Biagio Chirenti si afferma improvvisamente nella vita pubblica cittadina subito dopo la caduta del fascismo, come tribuno che difende la plebe secondo la tradizione e senza atteggiamenti demagogici. Viene allora alla luce l’insegnamento assimilato alla scuola dell’avv. Carlo Mauro in clandestini convegni ai Piani ed in lunghe conversazioni private. Dopo il ventennio Chirenti, tra gli uomini della sua classe a Galatina, è il primo a capire che il contadino per vivere deve rompere con la vecchia struttura feudale, e non può fare le cose a mezzo; di qui deriva che l’intransigenza, prima che un dovere morale, è una necessità di vita. Perciò Chirenti si dedica subito all’organizzazione proletaria la quale, a suo giudizio, non ha nulla da dividere con il potere locale. I suoi primi discorsi al popolo di Galatina vengono pronunziati in piazza Santo Stefano, il luogo tradizionale dei raduni popolari, subito dopo la caduta del fascismo, ed hanno come uditorio la plebe, il basso popolo ed il ceto povero ed inferiore per istruzione ed educazione, e come mezzo di comunicazione il dialetto. Chi a Galatina durante il ventennio, e poi nel corso degli anni Quaranta e Cinquanta ha patito la paura parlando di sbagliare, o la vergogna dell’emarginazione per aver subito la mortificazione delle capacità espressive generali, chi ha avvertito il non saper parlare italiano come un marchio di inferiorità sociale, e chi la dialettofobìa e l’aggressività antidialettale della scuola tradizionale galatinese, specialmente elementare e media inferiore, hanno escluso dall’accesso all’istruzione media e superiore od hanno alfabetizzato a livelli assai bassi, mandando avanti soltanto chi proveniva dai ceti medio-alto borghesi o chi a questi ceti ha accettato di assimilarsi spezzando ogni radice popolare, trova in Biagio Chirenti un esponente di popolo che gli ha dato la coscienza dei valori positivi delle parlate altre e diverse rispetto all’italiano e, per converso, è stato spinto, attraverso il relativo confronto, a valutare quanto sia importante la padronanza effettiva della lingua italiana medesima.
Tra le tante forme di oppressione esercitate dal fascismo durante il ventennio, quella etnico-linguistica non è la minore. Essa si è attuata mediante disposizioni impartite con fogli d’ordine a commissari, prefetti, federali, insegnanti, i quali vengono invitati ad ignorare ogni tradizione locale ed a sopprimere, là dove esiste, la lingua fondamentale materna, anche mediante la trasformazione dei nomi e delle iscrizioni toponomastiche.
A Galatina nella scuola elementare e nella scuola media inferiore è stata molto frequente un’esercitazione particolare: dare forma italiana al lessico concernente gli attrezzi agricoli, le operazioni di vinificazione, di produzione dell’olio e di giardinaggio. I docenti hanno creduto di valorizzare nella scuola e nella considerazione dei ragazzi la cultura contadina, assumendola nell’ambito della cultura nazionale che si caratterizza in senso urbano-industriale; ma in realtà con la loro prassi didattica hanno assimilato quella cultura nella categoria del diverso.
Che un giovinetto sappia che raffo in dialetto galatinese si dice sarchiu, bidente furcèddhra, piccone picu o zoccu, crivello farnàru e sciàtacu, scure mannàra, raschiatoio rasùla, erpice di legno traia e sarchiello sarchiuddhra, non significa far entrare nella scuola la cultura locale, ma dar corso all’operazione contraria. Difatti si introduce una componente intellettualistica che tende a sovrapporre, mediante l’elemento linguistico, un concetto astratto di nazionalità con un discorso che mira ad isolare la lingua dalla vita complessiva del popolo, cioè dalla cultura materiale e dalle basi produttive di esso.
Solo a partire da queste premesse, si comprende bene come il dialetto, che è la lingua di tutti, diventa in Chirenti un mezzo eversivo dell’ideale estetizzante di eleganze linguistiche; ogni uomo, per esso, può ben entrare in contatto diretto con la parola, senza intermediari, e può predicarla senza inutili formalismi e senza ipocrisie e menzogne, al fine di organizzare il mondo degli uomini.
