Come il re medievale magistralmente delineato da Jacques Le Goff, il basileus ellenistico delle nuove dinastie e dei nuovi regni territoriali formati dai diadochi a partire dall’anno 306 a.C., l’anno dei nuovi re – diciassette anni dopo la morte di Alessandro – è un “personaggio nuovo e specifico della storia”. Le Goff individuava l’evoluzione del re medievale attraverso tre tipi successivi: 1) il re carolingio, “un re unto e un re ministeriale” (cioè, un re che svolge un ministero sacro o sacralizzato che lo obbliga soprattutto ad essere il difensore della fede e del suo popolo); 2) “un re amministrativo”, che si misura con tre elementi costitutivi e simbolici: “la corona, il territorio e la legge”; 3) infine, un re che cerca di assorbire nella sua sfera di potere “uno stato sacralizzato”.
Questo re medievale raccoglie e sviluppa nella propria struttura simbolica e nelle condizioni storiche specifiche l’eredità del re ellenistico, dell’imperatore romano e di altri modelli monarchici dell’antichità occidentale e orientale. Come il re medievale di Le Goff, anche il re ellenistico “appare come il prodotto di una rottura e di una innovazione”; è “un re unico”, “la sua regalità non è spartita con altri”; nel caso di una sua volontaria estensione del titolo reale a un figlio quando il re è ancora in vita, il re “conserva la superiorità e la realtà di un potere unico” che “talvolta produce gravi conflitti fra il re e i suoi figli o fra i fratelli reali”[1]. Il re medievale fonda la sua legittimità divina mediante una vittoria militare; la continuità del suo potere è garantita attraverso una linea dinastica legittima di successione che tuttavia non scongiura il rischio di usurpazioni del potere[2]. Il re medievale di Le Goff “si colloca in una catena storica … una catena dinastica, lungo la quale il re si richiama agli antecessores o praedecessores nostri istituendo un vero e proprio gioco politico fra lui stesso e i suoi predecessori”; è “un rex ambulans che si sposta per tradizione [il re è essenzialmente itinerante], per necessità [la guerra] e per politica [mostrarsi ai sudditi]”; il re è inoltre itinerante in quanto “re pellegrino, … re crociato”; il suo spostarsi è costellato dagli obblighi della ospitalità e dalle cerimonie dell’ingresso del re nelle città[3].
Tali generali connotazioni strutturali del re medievale di Le Goff si attagliano perfettamente al re (basileus) ellenistico. Anche il re ellenistico è prima di tutto un re guerriero che legittima il suo titolo attraverso una vittoria militare e garantisce la continuità del potere lungo la linea della successione dinastica fondata a partire dal capostipite. Le conquiste del basileus determinano il territorio e lo spazio del re (chora doriktetos), che il re organizza in una rete amministrativa.
Il richiamo del re agli antenati, i prógonoi, con la elaborazione di origini divine del capostipite e con la istituzione del culto dinastico, fissa la tradizione e la continuità del potere della dinastia e la colloca nella sfera del divino. “La corona, il territorio e la legge” del re medievale equivalgono nel re ellenistico al diádema, alla terra regia o terra conquistata con la lancia (chora basiliké, chora doríktetos) e al nomos con il quale il basileus tende ad identificarsi. Come il rex ambulans medievale, anche il re ellenistico è un re itinerante per le spedizioni militari e per l’esercizio di quelle attività diplomatiche tendenti alla affermazione di sé e del suo potere. Nei suoi spostamenti per la guerra, il re sottopone le città al devastante obbligo di dare alloggio (epistáthmeia) al suo esercito di passaggio; in occasione delle visite del re, le città, collettivamente coinvolte nella comunità dei cittadini, delle cariche istituzionali e sacerdotali, profondono tutto il loro impegno nella sfarzosa ritualità dell’incontro e della accoglienza pubblica del re (apántesis e apodoché). Come il “re amministrativo” di Le Goff, il re ellenistico è fondamentalmente un re amministratore dei suoi prágmata, termine con il quale sono indifferentemente identificati gli affari personali del re e lo stato, anticipando il noto aforisma che caratterizza l’assolutismo monarchico: «L’État c’est moi», attribuito a Luigi XIV[4].
Si potrebbe continuare nella elencazione delle analogie e dei tratti comuni, con la ovvia avvertenza che si tratta di analogie per così dire esteriori, per lo più legate alla intrinseca struttura dell’istituto monarchico. Il basileus ellenistico e il re medievale, ciascuno nel proprio àmbito e sia pure con fisionomie e simbologie comuni, esprimono proprî e diversi contenuti specifici originali, differenti per tempi, luoghi, culture[5].
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II. Il re ‘amministratore’. Udienze e corrispondenza: percezione storiografica e autorappresentazione del re
Nel suo ruolo di re ‘amministratore’, il re ellenistico appare oberato dalle pratiche quotidiane delle udienze[6] e della corrispondenza che alimentano una sorta di topos, quello delle compiaciute e pensose lagnanze del basileus per la gravosità dei suoi compiti; lagnanze che possono anche essere in qualche modo rivelatrici della insofferenza del re per le attività ‘burocratiche’ sedentarie rispetto all’azione militare che costituiva la vocazione primaria del re ellenistico. La tradizione letteraria offre limitati esempi sulla attitudine del basileus nei confronti delle udienze e della corrispondenza ufficiale. Osserviamo qualche caso.
Demetrio Poliorcete è rappresentato da Plutarco come l’antimodello del buon re: un re dissoluto e cinico, un re da teatro, animato da smisurata e rovinosa ambizione (pleonexía), vile nella sconfitta, paragonato «a quei re da nulla … che non solo perseguono il lusso e il piacere in luogo della virtù e dell’onore, ma non sanno neppure godere del vero lusso[7].» In questo contesto etico si inquadrano le critiche a Demetrio riguardo alle abitudini del re nei confronti delle udienze: non concedeva ai sudditi l’opportunità di un’udienza e trattava brutalmente i pochi che riceveva; aveva fatto aspettare per due anni una ambasceria degli Ateniesi; si era sentito offeso dall’invio di un solo ambasciatore degli Spartani; aveva platealmente gettato nel fiume Axios le petizioni scritte che alcuni, credendo di cogliere una apparente disponibilità del re, gli avevano consegnato per strada e lo seguivano nella speranza di una risposta.
Questo atto sprezzante di Demetrio induce al ricordo e al confronto con il buon re Filippo II, il quale, con il pretesto di non avere tempo, aveva dapprima respinto la richiesta di una anziana donna di essere ascoltata; ma il franco e risentito ribattere della donna: «Allora non fare il re!», avrebbe indotto Filippo a riflettere e a dedicare vari giorni alle udienze dei sudditi, a cominciare dalla donna, rinviando gli altri impegni reali[8]. L’aneddoto della anziana donna e di Filippo II che si legge in Plutarco, si trova in forma pressocché identica in Stobeo riferito ad Antipatro e in Cassio Dione riferito all’imperatore Adriano[9]. Era dunque un aneddoto diffuso, dalla attribuzione plurima. Se ne deve comunque dedurre che, in linea di principio, il re ellenistico, come l’imperatore romano delineato da Fergus Millar, era «personalmente accessibile»[10] ed era tenuto ad ascoltare i sudditi in udienza diretta.
È probabile che quando Antigono II Gonata, che aveva fama di essere «re alla mano e mite», ammoniva il figlio che maltrattava dei sottoposti: «non sai … che la nostra regalità è una onorevole servitù (éndoxos douleía)?[11]», intendesse offrire l’immagine e lo stile nuovi di una basileia al servizio dei sudditi e al tempo stesso manifestare implicitamente la volontà di differenziarsi dalla pessima fama di re sprezzante dei sudditi e del suo ruolo che si era guadagnata il padre Demetrio.
Demetrio Poliorcete non è il solo re al quale si rimprovera questo atteggiamento sprezzante nei confronti delle udienze. Polibio non risparmia a Tolemeo IV le sue severe critiche antimonarchiche. Fra le negligenze e le dissolutezze del re, Polibio notava la sua attitudine a rendersi inaccessibile ai membri della corte e ai funzionari che amministravano l’Egitto e i domini esterni, vale a dire che Tolemeo, secondo Polibio, era del tutto negligente nella pratica delle udienze perfino nei confronti dei suoi collaboratori più stretti[12].
Sul ruolo primario e sul peso che aveva il disbrigo della corrispondenza fra le attività quotidiane del basileus, è topico il ricorso al noto passo di Plutarco sulle faticose incombenze richieste dall’esercizio della regalità e sulle lamentele di Seleuco I, che Welles emblematicamente riporta all’inizio della sua introduzione alla Royal Correspondence[13]:
«Ebbene, la regalità, che è la più perfetta e la più alta delle forme di governo, comporta moltissime preoccupazioni, fatiche e impegni. Si dice pertanto che Seleuco ripetesse in ogni circostanza che se la gente sapesse quanto gravoso sia il solo scrivere ed esaminare tante lettere, non raccoglierebbe un diadema buttato via[14].»
Ciò non vuol dire che il re Seleuco trascurasse le sue responsabilità, ma che non tralasciava di esprimere le sue compiaciute lagnanze.
Il disbrigo della corrispondenza non era esclusivo dei re e delle cancellerie ellenistiche; presso altre cancellerie reali, questo compito poteva essere perfino più complesso e faticoso. Per esempio, un passo del libro biblico di Esther indica che la cancelleria dei re persiani Achemenidi, nella amministrazione dell’immemso impero che si estendeva dall’Etiopia all’Indo, indirizzava le lettere dei re, dall’una all’altra delle regioni e delle satrapie, redigendole secondo la scrittura e la lingua di ogni popolo.[15]. Lo ieratico faraone egiziano, risalente alla descrizione di Ecateo d’Abdera, sbrigava la corrispondenza all’alba, appena sveglio, secondo un rigido protocollo obbligatorio della giornata e non secondo scelte personali di comodo e incontrollate che sarebbero invece tipiche delle altre istituzioni monarchiche[16]: una critica, quest’ultima, che probabilmente Ecateo destinava generalmente ai re ellenistici. Ma la critica di Ecateo non toccava i Tolemei, non solo perché Ecateo aveva scritto i suoi Aigyptiaká sotto il patronato del primo Tolemeo (negli anni in cui Tolemeo era ancora satrapo: fra il 320 e il 315 a.C., o nei primi anni del suo regno: 305-300 a.C.[17]), ma anche perché nella Lettera di Aristea è attribuita a Tolemeo II Filadelfo una particolare attenzione nella elaborazione dei suoi editti epistolari (prostágmata) al punto che era lo stesso Filadelfo a correggere e integrare personalmente quelli di particolare importanza diplomatica preparati dalla cancelleria e sottoposti alla sua approvazione[18].
