che presso gli Achei c’è non soltanto quella compartecipazione che deriva dai rapporti di alleanza e di amicizia, ma essi usano le stesse leggi, gli stessi pesi e misure, la stessa monetazione, gli stessi magistrati, gli stessi organi di consiglio, gli stessi tribunali, a tal punto che al Peloponneso manca solo una stessa cinta di mura per avere l’aspetto di una unica città (II, 37.10-11).
Fra le genti del Peloponneso gli Achei non si sono mai segnalati né per l’estensione del territorio, né per il numero delle città, né per le risorse, né per il valore degli uomini (II, 38.2), e dunque Polibio si chiede perché gli Achei ora godano di tanta fama dopo avere assunto la costituzione e la denominazione di Achei (II, 38.4). Attribuire ciò alla sorte non è pertinente (II, 38.5). La vera ragione sta per Polibio nel sistema politico e nel principio informatore (II, 38.6) fondato più di ogni altro sistema su «uguaglianza e libertà di parola e, in generale, vera democrazia» (II, 38.6) (Più avanti Polibio dirà che, rispetto a isegoria, parrhesia, e perfino libertà, nulla è meglio della pace: IV, 31.4). Polibio si riferisce esplicitamente (II, 40.2) alla Lega Achea nel periodo di maggiore prestigio fra la metà del III e la metà del II secolo a.C.: la Lega di Arato, di Filopemene, del padre Licorta e sua stessa; in particolare, quella Lega Achea all’interno della quale, abbandonata l’alleanza con la Macedonia (198 a.C.), non era oggetto di discussione l’appoggio a Roma, «ma il limite di cedimento alle richieste romane»[16].
Nel periodo compreso fra il il 198 e il 182 a.C. si collocano le opposte visioni politiche di Aristeno e di Filopemene sui rapporti della Lega Achea con Roma. Aristeno, prendendo atto della impossibilità di opporsi alla supremazia di Roma, sosteneva una politica di totale adesione e obbedienza alle richieste di Roma, fino a prevenirle, con un rispetto solo apparente delle leggi; Filopemene sosteneva invece una politica di dignitosa, motivata e non arrendevole collaborazione con Roma nel rispetto vigile e sostanziale delle leggi e dell’alleanza (XXIV, 11-13). Polibio giudicava «conveniente» la politica di Aristeno e «nobile» quella di Filopemene, e comunque l’una e l’altra erano tali da garantire la sicurezza (XXIV, 13.8). Ma poco prima Polibio aveva criticato l’avvio di una politica della prevalenza delle disposizioni di Roma sulle leggi degli Achei. Licorta intendeva evidentemente attenersi alla linea politica di Filopemene quando sosteneva in una assemblea della Lega Achea che le disposizioni di Roma sul rientro degli esuli Spartani non potevano essere applicate perché in palese contrasto con le decisioni precedentemente assunte dalla Lega; l’invio di una ambasciata Achea a Roma per chiarire le divergenze (180 a.C.) e il ruolo invece svolto nella circostanza da Callicrate, in senso opposto al mandato che gli era stato affidato, ottennero l’effetto di introdurre il principio intimidatorio che la volontà e le disposizioni di Roma dovessero essere prevalenti rispetto alle leggi, ai giuramenti e alle tradizioni degli Achei (XXIV, 8-10). Fino a quel momento, osserva Polibio, per gli Achei «era stato possibile, in qualche misura, trattare alla pari con i Romani»; dopo il periodo felice del massimo accrescimento della potenza della Lega, «questo fu di nuovo l’inizio del suo deterioramento: l’impudenza di Callicrate» (XXIV, 10.10). Polibio non esita a dire che, nella storia della Lega, gli Achei hanno condiviso con i Romani le imprese più numerose e più belle, finalizzate comunque al conseguimento della libertà e della comune concordia dei Peloponnesiaci (II, 42.5-6).
