di Raffaele Gemma
Continuità di cambiamento, conservazione del passato nel presente, durata vera sono dunque attributi che l’essere vivente sembra condividere con la coscienza.
Henri Bergson – “L’evoluzione creatrice”
Nella carriera di un artista esiste certamente un momento in cui sorge inevitabile da parte del critico, dello studioso, ma anche del gallerista, l’esigenza di dover suddividere in periodi, se non altro per motivi di vastità, la produzione artistica. Ed è ovvio che assieme alle opere finiranno per apparire frammentati e la vita stessa dell’artista e il contesto storico in cui egli ha operato.
Ciò rappresenta indubbiamente una “convenzione” perché è pur sempre individuabile un continuum tra le opere del periodo prescelto e la produzione immediatamente precedente o seguente.
Nel 1959 Marrocco ha solo vent’anni, ma è già da qualche anno che va compiendo ricerche e sperimentazioni con materiali molteplici. Dando sfogo a quella che avverte dentro di sé come una impellente necessità, egli sonda le varie possibilità di superamento della pittura e della scultura tradizionalmente intese. Pur possedendo indubbie capacità nel disegno figurativo e nella progettazione, che si riveleranno peraltro preziose negli anni a venire, il giovane si dimostra sensibile al “flusso artistico” delle nuove avanguardie, un vento che soffia impetuoso per tutti gli anni sessanta. Anche per questo motivo, per meglio avvertire sulla sua fronte la carezza di quel vento, sul finire del ’62 Marrocco non indugia, sotto la spinta del mitico Lucio Fontana, a spostare in quel di Milano la sede delle sue ricerche. Ivi trasferisce con sé anche alcune delle sue opere più interessanti, come le tele bianche che sanno ancora di “calce di Puglia” e quelle in anticorodal, una lega di alluminio assolutamente peculiare, dove egli incide le sue “porzioni di universo”.