La tradizione letteraria attribuisce ad Antioco III un uso della corrispondenza come strumento sia nella pratica della guerrra sia nelle relazioni diplomatiche e politiche.
Catone il Vecchio, in una orazione tenuta ad Atene probabilmente nel 191 a.C., agli inizi della guerra contro Antioco III, avrebbe cercato di denigrare l’avversario esclamando che «Antioco conduce la guerra a forza di lettere, fa il soldato con la penna e con l’inchiostro[19].»
Allo stesso Antioco è attribuito da Plutarco un aneddoto di segno opposto, rivelatore di un tratto della autorappresentazione del re che si mostra tutto dedito alla incondizionata prassi diplomatica e politica tesa a salvaguardare l’autonomia delle città:
«Antioco III scrisse alle città che, qualora egli scrivesse ordinando che qualcosa fosse fatta in contrasto con le loro leggi, non gli obbedissero dal momento che lo aveva fatto inconsapevolmente[20].»
L’aspetto per così dire gnomico della testimonianza, o perfino incredibile per la rappresentazione che vi è data di un re che invita le città ad eludere i suoi ordini, induce a non sottilizzare troppo nel chiedersi se Antioco si rivolgesse a città libere o a città soggette. Il nobile invito attribuito ad Antioco, pur implicando che il re inviasse regolarmente alle città lettere con i suoi ordini[21], tende a rappresentare Antioco tutto attento ad accattivarsi le simpatie delle città, quasi a volere abbattere quella “naturale” incompatibilità e avversione fra istituto monarchico tendente all’altrui assoggettamento e istituzioni democratiche e cittadine su cui aveva insistito Polibio nelle Storie[22].
Comunque, l’invito di Antioco alle città deve in qualche modo essere accordato con il principio generale enunciato proprio in alcune epistole reali, secondo il quale le leggi delle città debbano corrispondere con gli interessi del re. Così è richiesto, per esempio, da Eumene II nella prima delle tre epistole inviate alla comunità di Toriaion in Frigia per la concessione dello statuto di polis (188 a.C.):
«Concedo a voi e alle popolazioni locali che abitano con voi, che siate ordinati in un unico corpo cittadino e che usiate leggi proprie; quelle di cui voi stessi siate soddisfatti, sottoponete(le) a noi affinché giudichiamo nel senso che non abbiano nulla contrario ai nostri interessi[23].»
Sia pure con intenti opposti, Catone e Plutarco tendono a presentare un Antioco specialmente incline alla attività epistolare. Questa rappresentazione storiografica e aneddotica del re seleucide è in qualche modo convalidata dalla epigrafia. Il dossier delle epistole reali ellenistiche da me riunito mi consente di dire che Antioco III è infatti il re ellenistico al quale, secondo un conteggio provvisorio, è attribuibile il più alto numero di lettere, sue proprie o che lo riguardano: circa 60 epistole di provenienza epigrafica (30 sono comprese in 8 dossier epistolari)[24], alle quali bisogna aggiungere alcune dubbie, alcune citazioni indirette di epistole (per lo più in decreti cittadini), alcune lettere di provenienza storiografica. Gli altri re titolari di un alto numero di epistole sono lontani dal numero delle lettere attribuibili ad Antioco: a Tolemeo II Filadelfo sono riferibili circa 40 epistole, una trentina delle quali sono di provenienza papiracea; a Filippo V sono riferibili più di 30 lettere di provenienza epigrafica; a Eumene II sono riferibili circa 22 lettere di provenienza epigrafica.
La corrispondenza reale (o riguardante i re) non era esente da falsificazioni o da un suo uso nella aneddotica sugli stratagemmi militari. Traggo dalla storiografia e dalla epigrafia qualche esempio (tenendo per ora da parte la ben nota questione delle epistole seleucidiche e tolemaiche riportate da Giuseppe Flavio e dai libri dei Maccabei, dove bisogna ormai distinguere quelle autentiche da quelle false o, meglio, quelle attendibili da quelle fabbricate per fini particolari).
Nel V libro delle Storie, Polibio dipinge a tinte fosche lo strapotere dei grandi cortigiani e gli intrighi da questi dispiegati nelle corti ellenistiche a danno dei loro rivali e di re giovani e inesperti. In ciò egli vede i segni del destino ineluttabile della sconfitta dei regni ellenistici di fronte al ben ordinato stato romano, ben bilanciato nelle sue istituzioni, come è descritto appunto in immediata successione nel VI libro, e quasi in contrapposizione diretta rispetto agli abusi e agli intrighi dispiegati nelle corti ellenistiche ed evidenziati da Plobio appunto nel V libro[25].
Le lettere false sono lo strumento sul quale si fondano gli intrighi. Alla corte di Antioco III, il primo ministro Ermia esibì al re due lettere false da lui stesso confezionate, una nel 223 a.C. per indurre Antioco a credere che in Asia Minore Acheo era sobillato da Tolemeo IV ad assumere i poteri reali, l’altra nel 222 a.C. per indurre Antioco a credere che il generale Epigene, tanto stimato dal re e da tutti, era colluso con Molone ribelle nelle satrapie orientali. Nello stesso tempo, e a sua volta, Molone mostrava ai suoi ufficiali false epistole minacciose di Antioco III per convincerli a persistere nella ribellione intrapresa. Alla corte di Tolemeo IV, il potente Sosibio fece confezionare nel 220 a.C. una lettera falsa per indurre il re a credere che Cleomene III complottasse contro di lui[26].
Non di lettera falsa, ma di lettera irridente e usata come stratagemma è alla base dell’episodio aneddotico dell’epistola inviata da Annibale ad Eumene II nel corso della guerra del re pergameno contro Prusia I di Bitinia (186-183 a.C.). Prima di una battaglia navale, Annibale inviò su una barca un messaggero con una lettera per il re. Aperta la lettera, Eumene non vi trovò le proposte di pace che si attendeva ma frasi irridenti nei suoi confronti: la consegna della lettera era in realtà servita perché fosse osservato il percorso fatto dal messaggero e fosse così segnalata alla flotta bitinica la nave sulla quale si trovava Eumene[27].
Nel dossier delle epistole dei re ellenistici sui ricorrenti conflitti di interesse fra la città di Mylasa e i sacerdoti del tempio di Zeus a Labraunda, entra in gioco una epistola reale falsa. In una lettera di Filippo V a Mylasa (220 circa a.C.), il re prende atto del decreto con il quale la città ha dimostrato falsa una lettera che Antigono III Dosone avrebbe scritto ai Chrysaoreis nominando Ecatomno sacerdote del tempio di Labraunda e concedendo privilegi al tempio; lettera tanto più sospetta in quanto Ecatomno non l’avrebbe esibita immediatamente ma dopo la morte del re. Ritenendo fondate le rimostranze dei Mylasei, Filippo V riconosce alla città la legittimità dei suoi diritti sul tempio di Labraunda[28]. Si può supporre che Filippo V si sia convinto della falsità della lettera attribuita al suo predecessore e tutore Antigono III non tanto sulla base del decreto di Mylasa quanto piuttosto a séguito di un controllo negli archivi della sua cancelleria.
Vent’anni prima, Mylasa aveva contestato davanti allo stratego seleucidico non la falsificazione sacerdotale di epistole reali ma le falsità contenute nella corrispondenza sacerdotale indirizzata al re. Nel 240 circa a.C. Seleuco II scrive allo stratego Olimpico informandolo di avere ricevuto da Korris, il sacerdote del tempio di Zeus Labraundos, una lettera nella quale lamentava che gli abitanti di Mylasa avevano usurpato parti di terra sacra ancestralmente amministrata dai sacerdoti, ne prelevavano i raccolti, ed erano i soli a non dare al sacerdote la parte spettante dei sacrifici. Perciò Seleuco ordina a Olimpico di far cessare una situazione ritenuta lesiva dei diritti del sacerdote e del tempio e stabilisce di confermare a Korris i privilegi ancestrali. A séguito del ricorso della città e di una indagine compiuta dallo stratego Olimpico, nel corso della quale le parti in lite sono state ricevute in udienza dallo stratego e messe a confronto, gli ambasciatori della città hanno dimostrato che Korris ha scritto il falso nell’epistola inviata a Seleuco. Pertanto lo stratego scrive un’epistola alla città rassicurandola sulla legittimità dei suoi diritti nei confronti del tempio e vi allega copia dell’epistola inviata a Seleuco per informarlo della malafede del sacerdote. Sembra dunque che lo stratego seleucidico avesse il potere di modificare radicalmente le disposizioni impartite dal re in caso di dimostrata infondatezza o falsità delle denunce e delle petizioni presentate al re[29].
Come il decreto cittadino è lo strumento principe della autorappresentazione collettiva e della comunicazione della città[30], così l’epistola del re ellenistico è lo strumento personale della autorappresentazione e della comunicazione del re. Le forme della autorappresentazione del basileus nelle epistole sono ben note: il re è benevolo (eunous); sollecito del benessere e degli interessi singoli e collettivi delle città, dei santuari, delle comunità; generoso nelle concessioni a philoi (“amici” del re), città, santuari, comunità. Apparentemente, almeno a giudicare dalle formule burocratiche usuali che si leggono nelle epistole ufficiali, affidarsi al re con devozione e fiducia (eunoia, pistis[31]: termini che, se non riferiti alla ‘devozione e fedeltà’ di singoli[32], spesso indicano eufemisticamente che le città si erano consegnate al potere del re) e il perseverare in tali atteggiamenti nei suoi confronti sono le condizioni richieste dal re per continuare ad elargire ed accrescere la sua grazia, i suoi benefici (charis, philánthropa).
