La riforma fiscale del Governo è a beneficio di pochi (ricchi)

Occorre anche considerare che la gran parte delle famiglie molto ricche italiane ha la propria residenza nelle regioni del Nord e, dunque, la tassa piatta redistribuisce reddito anche a danno del Mezzogiorno. Il reddito pro-capite annuo nel Sud del Paese è, infatti, pari a 16,500 euro, a fronte dei 30.000 e oltre delle famiglie del Nord. È stato calcolato che la flat tax trasferirebbe circa 50 miliardi di euro dalle tasche dei più poveri alle tasche dei più ricchi. Nel programma economico di Forza Italia, non a caso, è chiaramente detto che le minori tasse non vanno a beneficio di tutti, ma vanno a beneficio solo di “chi crea ricchezza, chi crea lavoro, chi investe”: gli imprenditori e nemmeno tutti, soprattutto quelli molto ricchi. L’operazione costa. In termini di minori entrate, si calcola una spesa di circa 50miliardi di euro. È un importo enorme, se si considera che la legge di Bilancio per il 2022 prevede una spesa corrente, al netto della spesa per interessi, di circa 593miliardi di euro. Senza scostamenti di bilancio, questo significa che l’introduzione della tassa piatta comporta minori spese per una percentuale pari all’8.5% della spesa corrente: dunque, decurtazioni rilevanti alla previdenza, all’istruzione, alla salute e, in generale, al welfare. La soppressione totale del reddito di cittadinanza promessa dalla Destra (ammesso che sia desiderabile), stando ai calcoli dell’Ufficio Studi della CGIA, comporterebbe un risparmio di soli 19 miliardi in quattro anni: troppo poco per finanziare il programma di detassazione. La base scientifica della flat tax è una cattiva teoria economica, peraltro obsoleta: una teoria che suscitò un certo interesse alla fine degli anni Settanta, elaborata dall’economista statunitense Arthur Laffer. Si tratta dell’idea secondo la quale la riduzione dell’aliquota di imposta incentiva il lavoro. Laffer partì dall’ovvia constatazione che gli individui non lavorano se il loro reddito da lavoro è tassato al 100% e ne derivò la falsa implicazione per la quale le ore lavorate aumentano al ridursi della tassazione. La curva di Laffer descrive la relazione fra aliquota di imposta e gettito fiscale e ha un andamento a campana: quando l’aliquota si riduce, aumentano le ore lavorate, aumenta la produzione, aumentano le entrate dello Stato, fino al raggiungimento di un massimo. La teoria economica e l’esperienza storica dimostrano la radicale falsità di questa tesi:a) L’effetto immaginato da Laffer è operativo solo se applicato a un’economia nella quale è molto significativa la presenza del lavoro autonomo (per il quale è possibile scegliere le ore lavoro). L’effetto di Laffer è ovviamente poco significativo o del tutto inesistente nel caso del lavoro dipendente, dal momento che, a parte gli straordinari, non è possibile, in questo caso, scegliere liberamente quante ore lavorare. In più, poiché la reazione degli operatori economici alla riduzione delle tasse è del tutto imprevedibile, è logicamente impossibile capire di quanto (eventualmente) aumentano le ore lavorate al ridursi dell’aliquota d’imposta e, per conseguenza, è logicamente impossibile trovare il punto di massimo gettito. b) Negli USA di inizio anni Ottanta, Ronald Regan, convinto delle virtù salvifiche della tesi di Laffer, provò ad applicarla con un massiccio programma di detassazione. Ne derivò un’esplosione del debito pubblico, a dimostrazione del fatto che la riduzione delle aliquote di imposta anziché aumentare il gettito fiscale lo riduce. L’effetto di Laffer è dunque inesistente. Le diseguaglianze in Italia sono esplosive (l’Italia è fra i Paesi OCSE quello che sperimenta le più ampie divaricazioni di reddito e patrimonio) e la flat tax non farebbe che aumentarle, con un esito a dir poco dubbio sulla crescita economica.

[“La Gazzetta del Mezzogiorno” del 28 marzo 2023]

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