Manco p’a capa 137. Sulla valutazione universitaria

L’esame, scritto, ne comprendeva tre, estratte a sorte. Gli studenti le conoscevano già tutte, dovevano solo imparare tutte le risposte. Nessuna sorpresa, un’ora per rispondere. Chi non avesse affrontato l’esame in quel modo, alla fine del corso, lo avrebbe sostenuto dopo, orale, con domande scelte da me. Venivano sempre tutti, e tutti superavano l’esame alla prima. L’esito era una bella curva gaussiana, con una coda inferiore (i 18) con pochi casi, e una coda superiore (i 30) con altrettanto pochi casi. Il resto si distribuiva omogeneamente attorno al 24. Chiesi anche che mi dessero la loro parola d’onore che non avrebbero copiato. Alcuni copiarono. Li smascherai di fronte a tutti: la vostra parola d’onore non vale nulla! Non li denunciai, e neppure li bocciai: si beccarono un bel diciotto sul libretto. Li avessi bocciati, avrei danneggiato la mia università, secondo le norme ministeriali. Prima di quella riforma davo solo tra 28 e 30: chi non erano ben preparato non passava, e restava indietro. Pretendevo che fossero tutti ottimi studenti. Sbagliavo, secondo la ministra.
Però… vi fareste operare da un medico che ha conseguito una laurea prendendo tutti 18? Sareste contenti di affidare i vostri figli a docenti che si sono laureati in questo modo?
Quando sento riprovazione verso sistemi scolastici che pretendono buone “prestazioni” dagli studenti, penso al calcio: preso molto più seriamente. Se un giocatore gioca male dicono che è una schiappa. Si pretende che sia bravissimo e nessuno si preoccupa della sua psiche. Tantissimi aspiranti calciatori non coronano i loro sogni, ma sono pronti ad ammettere di non essere abbastanza bravi. Uno su mille ce la fa, e c’è la dura legge del gol. Nel mondo dello spettacolo e dello sport queste competizioni (si chiamano proprio così, che siano sportive o canore) prevedono critiche impietose e lodi sperticate. Confesso di non avere alcuna propensione per queste competizioni. Quando iniziarono le valutazioni del sistema universitario, però, fui molto contento che la mia università fosse la prima per la mia disciplina: avevamo vinto il campionato! E fui anche fiero nel vedere che la mia squadra contribuì in modo determinante a decretare l’eccellenza del nostro dipartimento, unico in tutto l’ateneo. Non parliamo di quando risultai il primo italiano a coordinare un grosso progetto europeo in campo marino, con 22 stati di tre continenti. Da quando ci sono le valutazioni e si decreta l’eccellenza dei dipartimenti, i perdenti in queste competizioni criticano le valutazioni e cercano di sminuire chi emerge. Invocano le divisioni a pioggia, rinnegano il concetto di eccellenza e non accettano di essere “valutati”.
Questa avversione per le valutazioni ha basi profonde. Siamo il paese in cui i mediocri avanzano con metodi illeciti (raccomandazioni, appartenenze, vincoli familiari e molto altro) e si sottraggono a valutazioni che decreterebbero la loro inadeguatezza. I mediocri sono protetti dai confronti, e l’impegno viene visto come qualcosa di riprovevole, soprattutto se porta a buoni risultati. Chi vale non ci sta, e se ne va dove il valore delle competenze è riconosciuto. Il paese arretra: espelle i capaci e promuove gli incapaci.
Nota: figlio di portuale, non avevo “spinte”. All’università compresi che dovevo impegnarmi, potendo contare solo sui miei risultati per “andare avanti”: cominciai a pubblicare su riviste internazionali, come si chiamavano allora. I miei colleghi mi prendevano in giro, considerandomi un fanatico. Non hanno mai smesso.

[Il blog di Ferdinando Boero ne “Il Fatto Quotidiano” online del 12 aprile 2023]

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