Un quadro che appare nettamente in contrasto con i tratti dei re ellenistici delineati da Polibio, lo storico che, patriotticamente radicato nelle istituzioni democratiche della sua Lega Achea, manifesta nelle Storie una vera e propria avversione per i re della sua epoca, con la eccezione dei re Attalidi, e per l’istituzione monarchica che definisce un potere «in nessun modo soggetto a rendiconto» (anupeuthunos)[33]. Secondo Polibio, i re ellenistici non solo mostravano una comune tendenza al dispotismo e all’opportunismo malgrado gli immancabili proclami di libertà, amicizia e alleanza fatti all’inizio del regno, ma erano anche gretti. A paragone della straordinaria munificenza dispiegata dai re del passato e perfino dai dinasti locali in occasione del terremoto di Rodi (227 a.C.), Polibio mette in risalto la grettezza (mikrodosía) dei re contemporanei e la pochezza dei doni (mikrolepsía) da essi elargiti a favore di popoli e città: perciò egli esorta le città a non tributare ai re tanto grandi onori come in passato ma a concedere ai re quello che meritano a fronte dei modesti doni che esse ora ricevono[34].
La corrispondenza reale rappresenta dunque il basileus ellenistico come generoso dispensatore di concessioni e benefici, saggio ed equo regolatore di conflitti di interesse, sollecito nel reprimere i soprusi attribuiti a suoi funzionari, all’esercito, ecc. Raramente l’attività evergetica del re avviene motu proprio, poiché essa è piuttosto sollecitata dalle petizioni e dalle richieste che giungono al re da ogni parte del regno e dall’interno della corte. Ma ciò non significa che il potere del basileus ellenistico avesse quelle caratteristiche di «potere largamente statico e inerte, e la sua attività stimolata da pressioni e iniziative dal basso» che Fergus Millar ha invece attribuito al potere dell’imperatore romano[35]. Se l’attività evergetica del re ellenistico è esercitata su sollecitazione altrui, nella attività più generalmente amministrativa prevale l’iniziativa del re, mentre rimane prettamente esecutivo il ruolo delle sue più alte gerarchie amministrative (che invece, leggendo Polibio, mostravano tutta la loro capacità di iniziativa negli intrighi di corte oppure la loro negligenza nella esecuzione degli ordini del re[36]).
Altri termini del modello interpretativo proposto da Fergus Millar possono essere applicati al potere del basileus ellenistico. Per esempio, è ovvio che le asciutte epistole burocratiche dei re ellenistici, generalmente prive di ogni ricerca stilistica, non hanno nulla a che vedere con l’eleganza letteraria della corrispondenza, non solo amministrativa e politica ma anche personale, scambiata fra Plinio il Giovane governatore della Bitinia e l’imperatore Traiano; tuttavia anche al governo del re ellenistico si può applicare la definizione di «governo per corrispondenza» attribuita da Fergus Millar alle nuove modalità del governo di Traiano[37].
L’imponente flusso delle informazioni dal centro alla periferia e viceversa (intendendo come centro non solo le città capitali ma dovunque il re si trovasse nei suoi spostamenti) implica un sistema di comunicazioni che possiamo solo immaginare.
Tre copie dello stesso editto epistolare reale provenienti da una località di dubbia identificazione in Frigia (tradizionalmente detto editto di Eriza), da Nahavand/Laodicea di Media e da Kermanshah in Iran, permettono di valutare l’organizzazione e la velocità della comunicazione del re nel regno seleucidico. Si tratta dell’editto (próstagma) emanato da Antioco III, mentre era in Asia Minore, per la istituzione del culto dinastico della moglie, la regina Laodice, assimilandolo al culto esistente dei prógonoi (gli antenati) e di sé stesso. La combinazione delle date variamente superstiti sia nel próstagma reale sia nelle epistole dei funzionari che trasmettono le copie dell’editto, permette di stabilire che il próstagma è stato emanato da Antioco nel 119° anno dell’era seleucidica, il giorno 3 o 10 del mese di Xandikos = 21 o 28 febbraio 193 a.C. Delle copie dell’editto di Antioco prodotte dalla cancelleria reale, inviate ai governatori e da questi inviate ai funzionari locali (un numero di copie dell’editto e di epistole di trasmissione che si moltiplica ad ogni passaggio burocratico[38]), sono superstiti quelle inviate da Antioco ad Anassimbroto governatore della Frigia, da Antioco a Menedemo governatore della Media, e dai due governatori trasmesse a tre loro funzionari subalterni e a una città: 1) Anassimbroto a Dionytas in Frigia; 2) Menedemo a Thoas in Media; 3) Menedemo ad Apollodoto e alla città di Laodicea in Media. Le date poste in calce ai singoli documenti che formano i tre dossier epistolari permettono di verificare i passsaggi della diffusione dell’editto nel vasto impero seleucidico: l’editto del re è dunque datato il giorno 3 o 10 del mese di Xandikos (= 21 o 28 febbraio); in Frigia, il governatore Anassimbroto ha trasmesso a Dionytas copia dell’editto il 19 Artemisios (= 6 maggio); in Media, il governatore Menedemo ha trasmesso due copie dell’editto, una a Thoas il 3 Panemos (= 19 giugno), l’altra ad Apollodotos e alla città di Laodicea di Media il 10 Panemos (= 26 giugno). Si può disquisire a lungo se i tempi di trasmissione dell’editto reale dall’Asia Minore fino in Iran nel tempo dei quattro mesi compresi fra febbraio e giugno sia indizio (come a me sembra), da un lato, di una organizzazione burocratica efficiente nelle sue articolazioni dal centro (o, meglio, dal luogo in cui il re si trovava) alla periferia, dall’altro, della velocità della comunicazione ufficiale da un capo all’altro dell’immenso impero seleucidico[39].
Le epistole reali, nella loro quasi totalità, rappresentano il re nella piena consapevolezza dei suoi poteri di governante e di benefattore, anche in quei casi in cui il re si dispone alla conciliazione e alla benevolenza evergetica dopo avere represso e punito chi gli ha manifestato la propria ostilità. È quanto si verifica, per esempio, nel caso di una delle tre epistole di Eumene II e del fratello Attalo alla città di Amlada in Pisidia. Nella seconda epistola del dossier Attalo, su richiesta della città, avendo constatato il ravvedimento della città stessa dopo il sostegno da essa dato in precedenza alla “guerra galata” (la grande rivolta dei Galati contro Eumene II, 168-166 a.C.), e tenendo conto delle difficili condizioni economiche della città, dispone il rilascio degli ostaggi, la riduzione di tremila dracme dell’originario tributo annuale di due talenti, la cancellazione del pagamento di novemila dracme imposte come indennità per danni di guerra[40].
Al di là delle circostanze specifiche nelle quali si è verificato l’intervento evergetico degli Attalidi nei confronti di Amlada, e al di là del linguaggio benevolente del basileus, spesso le epistole rivelano che l’intervento del re è richiesto per arginare il grave stato di crisi socio-economica delle comunità e per alleviare il peso oppressivo della fiscalità regia.
Alcune epistole di re attalidi contengono delle espresioni di tipo personale, in qualche caso perfino confidenziale, nettamente in contrasto con lo stile burocratico e vigile della maggior parte delle epistole reali, e rivelano invece tratti e sentimenti inconsueti del re ellenistico.
Nella prima delle tre epistole alla comunità di Toriaion, concedendo lo statuto di polis (188 a.C.), Eumene avverte i Toriaiti:
«Io osservo che per me è cosa non di poco conto acconsentire alle (vostre) richieste, perché ciò interagisce con molti e più importanti affari. E infatti sarebbe stabile la grazia a voi ora concessa da me che sono in possesso della piena autorità per aver(la) ricevuta dai Romani che si sono imposti sia in guerra sia nelle trattative, ma non (sc. potrebbe essere stabile) la grazia pur scritta da chi non ha potere: infatti tale favore potrebbe essere giudicato da tutti veramente vacuo e ingannevole[41].»
Nelle parole di Eumene è evidente il riferimento alla recente vittoria romano-attalide su Antioco III a Magnesia al Sipilo e alla pace di Apamea, alla nuova autorità concessa dai Romani a Eumene sull’Asia Minore già seleucidica e al conseguente declino dell’autorità dei Seleucidi in Asia Minore. È anche evidente che la comunità dei Toriaitai cerca di trarre il miglior profitto nella fase delicata del suo passaggio dal dominio seleucidico al dominio attalide per ottenere dal nuovo sovrano le condizioni più favorevoli chiedendo e ottenendo il passaggio dalla sua condizione di colonia militare seleucidica (katoikia) al rango di città (polis) attalide. D’altra parte, il confronto fra la stabilità del beneficio concesso da Eumene fornito dei pieni poteri e la vacuità di un beneficio concesso da chi non ha più potere, evidentemente Antioco III, serve certamente ad affermare la nuova autorità di Eumene; ma, l’invito esplicito e insistente a non fidarsi di chi invece con troppa leggerezza potrebbe fare ancora concessioni pur non avendo più alcun potere, sembra avere il tono quasi di una minacia ma può anche essere segno della preoccupazione del re per eventuali resistenze al passaggio dal dominio seleucidico al nuovo dominio attalide, o per la persistenza di influenze dell’amministrazione dei Seleucidi nei territori anatolici perduti. È l’unico caso in cui un re ellenistico esprime implicitamente in una epistola ufficiale timori e incertezze circa la capacità di affermare il proprio potere. Eumene sembra quasi stupefatto di fronte alla enormità del nuovo potere ereditato dai Seleucidi e sembra forse ammettere egli stesso la debolezza intrinseca di un potere che altri, i Romani, gli hanno concesso.
Venti anni più tardi Eumene, malfermo in salute, reduce dalla umiliazione inflittagli dai Romani che gli avevano negato di sbarcare a Brindisi e proseguire per Roma (segno forte della distanza alla quale ormai Roma intendeva tenere Eunene dopo Pidna), con una sovversiva rivolta dei Galati in atto, risponde a un caloroso decreto del koinon degli Ioni con una lettera (inverno 167/6 a.C.) nella quale, fra l’altro, dichiara di non avere mai mancato occasione di rendere onore e gloria alle singole città e al koinon e si impegna a mantenere questa inclinazione. Queste dichiarazioni sono chiosate da un auspicio del re: «Possano anche i fatti corrispondere a questa mia volontà![42].» Maurice Holleaux, ipotizzando che Eumene stesso potrebbe avere dettato o scritto personalmente questa esclamazione, ha finemente osservato:
«Come non essere colpiti dall’accento modesto e malinconico di questa esclamazione, che si direbbe sfuggita al re? Certamente, questo non è affatto il tono di un re vincitore che ha appena fissato la fortuna[43].»