L’inno patriottico e nostalgico di Polibio per la Lega Achea, con le sue luci e le sue ombre, ricostruito su più luoghi delle Storie, andrebbe verificato alla luce delle vicende storiche e delle opinioni degli avversari come la Macedonia, gli Etoli, ecc. Ma per lo scopo di questa indagine è istruttivo assecondare il canto monocorde di Polibio. Confrontando la nozione di democrazia in altri luoghi delle Storie si può agevolmente constatare come la democrazia della Lega Achea rappresenti per Polibio la realizzazione più autentica e ideale, in un mondo dominato dal potere «in nessun modo soggetto a rendiconto» dei re ellenistici, di una democrazia che non ha nulla in comune con la «oclocrazia» ateniese del V secolo a.C.
Per Polibio la democrazia non è quella in cui «la massa è padrona di fare tutto ciò che vuole e prospetta; al contrario, dove è tradizione e consuetudine venerare gli dei, accudire i genitori, rispettare gli anziani, obbedire alle leggi, quando in tali ordinamenti prevalga l’opinione saggia della maggioranza, questo bisogna chiamare democrazia» (VI, 4.4-5). Nella esposizione polibiana della trasformazione e del ritorno ciclico delle costituzioni (anakyklosis) secondo un ordine biologico naturale, la democrazia è quel regime che, superando i limiti della oligarchia, ha a cuore gli interessi comuni ed è fondato al massimo grado su isegoria e parrhesia; il progressivo svilimento di questi principi trasforma la democrazia in violenza e dominio della forza (VI, 3-9: 9.3-9). Osserva ancora Polibio che quando il popolo si impadronisce del potere «quell’ordinamento politico assumerà il più nobile dei nomi: libertà e democrazia, mentre è la peggiore delle cose: oclocrazia» (VI, 57.9).
Nei confronti fra la costituzione mista romana e altre celebri costituzioni manca un confronto con la democrazia della Lega Achea: vuoi perché la democrazia della Lega Achea non era una delle costituzioni discusse dai filosofi politici greci, vuoi perché Polibio avrebbe intenzionalmente evitato l’imbarazzo del confronto essendo scontato il risultato a favore della costituzione mista romana. Quanto alla democrazia ateniese e tebana, Polibio dichiara che tali ordinamenti non meritano una trattazione approfondita perché questi non hanno avuto uno sviluppo razionale (VI, 43.1-3). Non l’ordinamento ma uomini come Temistocle hanno fatto la fortuna di Atene. Il popolo ateniese è paragonato a una nave senza comandante, capace di superare i pericoli se vi è accordo, destinata al naufragio anche in acque tranquille se le discordie sconvolgono l’equipaggio. Perciò, conclude Polibio, non c’è altro da dire sulle costituzioni ateniese e tebana nelle quali «la moltitudine maneggia tutto quanto secondo il proprio impulso» (VI, 44.2-9). Per Polibio, dunque, la democrazia ateniese fu piuttosto una oclocrazia: una concezione che colloca Polibio nella linea del pensiero politico greco contrario non a una democrazia astratta o ideale ma alla democrazia ateniese in particolare. L’avversione di Polibio per il potere volubile delle masse non interferisce in alcun modo con la esaltazione della democrazia nella Lega Achea, che non è certo la democrazia delle masse ma è intesa piuttosto «come l’antitesi di un governo autocratico o oligarchico e come l’affermazione di indipendenza dal dominio esterno»[17].
Sulla democrazia della Lega Achea Polibio ritorna nell’elogio di Filopemene, morto avvelenato nel 182 a.C., nello stesso anno della morte di Scipione l’Africano e di Annibale. Lo storico esalta la gloriosa attività quarantennale di Filopemene «in un sistema politico democratico e dai multiformi aspetti» senza mai incappare nell’invidia popolare ed esercitando l’attività politica non per compiacere ma con piena libertà di giudizio e di espressione (XXIII, 12.8-9). Simmetricamente, nell’elogio di Scipione l’Africano è messa in risalto la sua attività «in un sistema politico aristocratico» (XXIII, 14.1). La opposta simmetria fra modello democratico e modello aristocratico ha fatto supporre che Annibale potesse rappresentare il modello monarchico in una comparazione politica tripartita, nella quale i protagonisti esemplari sono Filopemene l’Acheo, Scipione il Romano e Annibale il Cartaginese.