I primi interventi pubblici del Chirenti si svolgono tutti in forma dialettale. Essi attestano l’esigenza di trovare nella lingua degli umili una genuinità espressiva che sia anche garanzia di recupero della serietà morale che la società è venuta perdendo, una presa di coscienza della propria individualità umana e di quella della propria classe, ed insieme un’esigenza di chiarificazione interiore.
Siamo negli anni 1945, 1946, 1947, 1948. Chirenti guida, prima insieme all’avv. Carlo Mauro e poi con l’on. Giuseppe Galasso, schiere di braccianti ad occupare le terre incolte dell’Arneo, o quelle mal coltivate dell’agro di Supersano, ed organizza anche le leghe contadine e delle tabacchine. Nel dialetto del tribuno rivivono la miseria spirituale e l’egoistica assenza di carità nonché la greve soma alimentata dall’ozio, di un certo ceto agrario salentino, ed in quei discorsi molti galatinesi, rimasti sempre senza volto ed ai margini della vita civile, hanno rinvenuto in quegli anni la testimonianza della loro identità, e finalmente hanno trovato in sé la forza di rompere una situazione di secolare soggezione.
A questa gente Chirenti ha parlato un linguaggio rude e senza infingimenti, ma vibrante della stessa verità di cui ha palpitato il loro animo generoso, ed il suo dialetto, e talora il suo gergo, si è illuminato di un’ansia sincera di elevazione spirituale.
2. Dal dialetto alla lingua
Dopo gli anni Cinquanta il parlare popolare di Chirenti, pur non perdendo mai la sua connotazione tribunizia, viene immesso con gradualità in un livello diverso. Esso non assume mai le forme dell’eloquio della borghesia, per esempio le caratteristiche espressioni del garbo e della cortesia, bensì soltanto quelle dell’arguzia sottile e talora pungente oppure dell’accorto consiglio morale e del buon senso comune. Si avvertono spesso straordinarie invenzioni espressive in cui si concreta il sentimento offeso di un ordine morale sovvertito. E’ il caso, per esempio, di una battuta durante una seduta del Consiglio comunale di Galatina. Parla il professor Donato Moro che articola il suo intervento con dotte citazioni latine e Chirenti, lungi dall’apparire quello che la controparte vuol rappresentare, cioè l’ammazzasignori: “Cquài, professore, ave puru li Renzini!”, esclama; e tu senti, nella battuta, definitivamente estinta la condizione dell’illetterato in vicinanza di un signore o di un dotto, ma avverti anche presente e vivo il pregiudizio popolare della cultura in genere come complice della iniquità, strumento di oppressione ed incoraggiamento al servilismo. Non v’è dubbio, infatti, che in quel “Renzini” c’è la persuasione dialettica del personaggio manzoniano di fronte all’erudizione (Renzo di fronte all’Azzeccagarbugli) che è sospettata come semplice menzogna o soltanto decoro autorevole, ma anche l’atteggiamento guardingo di fronte a chi è ritenuto incline a vender fumo al popolo credulo ed ignorante. Ed in un’altra occasione, in un comizio pubblico, Chirenti fa la mimèsi dell’on. De Maria che negli anni Cinquanta, per avallare la persuasione di un benessere economico raggiunto in Italia per merito esclusivo della Democrazia cristiana. è solito citare a profusione dati statistici sul consumo della carne, zucchero ed altre “munizioni da bocca”. Dopo avere rassegnato con modulazione vocale canzonatoria una noiosa filastrocca di generi alimentari, Chirenti, dopo una pausa durante la quale volgeva lo sguardo di qua e di là, domanda all’uditorio attento: “E la carne mia ci si l’ave mangiata?”. Nell’ironia mordente si cela l’ira continuamente repressa del popolo turlupinato. E proprio De Maria è il punto di riferimento e l’idolo polemico delle scoppiettanti inventive popolaresche del parlato di Chirenti che talora rinnova momenti dell’opera buffa. Gli argomenti di De Maria, ad ogni turno di elezioni amministrative o politiche, sono sempre gli stessi “comu la cozza moniceddhra ca sente l’cqua ed esse!”, una similitudine in cui il pensiero si viene formulando per immagini tratte dalla campagna vista con gli occhi e l’anima dell’uomo che è sempre vissuto intimamente con essa. Il riferimento ciclico è, inoltre, spia di chiarezza on quanto chiama in causa proprio la natura come unica realtà che detta le leggi vere ed immutabili della vita.