È il tono di un re che non rinuncia al suo ruolo nei confronti delle città greche, ma si sente un re lasciato solo con gli eventi dopo avere perduto i favori di Roma, un re in ansia per gli imprevedibili sviluppi della rivolta dei Galati e dunque, quasi confidenzialmente, esprime un auspicio che non nasconde, in una epistola ufficiale, i suoi timori per l’immediato futuro.
Un auspicio paragonabile a quello espresso da Eumene figura nella epistola con la quale Attalo II comunica ad Attis, sacerdote dinasta del tempio-stato di Pessinunte in Galazia (158-156 a.C.), l’annullamento delle decisioni prese in un loro precedente incontro ad Apamea e vanificate da una agitata riunione del consiglio reale protrattasi per più giorni. L’esclamazione «Possa ciò non accadere!» è intercalata, anch’essa in forma quasi confidenziale e colloquiale, nel mezzo dei ragionamenti che il re svolge e espone ad Attis paventando i rischi di un insuccesso pergameno in un’impresa non concordata preventivamente con Roma: «… Ordunque, quand’anche – possa ciò non accadere! – avessimo la peggio in tali circostanze …[44].» L’annullamento degli accordi presi è una decisione sofferta che è all’origine della nuova intesa fra Roma e la Pergamno del nuovo re Attalo II, dopo le distanze imposte da Roma dopo Pidna con la Pergamo di Eumene II; ma è anche una decisione che implica la rinuncia definitiva a ogni politica autonoma da Roma. Anche questa esclamazione riflette una personale preoccupazione del re e ha indotto Wilhelm Schubart, nel suo studio sullo stile delle epistole reali ellenistiche (1920), a parlare di uno stile epistolare privato e personale in questa lettera di Attalo[45], che rimane sempre una lettera ufficiale sia pure scambiata in forma riservata come tutte le sette lettere del dossier che hanno fatto la spola fra Pergamo e Pessinunte[46].
Questi aspetti personali e confidenziali che si possono riscontrare in alcune epistole attalidi inducono anche ad osservare che nella corrispondenza attalide non sono documentate epistole di funzionari, ma solo epistole regie. Fra le epistole attalidi, solo nell’epistola di Eumene II al suo funzionario Artemidoro sulle concessioni accordate alla comunità dei Cardaci nel 181 a.C., il re fa riferimento alle postille relative alle condizioni economiche dei Cardaci che lo stesso Artemidoro aveva apposto sulla petizione presentata dai Cardaci e trasmessa al re:
«Re Eumene ad Artemidoro. Mi è stato reso noto quello che tu hai annotato nella petizione che ha presentato la comunità dei Cardaci. Poiché, pertanto, indagando hai trovato che costoro sono caduti in ristrettezze nei loro beni per l’essere divenuto scarso il frutto degli alberi e sterile la terra, disponi …[47].»
Inoltre, le epistole attalidi molto raramente percorrono l’iter burocratico e gerarchico consueto che dal re discende lungo la linea gerarchica dei funzionari fino ai destinatari interessati, ma sono in genere indirizzate direttamente dal re agli interessati assumendo nella maggior parte dei casi la forma di una comunicazione epistolare delle disposizioni del re piuttosto che la forma del próstagma. Se queste caratteristiche non sono il frutto del casuale capriccio della documentazione epigrafica fin qui pervenuta, non sarà inopportuno chiedersi se le epistole attalidi riflettano una diversa ideologia reale e un diverso modo di essere re che comporterebbero una tendenza degli Attalidi a superare la intermediazione dei funzionari e a cercare un rapporto più diretto fra re e amministrati.
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III. Le cancellerie ellenistiche. Epistolagráphoi
Benché il numero delle epistole reali ellenistiche sia ormai considerevole, tuttavia le informazioni a nostra disposizione sulle cancellerie reali sono abbastanza limitate. Lo stile generalmente burocratico della maggior parte delle epistole reali, prive apparentemente di ogni ricerca stilistica, fa pensare a cancellerie inclini in genere a elaborazioni epistolari schematiche, con formulari apparentemente convenzionali e ricorrenti. È ormai molto datato lo studio di Wilhelm Schubart sullo stile delle epistole reali ellenistiche (1920), benché ad esso vada riconosciuto il merito di essere una sorta di archetipo nello studio stilistico della corrispondenza reale[48]. Fornisco qualche esempio delle sue argomentazioni.
Per esempio, nell’epistola papiracea di Tolemeo II Filadelfo a un Antioco sull’accantonamento di soldati (metà del III secolo a.C.)[49], Schubart riconosceva uno stile grammaticalmente disordinato e stilisticamente trasandato, proprio della lingua parlata, deducendone che quello era lo stile di una lettera rapidamente dettata dal re e dunque rifletteva lo stile stesso di Tolemeo Filadelfo[50]. Questo punto di vista di Schubart può essere stato ispirato da quel passo della Lettera di Aristea (che ho richiamato in precedenza) nel quale Tolemeo Filadelfo è presentato così attento nella elaborazione dei suoi editti epistolari (prostágmata) al punto che era lo stesso Filadelfo a correggere e integrare di suo pugno quelli di particolare importanza diplomatica preparati dalla cancelleria e sottoposti alla sua approvazione[51]. Diversamente era giudicato lo stile di un’altra lettera di provenienza epigrafica dello stesso Tolemeo Filadelfo a Mileto (262/1 a.C.)[52]: secondo Schubart, lo stile non poteva dirsi “severo”, ma non rifletteva minimamente quello stile di “dettato” della precedente lettera papiracea[53].
Credo tuttavia che le differenze di stile dipendano in particolare dai differenti supporti che contengono le due epistole – una scritta su papiro e l’altra incisa su stele – e dalle differenze di circolazione e destinazione: l’epistola papiracea accentua la circolazione e l’uso all’interno dell’àmbito burocratico-amministraivo; l’epistola epigrafica evidenzia la destinazione pubblica e per così dire monumentale mediante il passaggio dell’epistola dalla sua forma di documento di cancelleria alla forma di epistola incisa su stele ed esposta in pubblico.
Due esempi sono ancora emblematici delle idee di Schubart. Nell’ultima epistola di Attalo II al sacerdote Attis di Pessinunte (158-156 a.C.) Schubart riconosceva lo stile di una epistola privata; ma è bizzarro definire private le epistole dei re compilate dalle loro cancellerie e destinate ad altre autorità, siano esse politiche o religiose. Per finire su questo punto, ricordo che Schubart nell’epistola del re bitinico Ziaela a Cos (240 circa a.C.)[54] vedeva i tratti di una cancelleria reale solo superficialmente ellenizzata[55].
In definitiva, Schubart era portato a distinguere lo stile cancelleresco ufficiale della maggior parte delle epistole reali da uno stile più privato, più personale e immediato di altre epistole, ritenendolo per lo più dipendente da una dettatura diretta del re[56]. Ma, a partire già dagli anni trenta dell’altro secolo, gli studi di Bickerman e di Welles sulla struttura e sulle differenti tipologie delle epistole reali ellenistiche rappresentano il superamento definitivo della prospettiva di Schubart limitata a cercare la distinzione tra stile personale e stile burocratico delle epistole reali. In effetti ora l’attenzione è rivolta non più o non soltanto allo stile formale e linguistico ma in particolare alla struttura, la forma, le modalità, la gerarchia, l’ideologia e il circuito della comunicazione epistolare del re[57].
Welles osservava che le epistole reali erano caratterizzate dalla assenza di retorica, senza però escludere una formazione retorica dei segretari reali e pur osservando costruzioni retoriche in alcune epistole reali[58]. (La retorica ha sicuramente avuto un ruolo nella cancelleria greca dell’imperatore romano[59]. Ma non è questo il nostro tema.) Volendo adottare per un momento la prospettiva degli studi sulla retorica antica – nei quali in genere si sostiene che l’attenzione della retorica per il genere epistolare è piuttosto tardo –, una ragione della assenza delle forme e delle regole della retorica nelle epistole ufficiali sarebbe da ricercare nella natura originaria di questa forma di comunicazione: nel fatto, cioè, che le epistole non erano concepite come mezzi di conversazione e di persuasione ma piuttosto come strumenti che veicolavano ordini e decisioni dell’autorità, assumendo poi, a partire dall’età ellenistica, quegli aspetti di conversazione e di ridotta perentorietà proprî delle epistole private[60]. Ma trovo che questa sia una idea astratta che non tiene conto, o perfino non conosce, le specificità della documentazione epistolare ellenistica.
Ma le epistole reali non contengono solo trasmissione di ordini dell’autorità. Una nuova epistola di Eumene II indirizzata alla città di Tabai in Caria (poco dopo la grande rivolta dei Galati del 168-166 a.C. / ante 158 a.C., data della morte di Eumene II), contiene finalmente l’esempio più chiaro dell’uso di forme retoriche. La lettera è stata scritta dal re Eumene per comunicare in primo luogo le benemerenze di un certo Koteies, suo philos e cittadino di Tabai, in occasione della rivolta dei Galati, per comunicare anche gli onori elargiti dal re al philos benemerito e per sollecitare al tempo stesso la città a conferire a sua volta onori analoghi in favore del suo cittadino. La lettera è aperta da un periodo lungo e complesso, dominato dalla figura retorica della praeteritio:
«Re Eumene alla città e ai magistrati dei Tabeni, salute. Riguardo a Koteies, uno dei philoi e vostro concittadino, non reputo necessario scrivere quale lealtà e ardore ha dimostrato in ogni frangente mettendosi a disposizione risoluto e sollecito, e neanche come ha sempre pronunciato accuratamente i discorsi appropriati nell’interesse della patria – e infatti simili (sono) le azioni compiute da altri di altre città, da alcuni più da altri meno – per il fatto che (in ciò egli) è pari a molti e ottiene l’usuale elogio, ma ritengo giusto ricordare di lui ciò che ha fatto di diverso dagli altri per dimostrarne il grado di lealtà e di buona sorte[61].»
Non sono queste le parole di pietra di un’iscrizione, ma noi leggiamo, o meglio ascoltiamo perfino, le costruzioni e le sfumature ricercate ed eleganti dell’oratoria civile ellenistica regolata dalla retorica.