L’elogio di Filopemene sembra avere una certa assonanza con il necrologio di Pericle in Tucidide II, 65.8: «E siccome aveva acquistato il potere non per mezzo di illeciti, non parlava per compiacere il popolo, ma, per il prestigio di cui godeva, lo contraddiceva fino alla collera». Anche nel caso di Scipione si può forse intravvedere una assonanza con Pericle, nella analoga, altera ed evasiva risposta di entrambi a chi chiedeva loro il rendiconto del danaro speso nell’esercizio delle cariche pubbliche[18]. Ma forse non si può andare più in là della semplice suggestione.
Delle città del Peloponneso che fanno parte della Lega Achea Polibio dice che alcune hanno aderito spontaneamente, molte in séguito a un’opera di persuasione, e quelle che vi sono state costrette con la forza hanno immediatamente apprezzato il sistema. Egli osserva che nessun privilegio era stato riservato ai membri originari e che quelli che progressivamente vi avevano aderito partecipavano alla pari, dato che i principi informatori della Lega erano «uguaglianza e civile umanità». La prosperità di cui godono i popoli del Peloponneso è dunque frutto della concertazione comune che li ha portati alla creazione di quel sistema politico (II, 38.7-9).
La diffusa situazione irenica fra gli Achei enfatizzata da Polibio può apparire in parte in contrasto con quanto emerge, per esempio, da un arbitrato degli Achei (dopo il 163 a.C.) in una ricorrente disputa territoriale fra Sparta e Megalopoli (la patria di Polibio), ma esso conferma anche la fedeltà degli Achei all’ordinamento democratico e l’aspirazione a mantenerlo saldo a condizione che fossero rispettati i giudizi arbitrali precedentemente emessi: «perché gli Achei continuino per sempre a vivere in democrazia e concordi fra loro, in pace e in osservanza delle leggi, i giudizi arbitrali emessi in precedenza davanti agli Elleni e agli alleati restino saldi e inviolati per sempre …»[19].
A questo documento rivelatore di conflitti interni fra i membri della Lega Achea bisogna aggiungere gli episodi di Mantinea, staccatasi dalla Lega e riconquistata due volte da Arato (227 e 223 a.C.). In polemica con lo storico Filarco, Polibio si appassiona nello scagionare Arato e gli Achei dalle accuse di atrocità e nell’additare invece il caso di Mantinea come esempio della loro philanthropia (II, 56-63: 57.8)[20].
I giudizi di Polibio sulla Lega Achea ancor più risaltano nel confronto con il giudizio dello storico sugli Etoli, avversari degli Achei e di Filippo V nella guerra degli alleati (220-217 a.C.). L’antitesi esplicitamente dichiarata fra Lega Achea e regno di Macedonia si allarga in forma implicita alla Lega degli Etoli diventando di fatto una comparazione tripartita (anche se la volontà comparativa è qui esercitata da Polibio soprattutto fra la Lega Achea e la Lega Etolica). Introducendo gli avvenimenti relativi alla guerra e ai pretesti degli Etoli per invadere il Peloponneso, Polibio non lesina le sue critiche agli Etoli: insofferenti della pace, abituati a vivere a danno dei vicini, sempre avidi di preda e brutali, capaci di concepire rapporti solo di ostilità, per antico costume dediti al saccheggio (IV, 3.1-3). Accuse che vanno ad aggiungersi a quelle già precedentemente espresse da Polibio sulla innata ingiustizia e cupidigia degli Etoli (II, 45.1; 49.3).
Dal punto di vista delle procedure e della prassi della Lega degli Etoli, Polibio osserva che la decisione della guerra etolica contro Messeni, Epiroti, Achei, Acarnani e Macedoni (219 a.C.) fu presa in privato da Dorimaco e Scopas che agivano in vece di Aristone, l’effettivo stratego, senza attendere l’assemblea comune degli Etoli, senza informare la commissione degli apókletoi, senza compiere nessuno degli atti dovuti ma rispondendo solo ai loro impulsi (IV, 5.9-10). La Lega Etolica è dunque caratterizzata da Polibio per l’arbitrio dei singoli nel prendere le decisioni che spetterebbero agli organi federali e per la inosservanza delle procedure comuni: cioè l’esatto contrario di quel virtuoso regime di uguaglianza, di democrazia e di concertazione comune delineato da Polibio come proprio della sua Lega Achea.