A metà degli anni Cinquanta nella verbalità di Chirenti incomincia a registrarsi assai di frequente l’uso del sintagma “nella misura in cui”, al fine di collegare due momenti dello stesso pensiero. Vi si avverte un’esigenza di esattezza comunicativa imposta dall’ormai dominante società tecnologica.
E siamo al 1959, quando l’amministrazione municipale è come paralizzata dalle fazioni cittadine che rendono ingovernabile la citta divisa tra il troncone valloniano alla cui rappresentanza si alternano in qualità di Sindaco l’avvocato Alberto Rizzelli, il signor Carlo Guido ed il signor Celestino Galluccio, e la D.C. rappresentata dal colonnello Pietro Gaballo. Chirenti, eletto consigliere provinciale per il P.C.I., è diventato sempre più popolare. La parola sviluppa in maniera sempre efficace i suoi pensieri, il popolo vi sente la verità perché vi percepisce se stesso e le cose che favoriscono la propria esistenza. Sul ritmo di Bandiera rossa si canta per le vie cittadine l’arietta
E ccu ttre Sindaci
e ddo’ deputati
a Galatina
sciamu scazzati! Avanti popolo
alla riscossa,
bandiera rossa
la trionferà!
creazione improvvisa di popolo che anticipa l’happening degli anni Sessanta e Settanta, e rinnova i rituali primitivi della comunicazione immediata, espressa per via orale ed anonima nei suoi canti dal popolo all’origine della sua storia.
La parola del tribuno viene a poco a poco avvicinandosi alla natura fonetica, lessicale e sintattica della lingua comune. E’ una nuova fase di sviluppo del processo espressivo e linguistico e della pratica militante di Chirenti che stiamo esaminando, cui contribuisce moltissimo la lettura quotidiana dell’Unità; la parola del tribuno diventa sempre più una via diretta di penetrazione nella cruda verità non soltanto della vita popolare della città, ma anche dei ceti sociali intermedi. Punto di sbocco di questo momento evolutivo è l’elezione di Chirenti a Sindaco di Galatina con l’appoggio del gruppo laico e borghese di Luigi Vallone. Siamo in presenza di un evento fondamentale della nostra città, ed esso si svolge tra l’ansia e talora lo sgomento di certi nuclei sociali del perbenismo e del benpensantismo galatinesi, sempre alla retroguardia. Per la prima volta la borghesia galatinese è messa in crisi e deve riconoscere la funzione di guida di una classe sociale che non è la propria, ma nello stesso tempo ha l’occasione di elaborare una visione critica complessiva della società.
Nelle elezioni amministrative del 1960 il P.C.I. a Galatina ottiene 2527 voti e 6 consiglieri, il tetto più alto per quegli anni. Contemporaneamente nel linguaggio di Chirenti si sviluppa un’inversione di tendenza. La lingua comune, cioè quella fissata dalla scrittura, diventa in lui uno strumento perfettamente parificato al dialetto, mezzo di adeguamento all’ambiente e al nuovo ruolo politico e gerarchico dell’uomo nella vita locale. Chirenti usa la lingua comune con appropriato distacco, talora lasciando il dialetto. Questo comportamento a nostro avviso non indica una volontà di cambiare status sociale, bensì testimonia il diritto dell’uomo di aspirare ad un mondo in cui la comunicazione risponde ad istanze intellettualmente più consapevoli, cioè ad un mondo di livello diverso da quello di provenienza. Chirenti offre allora un esempio del processo attraverso il quale il parlante si distacca dalla fase materna del linguaggio, legata all’ambiente, la famiglia, il quartiere, la città, la regione e si porta su un piano più vasto, cioè quello della nazione.
[Memorie di Galatina. Mezzosecolo di storia meridionalistica e d’Italia, Mario Congedo Editore, Galatina 1998, pp. 81-84]