È lecito comunque chiedersi se, come il re ellenistico cercava negli scritti Sulla regalità ammaestramenti etici e pratici per il buon governo[62], il re e le cancellerie ellenistiche possano avere avuto qualche sentore delle regole retoriche esposte nei trattati sul genere epistolare, almeno nella redazione di quelle epistole che non fossero secche comunicazioni burocratiche. Ma, da un lato, non è mai stata risolta l’antica questione se scritti come Tipi di lettere o Sulla elocuzione attribuiti a Demetrio Falereo fossero di uso scolastico, di autore ignoto e di età più tarda, oppure se fossero effettivamente destinati a chi ricopriva cariche auliche e/o pubbliche per il loro ammaestramento nella redazione delle epistole già in età tolemaica; dall’altro, i pochi epistolagráphoi / epistolográphoi regi di cui abbiamo notizia provengono dall’entourage del re, dall’ambiente dei potenti e ricchi dignitari e funzionari di corte piuttosto che da quello della cultura.
Una eccezione potrebbe essere costituita da Callistene di Olinto, che figura con la qualifica di epistolagráphos di Alessandro nella iscrizione ellenistica dipinta sull’intonaco della biblioteca del ginnasio di Taormina/Tauromenion[63]. Benché il titolo di epistolagráphos sia documentato a partire dai regni ellenistici successivi, e sia carico anch’esso di quella ambiguità che non sempre permette di distinguere fra dignità aulica ed effettiva carica burocratica[64], e benché l’iscrizione dipinta di Tauromenion non sia propriamente un documento ufficiale di per sé fededegno sull’uso ‘tecnico’ dei titoli aulici, non si può escludere che il ruolo di Callistene come storico di Alessandro potesse avere comportato quello di una direzione nella redazione delle epistole del re (di quelle di più rilevante importanza politico-diplomatica e non certo di quelle contenenti ordinarie comunicazioni burocratiche). Si è ipotizzato che il titolo di epistolagráphos attribuito a Callistene potrebbe indicare una funzione generica o onorifica[65]; ma questo titolo può indicare una funzione effettivamente svolta da Callistene non come attività quotidiana di routine ma come funzione svolta al più alto livello e in quelle circostanze particolari nelle quali fosse ritenuto necessario il ricorso al suo prestigio culturale. In tale ruolo Callistene potrebbe essere stato in qualche modo in contatto con la segreteria generale della quale era responsabile Eumene di Cardia, che aveva appunto iniziato la sua carriera alla corte macedone come grammateus / archigrammateus di Filippo II e di Alessandro (durante la spedizione di Alessandro in Asia, Eumene custodiva gli archivi nella sua tenda)[66]. All’ufficio dell’archigrammateus spettava infatti la supervisione sulla corrispondenza reale e sulla redazione del giornale ufficale. È anche probabile che il titolo di epistolagráphos attribuito a Callistene, un titolo non altrimenti documentato per la cancelleria di Alessandro, possa essere l’adattamento terminologico di un titolo delle cancellerie ellenistiche così come era noto all’epoca dell’iscrizione nella biblioteca del ginnasio di Tauromenion (l’attività del ginnasio è documentata fra il 198 e il 120 circa a.C.[67]). Quand’anche si voglia ritenere anacronistico il titolo attribuito a Callistene, ciò non implica necessariamente che Callistene non abbia svolto alla corte di Alessandro, all’occorrenza e in casi particolari, la funzione che quel titolo indica.
Pierre Briant ha scritto una Lettre ouverte à Alexandre le Grand, tanto raffinata e avvincente quanto sostenuta da una erudizione implicita e imponente. L’autore ha il pieno diritto ad essere titolare di una corrispondenza reale, benché fittizia, data la sua frequentazione quotidiana con Alessandro da molto tempo. Perciò, registro qui accuratamente i suoi autorevoli dubbi circa il titolo di epistolagráphos di Alessandro attribuito a Callistene dalla iscrizione di Tauromenion[68].
Nelle cancellerie ellenistiche è poco nota la figura dell’epistolagráphos, una sorta di dirigente della cancelleria reale. Bisogna constatare che il titolo non è documentato prima di Antioco IV (175-164 a.C.) fra i Seleucidi e prima di Tolemeo VIII Evergete II (145-116 a.C.) fra i Tolemei. Ciò non vuol dire che prima non vi fossero epistolagráphoi nelle corti dei re ellenistici (si vedrà più avanti che nella cancelleria del dinasta Olympichos ad Alinda vi erano due funzionari di questo tipo verso la fine del III secolo a.C.); ma, probabilmente, che prima la funzione dell’ epistolagráphos non era necessariamente legata a una carica formalmente istituzionalizzata a corte (come Callistene?). Mentre per la cancelleria dei Seleucidi è documentata la figura dell’epistolagráphos[69], l’articolazione della cancelleria dei Tolemei comprende, oltre all’epistolográphos / epistolagráphos, anche il redattore di pro-memoria (hypomnematográphos) e il redattore di ordinanze[70].
Non solo le grandi corti ellenistiche, ma anche i piccoli dinasti locali disponevano di una cancelleria. È recente la scoperta della prima epistola ufficiale di Filetero a Cuma Eolica (280-270 circa a.C.). Con questa lettera Filetero comunica alla città che egli, invece di venderli come era stato richiesto, dona alla città un cospicuo lotto di armamenti per la difesa. Il modesto dinasta pergameno, di stretta osservanza seleucidica dopo la morte di Lisimaco del quale aveva custodito il tesoro a Pergamo, impegnato in una intensa politica evergetica in Grecia e in Asia Minore finalizzata alla promozione di una propria figura dinastica, usa nell’epistola lo stile cancelleresco di un basileus: usa il plurale maiestatis secondo lo stile prevalente fra i Seleucidi; definisce il suo atto una “donazione” (doreá) concessa “per il nostro desiderio di ingraziarci il popolo”[71]. Anche il successore dinasta Eumene I usa il plurale nelle sue due sole epistole superstiti[72].
Ma se per Filetero e per Eumene I si può ipotizzare la presenza di una cancelleria a Pergamo nell’epoca pre-regia dei due primi dinasti attalidi, per il dinasta Olimpico essa è esplicitamente documentata. Un decreto di Alinda in Caria premia con la cittadinanza Dionytas e Apollas, funzionari della cancelleria (epistolagraphîon) dello stratego Olimpico che si sono sempre prodigati nell’interesse dei cittadini. Il decreto può essere datato al 202 circa a.C., quando Olimpico, con il titolo di stratego ma con l’atteggiamento del dinasta residente ad Alinda, governava la Caria controllata da Filippo V. I due personaggi onorati sono qualificati con una espressione più pertinente ad una corte ellenistica che non all’ufficio di uno stratego, a meno che questi non fosse appunto un vero dinasta con una sua cancelleria: «… Dionytas e Apollas, che hanno trascorso il loro tempo (diatríbontes) presso lo stratego Olimpico nell’epistolagraphîon»[73].
L’organizzazione e lo stile delle piccole corti dei dinasti locali imitavano l’organizzazione e lo stile delle grandi corti reali.
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IV. A novant’anni dalla Royal Correspondence di C. B. Welles
Benché ormai desueto, lo studio di Schubart sullo stile della corrispondenza reale (1920) ha certamente fra i suoi meriti quello di avere fornito la lista – la prima, a mia conoscenza – delle 71 epistole reali che gli erano allora note, papiracee ed epigrafiche, ordinate secondo la cronologia dei re ellenistici[74].
Lo studio di Schubart ha ispirato la dissertazione di Frederick Schröter, discussa a Leipzig il 21 luglio 1931 sotto il patronato di Alfred Koerte e pubblicata nel 1932. Schröter si proponeva di proseguire lo studio stilistico delle epistole e di raccogliere tutte le epistole reali conservate su pietra «non ut historicus, sed ut philologus[75].» La distinzione historicus – philologus risente probabilmente degli schematismi classificatori e settoriali della Altertumswissenschaft tedesca ottocentesca e intende giustificare l’esclusione dello studio storico rispetto allo studio stilistico prevalente portato sui documenti, ma è una distinzione che nel campo della epigrafia greca, a partire da Jean-Antoine Letronne (1787-1848), e tanto più nell’epoca di Maurice Holleaux(1861-1932), di Adolf Wilhelm (1864-1950) e del giovane Louis Robert (1904-1985), non aveva alcun senso.
Nella prima parte della dissertazione, Schröter proponeva una artificiosa classificazione delle epistole reali in sei gruppi; analizzava lo stile delle epistole reali riconoscendo uno stile comune a tutte le cancellerie ellenistiche e cercando di individuare, nella linea di Schubart, quelle poche epistole non attribuibili alla redazione delle cancellerie ma a una redazione o dettatura fatta dal re stesso. Nella seconda parte Schröter presentava, in ordine cronologico, il testo di 87 epistole: 65 integre e 22 frammentarie. Si tratta per lo più di riproduzioni di edizioni altrui; solo in quattro casi Schröter segnalava un suo controllo autoptico nei Musei di Berlino[76].
In due recensioni indipendenti, G. De Sanctis e W. W. Tarn giudicarono «utile» il libro di Schröter[77] che tuttavia ebbe vita breve: pubblicato nel 1932, fu ben presto surclassato e obliterato dalla Royal Correspondence (1934) di Charles Bradford Welles[78]. La solidità dell’impianto, l’affidabilità delle edizioni epigrafiche, il rigore delle analisi storiche, stilistiche e del vocabolario, hanno fatto di questo libro, in questi 90 anni, un companion naturale e irrinunciabile nel campo degli studi ellenistici.
Welles riuniva in ordine cronologico 75 epistole dei re successivi ad Alessandro, scomponendole e numerandole singolarmente nei casi di dossier epigrafici che ne contenessero più di una. Le epistole erano selezionate sulla base di criteri materiali e geografici: erano cioè prese in considerazione «solo quelle iscritte su pietra in Asia o nelle isole in acque asiatiche.» Ciò portava a una presenza prevalente di epistole seleucidiche (28) e attalidi (28), alla limitata presenza di epistole tolemaiche (5) e antigonidi (4) (le restanti epistole erano rappresentate da 2 epistole di Lisimaco, 1 dei re di Athamania, 1 di Ziaela di Bitinia, 2 di Mitridate VI del Ponto, 1 di Oroferne di Cappadocia, 1 di Artabano III di Partia, 2 di re o funzionari reali non identificati). Una scelta, spiegava Welles, basata in parte su questioni di principio, in parte su questioni di opportunità: «il corpo delle lettere Asiatiche» era costituito prevalentemente da «testi amministrativi», mentre la corrispondenza reale proveniente dalle altre parti del mondo ellenistico (Egitto, Macedonia, Grecia), atteneva più «al campo degli affari che non a quella della diplomazia.» Inoltre, i testi così selezionati occupavano già un grosso volume. Perciò Welles rinviava «ad una futura occasione» il proposito di trattare le altre lettere reali, comprese quelle di trasmissione letteraria e papiracea[79].