Narrando della distruzione del tempio di Dodona ad opera dello stratego Dorimaco (219 a.C.), Polibio ricacciava gli Etoli fuori del consorzio umano: «per gli Etoli non esiste un limite né in pace né in guerra, ma in entrambe le circostanze mettono in atto i loro disegni contro i costumi e le usanze comuni degli uomini» (IV, 67.4). L’episodio del saccheggio etolico del luogo sacro di Dodona e il giudizio di Polibio hanno un preciso parallelo nell’episodio della distruzione di Termo in Etolia compiuta da Filippo V l’anno successsivo nel corso della stessa guerra, episodio che offre a Polibio il motivo per esprimere un giudizio sia sull’episodio sia su Filippo (V, 11.1-6; VII, 13.3) del tutto analogo a quello espresso per l’episodio di Dodona e per gli Etoli.
I giudizi di Polibio sono evidentemente formulati in modo che la Lega Achea spicchi come antitesi positiva rispetto agli Etoli e ai re ellenistici. A Polibio non interessa tanto spiegare i meccanismi di funzionamento della Lega Achea (come farà per le istituzioni dello stato romano), quanto piuttosto mostrare come il sistema di concertazione comune, di «vera democrazia» della Lega Achea sia, in una sorta di schema ternario, parimenti antitetico ai sistemi arbitrari della Lega Etolica e dei re ellenistici.
L’esaltazione del regime democratico della Lega Achea antitetico al potere dei basileis ritorna nella affermazione di principio attribuita da Polibio a un oratore della Lega (nel 185 a.C.) il quale, stigmatizzando come ignobile e illecita l’offerta di Eumene II di una cospicua somma di danaro da destinare al finanziamento annuale delle riunioni della Lega Achea, prospettava il naturale conflitto di interessi fra basileis e democrazie, che dovrebbe indurre a respingere ogni forma di interferenza dei basileis, anche la più apparentemente generosa ed evergetica, per salvaguardare l’indipendenza delle decisioni degli Achei che spesso riguardavano proprio le divergenze con i re (XXII, 7.3; 7.8-9; 8.1-8). La stessa affermazione di principio era stata in precedenza attribuita da Polibio agli ambasciatori di Rodi che nel 189 a.C., nel celebre dibattito che li opponeva al re Eumene II nel senato di Roma circa lo statuto da assegnare alle città greche d’Asia con la pace di Apamea, affermavano che «per natura ogni monarchia è ostile al regime di uguaglianza, e fa in modo che tutti, o almeno quanti più possibile, le siano sudditi e obbediscano» (XXI, 22.8). In quella stessa circostanza, gli ambasciatori di Rodi avevano chiesto invano a Roma, trovando la decisa opposizione degli ambasciatori di Antioco III, la concessione straordinaria dello statuto di città libera per la città di Soloi in Cilicia, legata a Rodi da vincoli di syggeneia, con l’intento di sottrarre Soloi alla «servitù regia» di Antioco III (ut eam civitatem ex servitute regia eximerent)[21]. Polibio aveva già rilevato la comune tendenza dei re ellenistici al dispotismo pur dopo i loro immancabili proclami di libertà, amicizia e alleanza fatti all’inizio del regno (XV, 24.4-5), come pure la loro tendenza a valutare amici e nemici con il metro della convenienza (II, 47.5).
(Continua)
[Il testo qui riadattato per «Iuncturae» è tratto dal saggio pubblicato nel numero di «Athenaeum» 95 (2007), pp. 49-73, in onore di Emilio Gabba, e nel mio volume Studi sull’Asia Minore e sulla regalità ellenistica, Pisa-Roma 2014, pp. 171-194.]
[1] A. Momigliano, Saggezza straniera. L’ellenismo e le altre culture, Torino 1980, p. 32.