Se Welles avesse potuto disporre del Corpus des Ordonnances des Ptolémées (1964, 19802) di M.-Th. Lenger e, per esempio, delle epistole di Filippo V e di altri re macedoni scoperte in séguito, avrebbe potuto agevolmente constatare che non di epistole ‘d’affari’ si tratta ma di epistole ‘amministrative’ e diplomatiche. La raccolta di Welles ha stimolato gli interventi critici di Adolf Wilhelm che ha migliorato in più punti l’edizione e l’interpretazione di numerose epistole[80]. Così pure sono state superate alcune cronologie, attribuzioni, interpretazioni storiche di Welles. Insomma, la bella e meritoria opera di Welles mostra i segni del tempo. In effetti, da tempo rifletto sulla necessità di un aggiornamento della Royal Correspondence di Welles, dato che la corrispondenza reale ellenistica è stato uno dei temi dominanti delle mie ricerche da più di trent’anni, e continua ad esserlo.
Ho già avuto occasione di rendere noto il progetto già avviato di una nuova raccolta della corrispondenza reale ellenistica[81]. Da lungo tempo ormai ho riunito e annotato il corposo dossier delle epistole a me note: circa 440, secondo un conteggio complessivo ancora provvisorio, comprendente anche le testimonianze indirette di epistole, soprattutto nei decreti cittadini. Per quanto riguarda la documentazione epigrafica, ritengo di poter contare sulla completezza dei dati, mentre la documentazione papiracea e storiografica va ulteriormente accertata. Sui criteri di distribuzione della documentazione ho finalmente fatto la mia scelta. Credo che sia utopico, in questa stagione della mia esistenza, prevedere un corpus completo della corrispondenza reale ellenistica che, per ovvii motivi di competenza, dovrebbe in ogni caso avvalersi della collaborazione internazionale per l’Egitto e la Macedonia. Più fattibile è invece una raccolta della corrispondenza reale ellenistica documentata in Asia, selezionata secondo criteri storici e geografici che in pratica corrispondono ai criteri adottati da Welles e a quelli suggeriti da Gauthier. Abbandonando l’ordine cronologico assoluto delle epistole seguito da Welles, la documentazione dovrebbe essere ripartita per regni ellenistici (ovviamente ordinata al suo interno in ordine cronologico) suddivisi in undici sezioni: 1) Alessandro, Filippo Arrideo; 2) i primi Antigonidi: Antigono I Monophthalmos e Demetrio I Poliorcete; 3) Lisimaco; 4) Seleucidi; 5) Tolemei; 6) Antigonidi, da Antigono II Gonatas alla fine della dinastia, nel 168; 7) Attalidi; 8) Bitinia, Ponto, Cappadocia; 9) Athamania, Illiria, Bosforo, ecc.; 10) Partia, Armenia; 11) lettere di incerta attribuzione.
Il dossier della corrispondenza reale ellenistica che ho riunito mi ha consentito di raggiungere intanto dei risultati che modificano alcune convinzioni radicate [82].
La Royal Correspondence di Welles è percorsa e dominata dalla certezza che l’epistola di Seleuco I a Mileto sulle offerte al tempio di Didyma (288/7 a.C.) sia l’unica epistola seleucidica nella quale si riscontri l’uso misto del singolare e del plurale e che la restante corrispondenza seleucidica presenti il costante uso del plurale maiestatis[83]. Il singolare usato da un tardo Antioco nell’epistola riprodotta nel dossier sui privilegi del tempio di Zeus a Baitokaike sarebbe da attribuire ad influenza tolemaica[84]. Sulla base di questa convinzione, l’uso del singolare induce Welles ad attribuire alcune epistole agli Attalidi[85]; così pure l’uso del singolare nell’epistola di Soli in Cilicia è uno dei motivi addotti da Welles per escludere una matrice Seleucidica originariamente proposta dallo scopritore e primo editore Adolf Wilhelm[86] e per riconoscervi (con altre ragioni rivelatesi anch’esse infondate) una matrice tolemaica[87]. Questa certezza di Welles deriva da uno studio di Richard Laqueur (1904) sull’uso del singolare e del plurale nelle epistole dei re Seleucidi, la cui conclusione era stata perentoria, e cioè che i re di Siria, riferendosi a sé stessi, usano sempre il plurale («Reges Syriae, ipsi de se commemorantes, semper numero plurali utuntur[88]»). Questa affermazione è tale da apparire simmetricamente opposta alla convinzione espressa dallo stesso Laqueur circa l’uso prevalente del singolare da parte degli Attalidi[89]. La “regola” del plurale seleucidico introdotta da Laqueur e adottata da Welles è stata quasi universalmente seguita (con l’eccezione di Louis Robert).
Fermo restando che l’uso del plurale maiestatis è prevalente nella cancelleria seleucidica, la documentazione epistolare venuta dopo la Royal Correspondence di Welles presenta indiscutibilmente casi di uso del singolare o di uso combinato del singolare e del plurale. Fornisco qualche esempio.
Nel grande dossier di Teos (203-190 a.C.)[90], Antioco III usa indifferentemente il singolare e il plurale[91]. Lo stesso uso misto del plurale e del singolare si riscontra in alcune epistole di Antioco III di tradizione letteraria, riportate da Giuseppe Flavio, che bisogna ormai considerare autentiche: nell’epistola di Antioco III a Zeuxis sull’insediamento di 2.000 famiglie di coloni militari ebrei in Frigia e in Lidia (212-204 a.C.) il re usa prevalentemente il singolare[92]; nell’epistola di Antioco III allo stratego Tolemeo (200 a.C.), la ‘carta seleucidica di Gerusalemme’, il re usa il plurale e il singolare[93].
La regina Laodice, moglie di Antioco III, usa indifferentemente il singolare e il plurale. In una epistola a Sardi (giugno 213 a.C.) la regina usa il plurale[94]; in una epistola a Iasos (196 circa a.C.) contenente provvedimenti a favore dei cittadini bisognosi e della città colpita da recenti calamità naturali Laodice usa il singolare[95].
I grandi dignitari e i funzionari seleucidici usano anch’essi di norma il plurale, con le eccezioni degli strateghi Olimpico in Caria, Philomelos in Frigia, Tolemeo figlio di Thraseas in Siria-Fenicia.
Olimpico, nelle epistole alla città di Mylasa (240 a.C.) scritte nelle sue funzioni di stratego di Seleuco II in Caria, pur usando prevalentemente il plurale, introduce l’uso del singolare[96] (il singolare sarà poi la norma nelle epistole scritte da Olimpico come dinasta nel 220 circa a.C., nel periodo del controllo macedone sulla Caria[97]). Nella nuova copia proveniente da Akşehir/Philomelion in Frigia Paroreios del dossier epistolare relativo alla nomina di Nicanore da parte di Antioco III come archiereus e curatore di tutti i templi a occidente del Tauro (209 a.C.), Philomelos (il primo funzionario a ricevere e a trasmettere i documenti reali, pertanto il più elevato in grado nella gerarchia locale e dunque stratego della Frigia), trasmettendo al subalterno Aineas l’epistola inviatagli da Zeuxi insieme con il próstagma del re, usa il singolare, laddove Filota, il suo omologo di Misia (nella copia di Pamukçu) e Zeuxi (nei due esemplari di Pamukçu e di Akşehir) usano il plurale[98]. Nel dossier di Hefzibah, contenente sei epistole di Antioco III e due memoranda di Tolemeo (stratego e archiereus della Siria e Fenicia) sugli interventi a tutela dei possedimenti dello stesso Tolemeo (199-195 a.C.), lo stratego usa costantemente il singolare[99]. In questo caso l’uso del singolare potrebbe dipendere dal fatto che lo stratego rivolge al re delle richieste di interesse personale; ma tale uso si potrebbe anche spiegare come persistenza di una consuetudine cancelleresca acquisita dallo stratego seleucidico nel suo precedente servizio come stratego tolemaico.
I dati esposti sommariamente dimostrano che la “regola” di Laqueur e di Welles circa il rigido e irrinunciabile uso del plurale da parte della cancelleria seleucidica, rispetto al quale l’uso del singolare sarebbe una isolata eccezione, è da ritenersi superata. L’uso del singolare, benché minoritario, è altrettanto libero quanto l’uso del plurale; l’uso dell’uno o dell’altro, o di entrambi contemporaneamente, può rispondere a ragioni di opportunità diplomatica e politica piuttosto che a formali regole cancelleresche. Si può dire che l’uso del plurale assuma generalmente una valenza istituzionale e rappresentativa in quanto il basileus parla a nome di tutto ciò che rappresenta: la dinastia, sé stesso e la famiglia, il regno e lo stato, la corte, l’esercito e i philoi, ecc. L’uso del singolare può essere l’espressione di familiarità e vicinanza, di un approccio più diretto; in particolare, il singolare sembra avere la funzione di mettere in evidenza l’elaborazione personale di una propria opinione sulla questione a lui sottoposta, di accentuare l’espressione e l’atto della volontà personale e diretta del re.
[1] J. Le Goff, Roi, in J. Le Goff, J.-Cl. Schmitt (edd.), Dictionnaire raisonné de l’Occident médiéval, Paris 1999, pp. 985-1004: 985-986 (= Re, in Dizionario dell’Occidente medievale, Torino 2004, II, pp. 944-963: 944-945).
[2] J. Le Goff, Roi, cit., pp. 988-990 (= pp. 947-948).
[3] J. Le Goff, Roi, cit., pp. 993-997 (= pp. 952-956).
[4] B. Virgilio, Lancia, diadema e porpora. Il re e la regalità ellenistica2, Pisa 2003.
[5] J. Le Goff, Roi, cit., p. 1002 (= p. 961).
[6] I. Savalli-Lestrade, L’art de recevoir à la cour des Lagides, in J.-P. Caillet, M. Sot (edd.), L’audience. Rituels et cadres spatiaux dans l’Antiquité et le haut Moyen-Age, Paris 2007, pp. 93-111.
[7] Plutarco, Vita di Demetrio, 9.5-7; 19.5-10; 23-24; 40.3-4; 41.6-8; 44.9; 52.4.
[8] Plutarco, Vita di Demetrio, 42. I. Savalli-Lestrade, L’art de recevoir à la cour des Lagides, cit., p. 93.
[9] Stobeo, III, 13.48; Cassio Dione LXIX, 6.3. F. Millar, The Emperor in the Roman World: 31 BC-AD 3372, London 1992, pp. 3-4.
[10] F. Millar, Emperors at Work, «JRS» 52 (1967), pp. 9-19: 9 = Id., Rome, the Greek World and the East. II: Government, Society and Culture in the Roman Empire, Chapel Hill-London 2004, pp. 3-22: 3.
[11] Eliano, Varia Historia, II, 20. La concezione della regalità come douleía ha significative analogie ‘stoiche’ e filantropiche con la concezione dell’imperare come officium e non come regnum che Seneca, Epistole a Lucilio, 90.5 ricava dalle riflessioni di Posidonio (F 284 Edelstein-Kidd2) sulla mitica età dell’oro. B. Virgilio, Lancia, diadema e porpora2, cit., pp. 67-68.
[12] Polibio V, 34.3-4. B. Virgilio, Polibio, il mondo ellenistico e Roma, «Athenaeum»95 (2007), pp. 49-73: 65-66 = «Studi Ellenistici» XX, Pisa 2008, pp. 315-345: 335-336.
[13] C. B. Welles, RC, p. xxxvii.
[14] Plutarco, Se un vecchio debba occuparsi di politica, 11 (790.a-b). E. Bikerman, Institutions des Séleucides, Paris 1938, p. 34. F. Millar, The Emperor in the Roman World2, cit., p. 213, ritiene che il detto di Seleuco sia ugualmente applicabile agli imperatori romani.
[15] Esther 8.9.
[16] Diodoro I, 70.1-4 = Ecateo d’Abdera, FGrHist 264 F 25.
[17] B. Virgilio, Lancia, diadema e porpora2, cit., pp. 49-50.
[18] Lettera di Aristea, 26. I. Savalli-Lestrade, L’élaboration de la décision royale dans l’Orient hellénistique, in Prost F. (ed.), L’Orient méditerranéen de la mort d’Alexandre aux campagnes de Pompée. Cités et royaumes à l’époque hellénistique, Rennes 2003, pp. 17-39: 19.
[19] Catone, F 20 Malcovati, ORF (19663), p. 19: Antiochus epistulis bellum gerit, calamo et atramento militat. E. Bikerman, Institutions des Séleucides, cit., p. 196; J. Ma, Antiochos III and the Cities of Western Asia Minor, Oxford 1999, p. 218 = Antiochos III et les cités de l’Asie Mineure occidentale, Paris 2004, pp. 165-166.
[20] Plutarco, Apophthegmata di re e strateghi,183.f.
[21] J. Ma, Antiochos III (1999), cit., p. 93 = Antiochos III (2004), cit., p. 70.
[22] Polibio XXI, 22.8; XXII, 8.6. Si veda B. Virgilio, Polibio, il mondo ellenistico e Roma, cit., p. 60 = «Studi Ellenistici» XX, cit., pp. 328-329.
[23] L. Jonnes, M. Ricl, A new Royal Inscription from Phrygia Paroreios: Eumenes II grants Tyriaion the Status of a Polis, «EA» 29 (1997), pp. 1-30 (Ph. Gauthier, Bull. Épigr. 1999, 509 p. 681); I. Sultan Dağı 393; B. Virgilio, Lancia, diadema e porpora2, cit., pp. 295-298 n° 30 ll. 26-30.
[24] Nel dossier epigrafico riunito attorno ad Antioco III da J. Ma, Antiochos III (1999), cit., pp. 284-372 = Antiochos III (2004), cit., pp. 315-427, le epistole sono numerose. Fra le epistole di Antioco III, l’acquisizione più recente è costituita da una seconda copia, scoperta nel 2001 ad Akşehir/Philomelion nella Frigia Paroreios, della epistola di Antioco a Zeuxi sulla nomina di Nicanore come sommo sacerdote e curatore di tutti i templi oltre il Tauro (209 a.C.): H. Malay, A Copy of the Letter of Antiochos III to Zeuxis (209 B.C.), in H. Heftner, K. Tomaschitz K. (edd.), Ad fontes! Festschrift für G. Dobesch zum 65. Geburtstag, Wien 2004, pp. 407-413. La nuova copia si aggiunge a quella proveniente da Pamukçu in Misia e pubblicata nel 1987: H. Malay, Letter of Antiochos III to Zeuxis with two covering Letters (209 b.C.), «EA» 10 (1987), pp. 7-17; J. Ma, Antiochos III (1999), cit., pp. 288-292 n° 4 = Antiochos III (2004), cit., pp. 326-330 n° 4; B. Virgilio, Lancia, diadema e porpora2, cit., pp. 236-239 n° 9.
[25] L. Troiani, Il funzionamento dello stato ellenistico e dello stato romano nel V e nel VI libro delle “Storie” di Polibio, in Aa.Vv., Ricerche di storiografia greca di età romana, Pisa 1979, pp. 9-19; B. Virgilio, Polibio, il mondo ellenistico e Roma, cit., pp. 60-70 = «Studi Ellenistici» XX, cit., pp. 329-341.
[26] Polibio V, 38.1-5 (Sosibio-Cleomene III); 42.7-8 (Ermia-Acheo); 43.5 (Molone-Antioco III); 50.10-14 (Ermia-Molone).
[27] Cornelio Nepote, Vita di Annibale 11.1-3. E. V. Hansen, The Attalids of Pergamon2, Ithaca-London 1971, p. 99.
[28] I. Labraunda 5; B. Virgilio, Lancia, diadema e porpora2, cit., pp. 178-180; pp. 276-279 n° 23.
[29] I. Labraunda 1-3; B. Virgilio, Lancia, diadema e porpora2, cit., pp. 172-176; pp. 272-275 n° 20-21.
[30] J.-M. Bertrand, Formes de discours politiques: décrets des cités grecques et correspondance des rois hellénistiques, «RD» 63 (1985), pp. 469-481 = Cl. Nicolet (ed.), Du pouvoir dans l’Antiquité: mots et réalités, Genève 1990, pp. 101-115; A. Bresson, Les cités grecques et leurs inscriptions , in A. Bresson, A-M. Cocula, C. Pébarthe (edd.), L’écriture publique du pouvoir, Paris-Bordeaux 2005, pp. 153-168.
[31] J. e L. Robert, Fouilles d’Amyzon en Carie, I, Paris 1983, pp. 132-137 n° 9 l. 2, l. 8; p. 135, p. 137; J. Ma, Antiochos III (1999), cit., p. 216 = Antiochos III (2004), cit., p. 163.
[32] E.g., C. B. Welles, RC 63 l. 8; 66 l. 11; B. Virgilio, Lancia, diadema e porpora2, cit., pp. 236-239 n° 9 ll. 23-24; H. Malay, A Copy of the Letter of Antiochos III to Zeuxis, cit., p. 408 l. 28; ecc.
[33] B. Virgilio, Polibio, il mondo ellenistico e Roma, cit.
[34] Polibio XV, 24.4-5 (dispotismo dei re); II, 47.5 (opportunismo); V, 88-90 (mikrodosía, mikrolepsía).
[35] F. Millar, The Emperor, the Senate and the Provinces, «JRS» 56 (1966), pp. 156-166: 166 = Id., Rome, the Greek World and the East. I: The Roman Republic and the Augustan Revolution, Chapel Hill-London 2001, pp. 271-291: 290.
[36] Ho rilevato altrove i casi di negligenza di funzionari seleucidici desumibili dalle epistole di Ikaros/Failaka e di Soli: B. Virgilio, Le esplorazioni in Cilicia e l’epistola regia sulla indisciplina dell’esercito acquartierato a Soli, in Mélanges en l’honneur de J.-P. Rey-Coquais, «MUSJ» 60 (2007), pp. 165-240: 215-217.
[37] F. Millar, Trajan: Government by Correspondence, in J. Gonzáles (ed.), Trajano Emperador de Roma, Roma 2000, pp. 363-388 = F. Millar, Rome, the Greek World and the East. II, cit., pp. 23-46.
[38] Sul complesso circuito della comunicazione reale si veda, e.g., J.-M. Bertrand, Réflexions sur les modalités de la correspondance dans les administrations hellénistiques. La réponse donnée par Antiochos IV épiphane à une réquête des Samaritaines, in L. Capdetrey, J. Nelis-Clément (edd.), La circulation de l’information dans les états antiques. Bordeaux-Paris 2006, pp. 89-104; L. Capdetrey, Pouvoir et écrit: production, reproduction et circulation des documents dans l’administration séleucide, ibid., pp. 105-125.
[39] B. Virgilio, Lancia, diadema e porpora2, cit., pp. 123-124. Copia di Eriza: J. Ma, Antiochos III (1999), cit., pp. 354-356 n° 37 = Antiochos III (2004), cit., pp. 405-408 n° 37. Copia di Nahavand: L. Robert, Inscriptions séleucides de Phrygie et d’Iran, in Hellenica VII, Paris 1949, pp. 5-29; B. Virgilio, Lancia, diadema e porpora2, cit., pp. 239-241 n° 10. Copia di Kermanshah: L. Robert, Encore une inscription grecque de l’Iran, «CRAI»1967, pp. 281-296 = OMS V, pp. 469-484.
[40]C. B. Welles, RC 54 e H. Swoboda, J. Keil, F. Knoll, Denkmäler aus Lykaonien, Pamphylien und Isaurien, Brünn-Prag-Leipzig-Wien 1935, pp. 33-35 n° 74-75; B. Virgilio, Lancia, diadema e porpora2, cit., p. 167.
[41] B. Virgilio, Lancia, diadema e porpora2, cit., pp. 162-164; pp. 295-298 n° 30 ll. 17-24.
[42] C. B. Welles, RC 52 ll. 42-48; ll. 47-48.
[43] M. Holleaux, Le décret des Ioniens en l’honneur d’Eumène II, «REG» 37 (1924), pp. 305-330, pp. 478-479: 310-311 = Études d’épigraphie et d’histoire grecques, II, Paris 1938, pp. 153-178: 158.