[2] E. Gabba, Aspetti culturali dell’imperialismo romano, Firenze 1993, pp. 37-77: 74: «Il duello … fra Roma e Cartagine è la spina dorsale dell’intera storiografia di Polibio.»
[3] E. Gabba, Storiografia greca e imperialismo romano (III-I sec. a.C.), «Rivista Storica Italiana» 86 (1974), pp. 625-642: 628 = Aspetti culturali dell’imperialismo romano (1993), cit., pp. 7-34: 13.
[4] E. Gabba, Aspetti culturali dell’imperialismo romano, «Athenaeum» 55 (1977), pp. 49-74: 64-67 = Aspetti culturali dell’imperialismo romano (1993), cit., pp.59-64.
[5] F. W. Walbank, Symploke: its Role in Polibius Histories, «Yale Classical Studies» 24 (1975), pp. 197-212 = Selected Papers. Studies in Greek and Roman History and Historiography, Cambridge 1985, pp. 312-324.
[6] F. W. Walbank, Profit or Amusement: some Thoughts on the Motifs of the Hellenistic Historians, in H. Verdin – G. Schepens – E. De Keyser (Edd.), Purposes of History. Studies in Greek Historiography from the 4th to the 2nd Centuries B.C., Lovanii 1990, pp. 253-266 = Polybius, Rome and the Hellenistic World. Essays and Reflections, Cambridge 2002, pp. 231-241.
[7] D. Musti, Introduzione, in Polibio, Storie (libri I-II), vol. I, BUR, Milano 2001, p. 19.
[8] F. W. Walbank, Polybian Studies, c. 1975-2000, in Polybius, Rome and the Hellenistic World, cit., pp. 1-27: 6-8.
[9] E. Gabba, La storiografia, in F. Montanari (Ed.), Da Omero agli Alessandrini. Problemi e figure della letteratura greca, Roma 1988, pp. 171-205: 192.
[10] F. W. Walbank, A Historical Commentary on Polybius III, Oxford 1979, pp. 663-668; Id., Il giudizio di Polibio su Roma, «Atti dell’Istituto Veneto di Sciezne, Lettere, Arti» 140 (1981-1982), pp. 237-256: 249-250.
[11] A. Momigliano, Saggezza straniera, cit., p. 33.
[12] E. Gabba, Aspetti culturali dell’imperialismo romano (1993), cit., pp. 75-76.
[13] F. W. Walbank, Il giudizio di Polibio su Roma, cit., pp. 247-250; E. Gabba, Aspetti culturali dell’imperialismo romano (1977 e 1993) cit., p. 69.
[14] E. Gabba, Roma nel mondo ellenistico, in B. Virgilio (Ed.), Aspetti e problemi dell’Ellenismo, Pisa 1994, pp. 38-45: 44 = «Rendiconti dell’Istituto Lombardo» 126 (1992), pp. 195-202: 201-202.
[15] F. W. Walbank, Polybius between Greece and Rome, in E. Gabba (Ed.), Polybe,Vandœuvres-Genève 1974, pp. 1-31: 29 = Selected Papers, cit., pp. 280-297: 296.
[16] F. W. Walbank, Il giudizio di Polibio su Roma, cit., p. 238.
[17] F. W. Walbank, Polybius’ Perception of the One and the Many, in I. Malkin – Z. W. Rubinsohn (Edd.), Leaders and Masses in the Roman World. Studies in Honor of Zvi Yavetz, Leiden-New York-Köln 1995, pp. 201-222: 209 = Polybius, Rome and the Hellenistic World, cit., pp. 212-230: 218.
[18] Polibio XXIII, 14.5; Aristofane, Nuvole 859 e Plutarco, Vita di Pericle 23.1.
[19] S. L. Ager, Interstate Arbitrations in the Greek World, 337-90 b.C., Berkeley-Los Angeles-London 1996, n° 137 pp. 377-380, ll. 17-21.
[20] E. Gabba, Studi su Filarco. Le biografie plutarchee di Agide e Cleomene, Pavia 1957, pp. 5-13.
[21] Livio XXXVII, 56.7-10: 7. Cf. Polibio XXI, 24.10-15.