[44] C. B. Welles, RC 61 ll. 17-18; B. Virgilio, Il “tempio stato” di Pessinunte fra Pergamo e Roma nel II-I secolo a.C., Pisa 1981, pp. 31-34 n° 7; Id., Lancia, diadema e porpora2, cit., pp. 307-308 n° 33.VII; I. Pessinous 7 l. 17-18.
[45] W. Schubart, Bemerkungen zum Stile hellenistischer Königsbriefe, «APF» 6 (1920), pp. 324-347: 339-340.
[46] B. Virgilio, Il “tempio stato”di Pessinunte, cit., pp. 126-128; Id., Lancia, diadema e porpora2, cit., pp. 189-191.
[47] M. Segre, Iscrizioni di Licia. I. Tolomeo di Telmesso, «Clara Rhodos» 9 (1938), pp. 181-208; F. G. Maier, Griechische Mauerbauinschriften, Heidelberg 1959, I, pp. 248-250 n° 76; B. Virgilio, Lancia, diadema e porpora2, cit., pp. 300-302 n° 32 ll. 1-7.
[48] W. Schubart, Bemerkungen zum Stile hellenistischer Königsbriefe, cit.
[49] M.-Th. Lenger, C. Ord. Ptol.2, 24.
[50] W. Schubart, Bemerkungen zum Stile hellenistischer Königsbriefe, cit., pp. 326-327
[51] Lettera di Aristea 26.
[52] I. Milet 139 (con Nachtrag p. 172); C. B. Welles, RC 14.
[53] W. Schubart, Bemerkungen zum Stile hellenistischer Königsbriefe, cit., p. 328.
[54] C. B. Welles, RC 25; TAM IV.1, 1; K. J. Rigsby, Asylia. Territorial Inviolability in the Hellenistic World, Berkeley-London-Los Angeles 1996, pp. 118-121 n° 11.
[55] W. Schubart, Bemerkungen zum Stile hellenistischer Königsbriefe, cit., pp. 338-339, 342.
[56] W. Schubart, Bemerkungen zum Stile hellenistischer Königsbriefe, cit., p. 345.
[57] Si veda, e.g., L. Capdetrey, Pouvoir et écrit: production, reproduction et circulation des documents dans l’administration séleucide, cit.; Id., Le pouvoir séleucide. Territoire, administration, finances d’un royaume hellénistyique (312-129 avant J.-C.), Rennes 2006, pp. 335-359.
[58] C. B. Welles, RC, pp. XLVI-XLVII.
[59] F. Millar, The Emperor in the Roman World2, cit., p. 227.
[60] D. Randall, Epistolary Rhetoric, the Newspaper, and the Public Sphere, «P&P» 198 (2008), pp. 3-32: 5-6.
[61] F. Guizzi, Il re, l’amico, i Galati. Epistola inedita di Eumene II alla città di Tabai, «MedAnt» 9 (2006), pp. 181-203: p. 182 col. I ll. 1-20.
[62] B. Virgilio, Lancia, diadema e porpora2, cit., pp. 47-65.
[63] G. Manganaro, Una biblioteca storica nel ginnasio di Tauromenion e il P.Oxy. 1241, «PP» 29 (1974), pp. 389-409: 391-394; H. Blanck, Un nuovo frammento del catalogo della biblioteca di Tauromenion, «PP» 52 (1997), pp. 241-255; F. Battistoni, The Ancient Pinakes from Tauromenion: some new Readings, «ZPE» 157 (2006), pp. 169-180.
[64] L. Capdetrey, Le pouvoir séleucide, cit., p. 279.
[65] E.g., L. Prandi, Callistene: uno storico tra Alessandro e i re Macedoni, Milano 1985, pp. 21-22.
[66] Plutarco, Vita di Eumene, 1.4; 2.6; Arriano, Anabasi di Alessandro, V, 24.6.
[67] H. Blanck, Un nuovo frammento del catalogo della biblioteca di Tauromenion, cit., p. 247.
[68] P. Briant, Lettre ouverte à Alexandre le Grand, Paris 2008, p. 42.
[69] E. Bikerman, Institutions des Séleucides, cit., p. 197.
[70] Pros. Ptol. I (1950), n° 1-13; Pros. Ptol. VIII (1975), n° 1-13e.
[71] G. Manganaro, Kyme e il dinasta Philetairos, «Chiron» 30 (2000), pp. 403-41; Ph. Gauthier, De nouveaux honneurs cultuels pour Philétairos de Pergame: à propos de deux inscriptions récemment publiées, «Studi Ellenistici» XV, Pisa 2003, pp. 7-23.
[72] I. Pergamon 7 e 18; C. B. Welles, RC 16 e 23.
[73] A. Laumonier, Inscriptions de Carie, «BCH» 58 (1934), pp. 291-380: pp. 291-298 n° 1; J. Crampa, I. Labraunda (1969), pp. 86-96: 87-89.
[74] W. Schubart, Bemerkungen zum Stile hellenistischer Königsbriefe, cit., pp. 346-347.
[75] Fr. Schroeter, De regum hellenisticorum epistulis in lapidibus servatis. Quaestiones stilisticae, Diss., Leipzig 1932, p. 1.
[76] Fr. Schroeter, De regum hellenisticorum epistulis, cit., pp. 68 69 n° 18; p. 72 n° 22; pp. 74-75 n° 25-26.
[77] G. De Sanctis, in «RFIC» 9 (1931), p. 551 = Scritti Minori, VI.2, Roma 1972, p. 82; W. W. Tarn, «ClRev» 46 (1932), pp. 138-139.
[78] C. B. Welles, Royal Correspondence in the Hellenistic Period. A Study in Greek Epigraphy, New Haven-London-Oxford-Prague 1934.
[79] C. B. Welles, RC, pp. VII-VIII.
[80] A. Wilhelm, Zu König Antigonos’ Schreiben an die Teier, «Klio» 28 (1935), pp. 280-293 = Kleine Scriften, II.4 (2002), pp. 508-521; Id., Griechische Königsbriefe, cit.
[81] B. Virgilio, Roi, ville et temple, cit., p. 431 = Re, città e tempio, cit., pp. 40-41; Id., Le esplorazioni in Cilicia e l’epistola regia, cit., p. 211.
[82] B. Virgilio, Le esplorazioni in Cilicia e l’epistola regia, cit., pp. 210-223.
[83] C. B. Welles, RC 5.
[84] C. B. Welles, RC 70.
[85] C. B. Welles, RC 29 e 68. Ma sull’uso di plurale e singolare nella corriposndenza attalide, basterà qui rinviare, e.g., a L. Jonnes, M. Ricl, A new Royal Inscription from Phrygia Paroreios, cit., p. 17; P. Herrmann, H. Malay, New Documents from Lydia, cit., p. 57 con nota 72.
[86] A. Wilhelm, in R. Heberdey, A. Wilhelm, Reisen in Kilikien, ausgeführt 1891 und 1892 im Auftrage der Kaiserlichen Akademie der Wissenschaften, «ÖAW Denkschriften» 44.6 (1896), pp. 1-168: 42-43 n° 101.
[87] C. B. Welles, RC 30; B. Virgilio, Le esplorazioni in Cilicia e l’epistola regia, cit., p. 196.
[88] R. Laqueur, Quaestiones epigraphicae et papyrologicae selectae, Strassburg 1904, pp. 90-104: 99, 103.
[89] R. Laqueur, Quaestiones epigraphicae, cit., pp. 100-101.
[90] P. Herrmann, Antiochos der Grosse und Teos, «Anadolu» 9 (1965), pp. 29-159; SEG 41 (1991), 1003-1005; J. Ma, Antiochos III (1999), cit., pp. 308-321 n° 17-19 = Antiochos III (2004) cit., pp. 351-365 n° 17-19.
[91] SEG 41 (1991), 1004: ll. 6-7, ll. 12-13, ll. 16-17 (singolare); ll. 20-21, ll. 24-25, ll. 28-29 (plurale); SEG 41 [1991], 1005: l. 9 (singolare della regina Laodice).
[92] Giuseppe, Antichità Giudaiche, XII, 147-153.
[93] Giuseppe, Antichità Giudaiche, XII, 138-144. L’uso del singolare è prevalente in alcune epistole seleucidiche riportate da I Maccabei, 10.25-45; 11.57; 15.1-9; II Maccabei, 9.18-27; 11.16-21; ecc.
[94] Ph. Gauthier, Nouvelles inscriptions de Sardes, II, Genève 1989, pp. 47-79 n° 2 l. 14, ll. 16-18.
[95] G. Pugliese Carratelli, Supplemento epigrafico di Iasos, «ASA» 45-46 (1967-1968), pp. 437-486: pp. 445-453 n° 2; ibid., 46-47 (1969-1970), pp. 400-402 (con J. e L. Robert, Bull. Épigr. 1971, 621; 1972, 423; 1973, 432 e 437; 1974, 544); I. Iasos 4 (con Ph. Gauthier, G. Rougemont, Bull. Épigr. 1987, 18); J. Ma, Antiochos III (1999), cit., pp. 329-335 n° 26 = Antiochos III (2004), cit.,pp. 375-382 n° 26 l. 5, l. 12, l. 16, ll. 29-31 (un solo plurale: l. 27); M. Nafissi, L’iscrizione di Laodice (IvIasos 4). Revisione del testo e nuove osservazioni, «PP», 56 (2001), pp. 101-146.
[96] I. Labraunda 3, l. 2, l. 10; I. Labraunda 8, ll. 19-20. L’attribuzione di C. B. Welles, RC 29 a Olimpico accresce il numero dei casi di uso del singolare.
[97] I. Labraunda 4 (con I. Mylasa 23); I. Labraunda 6; I. Labraunda 45.
[98] Copia di Akşehir: H. Malay, A Copy of the Letter of Antiochos III to Zeuxis, cit., p. 408 l. 17 (Philomelos), l. 21 (Zeuxi). Copia di Pamukçu: H. Malay, Letter of Antiochos III to Zeuxis, cit.; J. Ma, Antiochos III (1999), cit., pp. 288-292 n° 4 = Antiochos III (2004), cit., pp. 326-330 n° 4; B. Virgilio, Lancia, diadema e porpora2, cit., pp. 236-239 n° 9 l. 2, ll. 8-10.
[99] Y. H. Landau, A Greek Inscription found near Hefzibah, «IEJ» 16 (1966), pp. 54-70; B. Virgilio, Lancia, diadema e porpora2, cit., pp. 286-291 n° 27: IIIb ll. 12-13; IVb ll. 22-23.